Radicali:
la deriva carismatica
di Eugenio Stuart Cavallotti (pseudonimo alternativo a Felice Mill Colorni, ben presto abbandonato perché rivelatosi ragione di fraintendimenti)
Si
è visto come, dopo
l’uscita dal Partito radicale del vecchio gruppo dirigente
nel 1963 e la sua
rifondazione ad opera del gruppo di Pannella e dei suoi compagni
provenienti
dall’Ugi, per alcuni anni l’ispirazione politica e
ideale del Partito radicale avesse
avuto forti tratti filocomunisti, tali che, a rileggere oggi quella
vicenda, il
Pr dei primi anni sessanta potrebbe apparire segnato da un forte e
deciso
carattere frontista. Tale stagione si era conclusa nel momento in cui i
radicali avevano deciso di impegnarsi pressoché a tempo
pieno a favore
dell’approvazione della legge sul divorzio e in altre
battaglie per i diritti
civili, trascurando per parecchi anni quasi del tutto ogni argomento
relativo
alla politica economica o a quella internazionale. Dopo il periodo in
cui tutti
gli sforzi dei nuovi radicali erano stati diretti a prendere le
distanze dal
vecchio partito liberalradicale e pannunziano, si apriva
così la stagione
probabilmente più felice della storia del Pr, quella
destinata a segnare davvero,
nella prima metà degli anni settanta, la storia politica
italiana e anche la
storia della mentalità e del costume.
È
la stagione della
Lega per il Divorzio, della creazione di uno schieramento di tutti i
laici a
sostegno della legge Fortuna-Baslini, della sua inaudita approvazione
nel 1970
contro l’opposizione della Dc, isolata, assieme al solo Msi,
per la prima volta
dal ’45 su una legge di grande importanza politica.
È la stagione
dell’approvazione della legge sull’obiezione di
coscienza, anch’essa determinata
dall’iniziativa radicale. È la stagione della
storica vittoria divorzista nel
referendum abrogativo del 1974, che svela a un paese incredulo i nuovi
connotati di un’Italia che l’intera classe politica
aveva creduto fermi, nella
sostanza, al 1948, all'egemonia culturale e sociale del cattolicesimo
integralista. Per rendersi conto di quanto profonda fosse stata allora
la presa
di coscienza del mutamento intervenuto, basterebbe rileggersi le
collezioni dei
quotidiani e dei settimanali italiani del periodo precedente e di
quello
successivo al referendum del ’74: magari i media italiani non
guariranno mai
del tutto dal servilismo connaturato da secoli a buona parte del mondo
intellettuale italiano, ma è impossibile non notare un tono
nuovo, un marcato attenuarsi
di antichi rituali di ossequio nei confronti del potere politico, una
libertà
di critica e di satira fino ad allora considerate patrimonio di altre
latitudini europee. È questa, ancora, la stagione della
battaglia radicale
sull’aborto, della centralità politica e sociale
delle battaglie per i diritti
civili.
Il
Partito radicale era
ormai conosciuto nel paese. Se, fino al 1973, la sua stessa esistenza,
i nomi e
i volti dei suoi dirigenti a cominciare da quelli di Pannella, erano
noti solo
a una ristretta cerchia di addetti romani alla politica e
all’informazione, ora
il Pr era un soggetto conosciuto e riconoscibile nello schieramento
politico,
anche se, al di là delle sue singole battaglie, i suoi
connotati culturali
erano indecifrabili a molti e variamente declinabili anche al suo
interno:
tanto che fin da allora, nelle sue campagne volte ad ottenere formali
iscrizioni, minacciando in caso contrario l’autoscioglimento,
il Partito
radicale, non diversamente dalle sue “agenzie
esterne”, di massa come la Lid,
di modeste dimensioni come la Loc (Lega degli Obiettori di Coscienza) o
puramente nominali come la Liac (Lega Italiana per
l’Abrogazione del
Concordato), raccoglieva consensi e adesioni negli ambienti politici e
culturali più disparati. Più di altri, i giovani
della sinistra liberale di
quegli anni, che avevano sperato di veder nascere quel dinamico partito
di
massa della sinistra liberale che non aveva mai visto la luce in Italia
dall’epoca dell’introduzione del suffragio
universale, avrebbero avuto di lì a
poco di che disilludersi.
Com’è
potuto accadere
che, dopo soli cinque anni dalle grandi vittorie politiche e sociali
sul
divorzio e sull’aborto, dopo l’ingresso in
Parlamento nel ’76 e dopo il
successo elettorale del ’79, il partito anticlericale e dei
diritti individuali
di libertà, il partito della secolarizzazione e della
“società radicale”, si
sia potuto riconvertire nel giro di pochi mesi nel partito che
ricercava come
propri alleati privilegiati il Vaticano e il cattolicesimo
antimodernista e
reazionario di Giovanni Paolo II nell’improvvisata battaglia,
approssimativa
quanto megalomane, per sconfiggere niente meno che “la fame
nel mondo”,
reinventandosi addirittura un’identità tout court
“cristiana” se non
addirittura cattolica[1]?
E
com’è potuto accadere
che, nel decennio successivo, il partito
“mitterrandiano” (fino al punto di
fare proprio il simbolo elettorale del Ps francese)
dell’alternativa unitaria
di una sinistra rinnovata al “regime
democristiano”, visto come il continuatore
– per quel che poteva essergli sopravvissuto negli apparati
dello Stato e nelle
strutture economiche e sociali – del regime fascista, abbia
preso per buono il
carattere “liberale” dell’alleanza
berlusconiana con gli eredi del Msi e con la
parte più integralista del mondo clericale, fino a volersi
esso stesso parte
del “Polo delle libertà”?
Com’è
potuto accadere
che i liberali temerari che, negli anni cinquanta, propugnavano
l’alleanza con
il Pci stalinista di allora, abbiano rispolverato l’onorato
carnet della critica
ideologica liberaldemocratica nei confronti del totalitarismo
comunista, per
anni snobbato in nome del pragmatismo e delle alleanze politiche
incentrate
unicamente sui propri “single issues”,
proprio quando il comunismo reale era finalmente crollato, e dopo che
il Pci
aveva deciso di cambiare natura, avviandosi, magari con gravi ed
inescusabili
ritardi e contraddizioni, sulla strada che gli stessi radicali gli
avevano
chiesto di imboccare già tanti decenni prima?
E
ancora: come è
possibile che non solo alcuni professionisti della politica, ma anche
un numero
non irrilevante di militanti “credenti” e di
elettori, abbiano seguito il
leader radicale fino ad oggi, spesso accompagnandolo in ciascuna di
queste
fantasiose metamorfosi?
Queste
domande sono più
rilevanti di quel che può apparire, perché, lungi
dal riguardare il solo
percorso compiuto in questi decenni da un soggetto anomalo e
minoritario del
sistema politico italiano, rimandano a un grappolo di questioni che
sono oggi
al centro dell’evoluzione dei sistemi politici democratici,
facendo del caso
radicale un esempio paradigmatico di tendenze profonde che esso ha
anticipato
ed evidenziato.
È
necessario, a questo
proposito, prendere sul serio le ricorrenti affermazioni dei dirigenti
radicali, secondo cui il tratto più rilevante e
significativo dell’esperienza
radicale e della sua “alterità” sarebbe
stato costituito, più ancora che dalle
lotte politiche da esso condotte, dal suo peculiare modello
organizzativo di
“partito nuovo”, modello esemplare di rapporti
politici, spesso additato
all’intera democrazia italiana ed europea addirittura quale
“prefigurazione di
un progetto e di un programma di società” (almeno
fino a quando questo
linguaggio era merce corrente, prima cioè che le rinnovate
fortune dell’“anticostruttivismo”
alla Hayeck avessero fatto breccia nel velato giacobinismo democratico
di
Pannella).
Non
si tratta però
tanto di prendere sul serio lo Statuto presidenzialista, federalista, e
al
tempo stesso giacobino (per la sua perenne modificabilità a
maggioranza
semplice dei Congressi nazionali), che i nuovi radicali si erano dati
negli
anni sessanta, più volte poi rimaneggiato, e neppure di
analizzare per ora nel
dettaglio le contraddizioni fra quel modello e la concreta prassi della
vita
interna del Pr, che si evidenziavano almeno una volta
all’anno in occasione dei
Congressi nazionali e delle polemiche sulla democrazia interna, sul
rispetto
delle regole, sull’accesso all’informazione interna
da parte delle minoranze,
sull’uso del finanziamento pubblico o della Radio radicale.
Non si tratta per
ora neppure di esaminare come, nel corso degli anni, le norme
“presidenzialiste” dello Statuto fossero state
applicate in modo rigido ed
estensivo, mentre quelle “federaliste” fossero
andate incontro a una sostanziale
disapplicazione prima e ad una franca ripulsa poi, quando le dimensioni
meno
lillipuziane del partito ne avrebbero reso possibile una prima reale
messa in
pratica.
Per
comprendere come
tutto questo sia stato possibile, è necessario affrontare un
nodo centrale
della vicenda radicale: il Partito radicale è stato in
questi decenni, di fatto
almeno a partire dal 1974 e in modo esplicito dopo il 1980, il primo
esempio in
ordine di tempo, dopo quello gollista francese, di un vero e proprio
partito
politico “carismatico” operante
all’interno di un sistema politico occidentale.
Naturalmente, per comprendere il senso di questa affermazione, bisogna
riferirsi non già al significato generico e giornalistico di
questa
definizione, bensì a quello specifico e ormai classico
formulato nella
sociologia di Max Weber. Come è noto, il potere carismatico
è, secondo tale
formulazione, quello fondato “sulla dedizione straordinaria
al carattere sacro
o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli
ordinamenti
rivelati o creati da essa”[2]
Il
carisma è “una qualità straordinaria
[…] che viene attribuita ad una persona.
Pertanto questa viene considerata come dotata di forza e
proprietà
soprannaturali o sovrumane, o almeno eccezionali in modo specifico, non
accessibili
agli altri […] e, di conseguenza, come
‘duce’ [Führer]”[3].
La definizione va ricondotta, come è altrettanto noto, al
carattere di “modello
idealtipico” proprio dei concetti della metodologia
weberiana: concetti che
“possiedono il carattere di un’utopia, conseguita
mediante l’accentuazione
concettuale di determinati elementi della realtà”[4],
cui vanno commisurati i dati della realtà empirica: nel caso
di un movimento
politico carismatico che agisca nella società contemporanea,
non si avrà quindi
in pratica mai una rispondenza totale al modello idealtipico, ma si
tratterà
comunque di un compromesso fra il principio di legittimazione
carismatico e
quello “razionale” dominante in Occidente, per il
quale il potere si basa
“sulla credenza nella legalità di ordinamenti
statuiti”[5].
E
va altrettanto ovviamente ricondotta alla realtà del
microcosmo radicale, entro
cui soltanto il carattere carismatico della leadership di Pannella
veniva
riconosciuto dalla maggioranza dei membri della comunità
radicale. Entro questi
ovvi limiti, l’appartenenza del Partito radicale alla
famiglia dei movimenti
carismatici sembra indiscutibile. Al tempo stesso costituisce
però
un’importante smentita della tesi secondo cui la garanzia per
la sopravvivenza
delle istituzioni liberali e democratiche alla loro gestione da parte
di capi
carismatici sarebbe costituita dall’intrinseca
volatilità e, quindi, dalla
facile revocabilità, del potere carismatico.
È
interessante rilevare
che il carattere carismatico del Partito radicale era stato teorizzato
per la
prima volta, dall’allora radicale Angelo Panebianco, solo nel
1980[6],
alla vigilia di quel Congresso straordinario “di
rifondazione” che avrebbe
trasformato per qualche stagione il partito libertario dei diritti
individuali
di libertà nel partito della lotta alla fame nel mondo, da
condursi in alleanza
strategica con la Chiesa romana di Giovanni Paolo II. Più o
meno nello stesso
periodo, un’articolata riproposizione delle tesi weberiane
sulla democrazia
carismatica e plebiscitaria veniva avanzata da Luciano Cavalli[7],
inizialmente in non smentita sintonia con le proposte craxiane di
riforma
costituzionale. Anche se oggi l’esigenza di riformare le
istituzioni in senso
tendenzialmente presidenzialistico e plebiscitario viene ormai fatta
valere senza
più neppure avvertire il bisogno di fornirle pezze di
appoggio culturali di
sorta, risalire a una delle origini teoriche di uno dei più
rilevanti dibattiti
politici ancora aperti in Italia può forse essere utile
anche per metterne in
discussione alcuni ormai poco controversi presupposti, e in questo
l’esperienza
storica del Partito radicale può essere illuminante (anche
per chi sia troppo
avvertito e smaliziato per non rischiare di confondere differenze e
intrinseche
discordanze fra “democrazia in grande” e
“democrazia in piccolo”, fra
funzionamento dei partiti e funzionamento delle istituzioni[8]).
Il
fatto è che, in
parte sulle orme dello stesso Weber, i riscopritori della sua teoria
del
carisma come strumento euristico e interpretativo di ricorrenti
fenomeni
sociali tendono spesso anche a farla propria come programma politico,
magari
sottovalutandone largamente i rischi di involuzione autoritaria,
soprattutto in
un paese tutt’altro che fornito di sostanziosi anticorpi
nelle sue istituzioni
e soprattutto nella cultura politica diffusa. Il clima culturale del
resto, con
la disinvolta iscrizione all’albo del pensiero liberale di
quasi tutta la
cultura conservatrice europea degli ultimi due secoli, ha operato
largamente
anche nei confronti di Weber, tanto poco sensibile in realtà
a qualunque
tentazione liberale, da ritenere (tra l’altro in singolare
contrasto con la sua
precoce critica dell’idea di “progresso”)
che preoccuparsi per la sorte dei
diritti di libertà fosse ormai anacronistico già
ai suoi tempi: fino ad
affezionarsi alla battuta, reiteratamente da lui riproposta, secondo
cui le
idee liberali ed i diritti umani, lungi dall’essere una
conquista fragile e
perennemente minacciata, erano ormai talmente acquisiti alla coscienza
contemporanea (nella Germania guglielmina!) da essere divenuti
“così banali
come il pane nero per chi ha fin troppo da mangiare”[9].
In
queste
riproposizioni, e in particolare in quella di Panebianco, il carisma
era visto
come la sola forza capace di produrre un reale mutamento sociale:
sicché nel Pr
il suo eventuale superamento, “nella direzione di quella che
Max Weber definiva
la ‘routinizzazione’ del carisma”, e la
sua sostituzione o integrazione con
alcuni elementi organizzativi “burocratici”,
“sarebbe [stata] poco meno che una
catastrofe per i radicali”: nonostante
l’“esplosiva” contraddizione, che
Panebianco non si nascondeva, fra il principio organizzativo
carismatico e i
valori liberali e libertari professati dal Pr[10].
Non
è un caso che
Panebianco fosse arrivato a queste conclusioni solo nel 1980: anzi, in
precedenza, assieme al gruppo che si raccoglieva attorno alla rivista
Argomenti
radicali, diretta da Massimo Teodori, era stato fra i protagonisti
dell’unico,
fallito, tentativo reale di introdurre elementi di democratizzazione
“burocratica”
all’interno del Pr, al Congresso nazionale di Bologna del 1977[11].
In realtà era stato lo stesso Pannella ad accettare prima e
a “rivelare” poi
(sia pure facendo ricorso alle consuete massicce dosi di
imbellettamento
continuistico) quella che era stata, nel corso degli anni, una vera
trasformazione del Pr, da partito volto a inventarsi, anche con molta
ingenuità, un’inedita e, nelle intenzioni,
esemplare organizzazione interna
libertaria, a comunità carismatica dei seguaci del leader.
Il modello organizzativo disegnato un po’ astrattamente dallo Statuto radicale e dalla sua ideologia organizzativa prevedeva che la lealtà dei membri non si fondasse su un comune patrimonio politico o ideale, e neppure su comuni interessi e valori, bensì solo su un programma concreto di iniziative politiche: salvo poi ad inserire ogni anno nelle mozioni finali dei congressi, approvate in genere a maggioranza dei tre quarti e quindi ritenute statutariamente vincolanti per tutti gli iscritti, giudizi politici ed ideologici così dettagliati da non trovare riscontro nella prassi di nessun altro partito politico italiano del periodo, imponendo quindi, almeno in teoria, un’omogeneità di valutazioni non solo strettamente politiche, ma anche ideologiche, straordinariamente elevata (ed anzi mirando, per tale via, a delegittimare le opposizioni interne sconfitte al congresso che, se non condividevano nei dettagli le mozioni “vincolanti”, venivano considerate una presenza estranea, incongrua e perfino delegittimata a riproporre le proprie tesi sconfitte nel congresso successivo, dato che l’ideologia organizzativa voleva che il partito si “ricostituisse” ogni anno esclusivamente sulla base di tali mozioni anziché sulla base di un “acquis” prodottosi attraverso anni di impegno comune dei dirigenti e dei militanti e di consenso da parte dei cittadini elettori[12]).
In
ogni caso,
dall’approvazione del nuovo Statuto nel 1967 e almeno fino al
1974, il Pr
ostentava un’ideologia organizzativa assolutamente
egualitaristica, tanto che
la stessa indiscussa leadership di Pannella tendeva ad essere
mascherata e
occultata sia nella prassi dei congressi, sia attraverso
l’elezione di
segretari nazionali giovanissimi o, almeno in un caso, addirittura
afasici. La
diffidenza nei confronti dell’idea stessa di leadership era
del resto naturale
in un partito che, a dispetto delle ricostruzioni anche in questo campo
artefatte degli ultimi anni, si era inizialmente trovato in buona
sintonia,
anche se estraneo per ragioni anagrafiche, con il movimento del
‘68[13].
Perfino
nelle iniziative che lo vedevano assoluto protagonista, Pannella
tendeva sempre
ad associare qualche altro esponente del partito: la legge
sull’obiezione di
coscienza passava alla fine, nel 1972, grazie a un digiuno che non
veniva
presentato come il più lungo – fino ad allora -
digiuno di Pannella, ma come il
digiuno di Pannella e dell’obiettore Alberto Gardin. Pannella
“si arrendeva” e
accettava il suo ruolo di leader reale di un piccolo partito solo nella
primavera del 1974, una volta fallito, con il mancato successo della
raccolta
delle firme sul primo “pacchetto” di richieste di
referendum, il tentativo di
dare una soggettività autonoma al Pr (era il periodo in cui
una segreteria
nazionale di otto membri tentava di stimolare la crescita organizzativa
del
partito sulla base del progetto degli otto nuovi referendum e della
campagna in
atto per la difesa del divorzio, mentre Pannella cercava di dar vita al
quotidiano “Liberazione”, tentativo peraltro
anch’esso conclusosi senza
successo).
Il
rilancio del Pr era
interamente affidato al più interminabile ed
“epico” dei suoi digiuni, che si
caricava strada facendo di sempre nuovi e più ardui
obiettivi. Pressoché
nessuno di essi sarebbe stato conseguito, ma alla fine il successo di
immagine
sarebbe stato ciononostante enorme: fu allora che Pannella
diventò un noto
personaggio pubblico e televisivo, fu allora che il suo nome e il suo
volto,
dopo aver conquistato le prime pagine dei quotidiani e le copertine dei
settimanali, divennero noti al largo pubblico. Fu allora che Pannella
decise di
accettare il ruolo che la sua funzione pubblica e la debolezza del suo
partito
sembravano assegnargli, e fu da allora che il tentativo di conferire
una
soggettività reale al partito venne sempre più
esplicitamente respinto sia da
Pannella che da quasi tutto il gruppo storico dei “nuovi
radicali”. Senza la
necessità di riforme statutarie formali (che pure non
sarebbero mancate), il
“partito di programma”, l’associazione
laica di cittadini, (pensato come una
vera e idealtipica “Gesellschaft” politica) si
trasformava in “comunità”, in
vera e propria “Gemeinschaft” tönniesiana,
unita da una vera e propria fede
nelle capacità e nella moralità del capo e da un
senso profondo di radicamento
e di appartenenza. L’organizzazione del Pr avrebbe continuato
ad essere
proposta a tutti gli altri partiti come un modello, presentato anzi
come il
solo capace di far fronte alla crisi di legittimazione che si
evidenziava a
partire dalla fine degli anni settanta[14],
ma sarebbe stato un modello ben diverso da quello ingenuamente
democratico
delle origini. L’oggetto della lealtà dei membri
della comunità-partito non era
più costituito, se non nominalmente, dagli obiettivi
indicati nelle mozioni
congressuali, e neppure da un nucleo di interessi e valori,
bensì dalla persona
del leader. Proprio come nel modello puro, idealtipico, della
leadership
carismatica. Alla fine, alle elezioni non si sarebbe più
presentato il Partito
radicale, ma la “Lista Pannella”, risolvendo
così anche il problema, che aveva
assillato il gruppo dirigente radicale negli anni settanta, di non
rischiare di
produrre, attraverso la partecipazione a tornate elettorali locali, una
leadership periferica in grado di proporsi prima o poi come un
possibile
ricambio, interpretato come rischio, o certezza, di
“omologazione”. Con il
Congresso straordinario “di rifondazione”, che si
potrebbe dire
carismatico-religiosa, del 1980, quello della lotta alla fame nel
mondo, tale
processo giungeva alle sue ultime conseguenze.
Molti
hanno tentato,
con maggiore o minore successo, di imitare almeno in parte questo stile
politico, ma quel che va qui sottolineato è che gli stessi
radicali sono stati
fra i più decisi sostenitori della proposta di estendere
questo modello di
leadership dal piano del partito a quello delle istituzioni. Se nel
1975
Pannella si proclamava favorevole al sistema maggioritario a doppio
turno alla
francese[15],
e nel 1979, in occasione delle prime elezioni europee a suffragio
diretto,
Pannella si proponeva invece come rappresentante di quelle forze
politiche che,
come i verdi tedeschi e francesi e i liberali britannici, erano state
escluse
dal Parlamento per effetto del carattere maggioritario delle leggi
elettorali
del proprio paese[16],
da anni ormai le proposte di riforma dei pannelliani, e di molti altri
assieme
a loro, insistono con enfasi proprio sull’elemento della
“fiducia” personale,
del rapporto diretto fra elettorato ed eletto, come ricetta per la
soluzione
della crisi di legittimazione della rappresentanza politica:
echeggiando, coscientemente
o meno, le stesse soluzioni che Max Weber proponeva per la Germania del
primo
dopoguerra[17],
pur consapevole che la sola conciliazione possibile fra carisma e
democrazia è
“una specie di potere carismatico che si cela sotto la forma
di una legittimità
derivante dalla volontà dei sudditi”[18].
Ma nel suo caso il mezzo era adeguato al fine, perché il
“fine ultimo” di Weber
come uomo politico non era la costruzione o il consolidamento di una
società
liberale, bensì l’affermazione nel mondo della
potenza della nazione tedesca e
della sua cultura[19].
Chi
abbia conosciuto le
platee adoranti dei congressi radicali può dubitare che
l’assopimento
comunitaristico ed entusiastico della coscienza critica individuale in
nome
dell’entusiasmo collettivo, che ha reso possibili, nel caso
radicale, le più
fantasiose metamorfosi nell’orientamento, nelle alleanze e
negli stessi campi
di interesse e di intervento del partito di Pannella, possa essere una
direzione auspicabile per la riforma delle istituzioni.
Forse
l’intenso
dibattito di questi ultimi anni non ci consente più di
affermare senza
ulteriori distinguo, come se fosse un’ovvietà
liberale, che “c’è un solo modo
per costruire un ordine politico non oppressivo: quello di spersonalizzare e vincolare il
più possibile il potere politico”[20].
Ma non fino al punto di dimenticare che, nella classificazione di
Weber, il
modello della leadership carismatica si contrapponeva non tanto al
“potere
burocratico”, quanto al modello di legittimazione
“razionale-legale” [21].
La conciliazione fra carisma e democrazia liberale deve fare i conti
con la
radicale contrapposizione fra carisma e legalità, con
l’insofferenza del potere
carismatico per il rispetto di ogni tipo di norma generale e astratta,
di ogni
regola del gioco democratico, di ogni freno, garanzia, contrappeso o
controllo[22].
E non vi è nessuna garanzia che il carattere effimero e
caduco del carisma,
argomento principe dei teorici della sua integrabilità nella
democrazia[23],
si manifesti prima dell’avvenuta riscrittura autocratica di
qualche cruciale
regola del gioco. Da un lato, la società secolarizzata e
razionalizzata in cui
viviamo si è dimostrata, fin da pochi anni dopo la morte di
Weber nel 1920, ben
più esposta di quanto egli avesse potuto prevedere alla
fascinazione del dominio
carismatico. E il nuovo ruolo dei media nella politica e il tramonto
delle
subculture tradizionali della società industriale hanno
forse accentuato tale
predisposizione. D’altro canto, certo, quel che è
accaduto o può accadere
all’interno di una piccola comunità carismatica
settoriale, come è un piccolo
partito politico, non sarà suscettibile di riprodursi oggi
altrettanto
facilmente al livello delle istituzioni di uno Stato. Ma creare i
presupposti
perché un demagogo carismatico ci possa prima o poi provare
non è quel che
suggerirebbe una sana diffidenza liberale nei confronti del potere
politico e
dei suoi possibili e sempre probabili abusi. Oggi in Italia, i liberali
(non
solo quelli di sinistra) dovrebbero preoccuparsi per prima cosa di non
sottovalutare
i limiti culturali dei politici che si vogliono liberali.
[1] Il linguaggio curiale e le
sperticate apologie del
Papa in cui Pannella si produceva per qualche mese erano forse la spia
di una
sua effettiva crisi religiosa, ma resta incredibile che il partito
anticlericale e libertario di qualche anno prima si sia potuto in
maggioranza
accodare a tale metamorfosi di temi e di linguaggio: quando il Papa
inseriva
nel suo discorso pasquale un fugacissimo e avaro accenno al problema
della
fame, argomento di routine per un pontefice, Pannella si abbandonava a
considerazioni come questa: “Una splendida Pasqua
[…] Come non associarsi alle
parole del Papa: ‘Possa il Cristo risorto ispirare a tutti
[…] sentimenti di
solidarietà e di amore generoso verso tutti i nostri
fratelli che si trovano
nel bisogno’?”: cit. in “Wojtyla ci ha
ascoltato, non sarà l’anno di Erode”, La
Repubblica 17/4/79. Prometteva che “noi laici e voi cattolici
staremo uniti per
la vita” e quanto all’aborto rilevava
ecumenicamente che “siamo tutti contro
l’aborto di Stato e l’aborto
clandestino”: cit. in “Comincia il dialogo fra
Pannella e il Vaticano”, La Repubblica 14/4/79. Sintetizzava
così il suo
giudizio su Giovanni Paolo: “Dio ce l’ha dato, guai
a chi ce lo tocca”, cit. in
F. De Sanctis “La marcia dei laici in S. Pietro”,
Corriere della sera 17/4/79.
Il Congresso radicale diventava
“un’ecclesia” che decide “in
comunione”: “Il
Mein Kampf di Marco Pannella”, Quaderni radicali n.5-6,
gennaio-giugno 1979. La
Chiesa cattolica diventava, nel linguaggio del leader radicale
“la nostra
chiesa”: così in “Non sia
l’anno di Erode”, Notizie radicali 28/2/79. Neppure
un mese prima, parlando di aborto, Pannella denunciava ancora i
“buoni rapporti
con gli assassini” degli ambienti ecclesiastici contrari alla
depenalizzazione
dell’aborto: “La nostra lotta per la
vita”, Notizie radicali 1/2/79. Ma ora,
per una lunga stagione, il Pr sarà definito, fra le molte
altre cose, e senza
che pressoché nessuno trovi alcunché da
obiettare, “il partito dell’integrità
cristiana”: Pannella,
“L’editoriale”, Notizie radicali 20/1/83.
[2] Max Weber “Economia e
società”, a cura di Pietro
Rossi, 5 voll., Milano, Comunità, 1980 (ed. or. 1922, ed.
critica. or.
1956-72), vol. I, p.210.
[3] Ivi, p.238.
[4] Max Weber
“L’‘oggettività’
conoscitiva della scienza
sociale e della politica sociale” (ed. or. 1904), in Id.
“Il metodo delle
scienze storico-sociali”, a cura di Pietro Rossi, Torino,
Einaudi 1981 (1958),
p.107.
[5] “Economia e
società”, cit., vol. I pp.210ss., 260ss.,
vol. IV p.57, 101.
[6] Angelo Panebianco
“Carisma e Partito radicale: alcune
riflessioni”, Argomenti radicali, n.14, novembre 1979
– gennaio 1980.
[7] Luciano Cavalli, “Il capo
carismatico. Per una
sociologia weberiana della leadership”, Bologna, Il Mulino,
1981; Id. “Carisma
e tirannide nel secolo XX. Il caso Hitler”, Bologna, Il
Mulino, 1982; Id. “Il
Presidente americano. Ruolo e selezione del leader Usa
nell’era degli imperi
mondiali”, Bologna, Il Mulino, 1987; Id. e altri
“Leadership e democrazia”,
Padova, Cedam 1987.
[8] Su cui credo siano da considerare
conclusive le pur
lontane considerazioni di Juan Linz, “Michels e il suo
contributo alla
sociologia politica”, introduzione alla classica
“La sociologia del partito
politico nella democrazia moderna” di Roberto Michels,
Bologna, Il Mulino, 1966
(ed. or. 1925). Ciò non toglie che un leader giunto al
potere attraverso il
governo di un partito carismatico sarà certo tentato di
valersene per
riprodurre, nei limiti del possibile, il medesimo stile di leadership
anche nel
paese: e, come si è visto recentemente, la
società contemporanea offre significativi
strumenti per rendere concepibile un tale tentativo.
[9] Max Weber “La situazione
della democrazia borghese in
Russia” (ed. or. 1905), in Id. “Sulla Russia 1905/6
– 1917”, Bologna, Il
Mulino, 1981, p.69; Id. “La transizione allo
pseudocostituzionalismo in Russia”
(ed. or. 1906), ivi, p.136. Al di là della battuta,
è naturalmente possibile, e
anche facile, ricostruire l’estraneità radicale di
Weber a ogni possibile
tentativo di genealogia liberale, a partire dai suoi più
arrovellati testi
teorici e nel confronto con quelli di intervento politico contingente.
[10] Il saggio conteneva anche alcune
considerazioni,
francamente non condivisibili, su una ipotizzata correlazione fra
modello della
leadership carismatica e “etica della convinzione”,
che diedero luogo a una
disputa con le tesi di Cavalli (Panebianco “Tendenze
carismatiche nelle società
contemporanee”, Il Mulino n.228, luglio-agosto 1983).
Riprendendo l’argomento,
ma senza citare espressamente il caso del Pr, in un suo volume dedicato
ai
modelli organizzativi di partito, Panebianco sottolineava che tale
“tensione
ineliminabile” dipende dal fatto che i partiti carismatici di
orientamento
democratico, a differenza di quelli autoritari, “non possono
incorporare al
proprio interno principi organizzativi formali che vincolino
all’obbedienza al
capo”: “Modelli di partito. Organizzazione e potere
nei partiti politici”
Bologna, Il Mulino, 1982, n.54. p.294s.
[11] “Attuare integralmente lo
Statuto per realizzare il
‘partito nuovo’”, Argomenti radicali
n.3-4, 1977.
[12]A chi avanzava timide obiezioni
sulle sue affermazioni
più apodittiche nel corso di un Consiglio federale, Pannella
poteva così
replicare che “il partito è la sede di chi ha
già risposto a queste domande”:
Radio radicale, 27/11/83.
[13] La compromissione più
diretta e impegnativa era stata
il volume di due radicali, Carlo Oliva e Aloisio Rendi, “Il
movimento
studentesco e le sue lotte”, Milano, Feltrinelli, 1969,
ricostruzione
simpatetica e molto schierata, secondo cui il fulcro del movimento
sarebbe
stato costituito addirittura da “una rivalutazione
dell’individuo, della sua
libertà e dignità”, pur nella
consapevolezza che tale interpretazione non
coincideva con “quella che il movimento studentesco
dà di se stesso”, p.7s.;
cfr. anche Angiolo Bandinelli “Come inventare la scuola
‘alternativa’”,
L’Astrolabio 20/12/70; Gianfranco Spadaccia
“L’alibi delle bombe”,
L’Astrolabio
4/5/69. “Vicini al movimento del ‘68”
giudicava nella sostanza i radicali
Massimo Teodori, nel suo “I nuovi radicali. Storia e
sociologia di un movimento
politico”, scritto assieme a Panebianco e a Pietro Ignazi,
Milano, Mondadori,
1977, pp.101s. Almeno fino al ’77, Pannella ostentava un
atteggiamento di
solidarietà e di vicinanza esistenziale e valoriale con la
subcultura giovanile
di quegli anni, e con i precursori, i protagonisti e i reduci della
“rivolta
giovanile”. Solo al Congresso straordinario del ’77
improvvisamente Pannella
abbandonava il suo esibito giovanilismo esistenziale, esternato fino ad
allora
persino nell’abbigliamento, e, nello sconcerto di molti
militanti, cominciava a
sottolineare con personale partecipazione i problemi della condizione
degli
anziani.
[14] Teodori scriveva ora che
“l’unica direzione in grado
di assicurare una politica efficace è quella incarnata da
personaggi contrapposti
alla burocrazia e in grado di stabilire un diverso rapporto con
l’opinione
pubblica” (“La crisi dei radicali”, La
Repubblica 7/3/82).
[15] “Perché siamo
popolari”, intervista a Panorama,
23/10/75.
[16] Cit. in Sandro Parone
“Monelli a Strasburgo”, Panorama
9/7/79; così anche Massimo Teodori
“L’eurotruffa”, Notizie radicali 1/2/79 e
“Le due strategie della sinistra”, relazione del
segretario Jean Fabre al
Congresso nazionale straordinario dell’aprile ’79,
Notizie radicali 15/4/79,
esplicitamente contrario anche a soglie di sbarramento.
[17] “La direzione dei partiti
da parte di capi
plebiscitari determina la rinuncia dei seguaci alla propria anima, o,
per dir
così, la loro proletarizzazione spirituale”:
“è appunto questo il prezzo con
cui si paga la direzione mediante un capo. Ma non vi è che
questa scelta: o
democrazia sottomessa a un capo [Führerdemokratie]
[…] o democrazia senza capo,
vale a dire dominio dei ‘politici di professione’
senza vocazione, senza le
qualità intime carismatiche che appunto creano un
capo”. Max Weber, “La
politica come professione” (ed. or. 1916), in Id.
“Il lavoro intellettuale come
professione. Due saggi”, a cura di Antonio Giolitti, Torino,
Einaudi, 1980
(1948), pp.98, 99. Nel partito carismatico (per Weber il carattere
carismatico
delle istituzioni presupponeva quello analogo dei partiti) si ha la
“soddisfazione di lavorare per un uomo in forza di una
dedizione e di una fede
personale, e non per un programma astratto di un partito formato da
mediocrità”
(ivi, p.84): una soddisfazione che a Weber sembrava di immediata
evidenza.
[18] Economia e società, vol.
I, p.265; Max Weber
“Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania.
Per la critica
politica della burocrazia e del sistema dei partiti” (ed. or.
1918), in Id.
“Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e
altri scritti
politici”, a cura di Luigi Marino, Torino, Einaudi, p.166; L.
Cavalli “Il
capo…” cit., p.128.
[19] Max Weber “Alle soglie
del terzo anno di guerra” (ed.
or. 1916), in Id. “Parlamento e
governo…”, cit., p.280.
[20] Giovanni Sartori,
“Democrazia e definizioni”, Bologna,
Il Mulino, 1969 (1957), p.208, corsivo mio.
[21] Max Weber, “Economia e
società”, cit., vol. I, p.210.
[22] Nel tipo puro del potere
carismatico, “non si ha alcun
regolamento né alcun complesso di principi giuridici
né alcuna ricerca
razionale del diritto orientata in base ad essi […] Sono
invece decisive
formalmente le creazioni giuridiche
attuali di volta in volta […] Il potere carismatico
è specificamente
irrazionale nel senso che manca assolutamente di regole”
(Ivi, vol. I, p.240,
corsivo nel testo). “Il carisma conosce soltanto
determinazioni interne e
limiti tratti da se stesso” (Ivi, vol. IV, p.219). Si pensi
ai “discorsi
costituenti” del generale De Gaulle, fonti di diritto
costituzionale, secondo
l’opinione espressa, senza intenzioni umoristiche, da qualche
autore francese
dell’epoca (cit. in M Volpi “La democrazia
autoritaria”, Bologna, Il Mulino,
1979, p.84); oppure alle “interpretazioni” di
Pannella dello Statuto del Pr,
cioè dell’unico testo normativo che egli abbia
avuto il potere di gestire.
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