Radicali:
un discutibile inizio
di
Eugenio Stuart Cavallotti (pseudonimo
alternativo a Felice Mill Colorni, ben presto abbandonato
perché rivelatosi ragione di fraintendimenti)
All’inizio
degli anni
70, nel desolante panorama politico che si apriva agli occhi della
cultura
liberale italiana, il Partito radicale, che proprio allora ricominciava
a far
parlare episodicamente di sé, poteva ragionevolmente
suggerire più di qualche speranza.
Soprattutto agli occhi di coloro che si definivano liberali
perché si
riconoscevano in una variante “progressista” e di
sinistra, invero poco
autoctona, del liberalismo europeo. E tuttavia non bisogna credere ai
radicali
di oggi, quando rivendicano per il loro partito una pluridecennale e
indiscutibile continuità di ispirazione politica e
culturale. Il liberalismo
del Partito radicale di quegli anni stava nelle sue battaglie politiche
molto
più che nelle definizioni che si attribuiva e nei dichiarati
riferimenti
ideali. Quel Partito radicale non amava affatto definirsi liberale,
bensì
“socialista e libertario”; ma da qualche anno era,
nella sostanza, il partito
dei diritti civili, e, soprattutto e prima di tutto, il
“partito laico”, il
partito della legge sul divorzio (di cui aveva
“imposto” l’approvazione nel
1970, introducendo tecniche di iniziativa politica tipiche dei
“gruppi di
pressione” fino ad allora sconosciute in Italia),
l’unica forza politica che
osasse definirsi “anticlericale”, che mantenesse
viva un’opposizione
al sistema concordatario. Era
quello il terreno, ormai quasi l’unico di segno
“progressista” a non essere
stato del tutto abbandonato dal Pli di quegli anni, su cui il Pr
incontrava
naturalmente i liberali di sinistra, che avevano proprio nella forte e
accentuata ispirazione laica il loro tratto più
caratterizzante: essi
rappresentavano una sinistra minuscola e priva di qualsiasi radicamento
nella
società ma che, proprio nelle battaglie per i diritti civili
legate alla
secolarizzazione, poteva anche permettersi di scavalcare
sistematicamente le
ben più caute e moderate posizioni tenute dal Pci.
L’avere investito
per qualche anno, con imprevedibile
successo, tutte le scarsissime forze di cui disponevano quasi
esclusivamente
nella battaglia per il divorzio aveva anche consentito ai radicali di
ridefinire profondamente i propri tratti costitutivi e la propria
fisionomia
politico-culturale. Una ridefinizione che risultò
così profonda da far
rapidamente dimenticare la breve stagione
“frontista” del Partito radicale nei
primi anni 60. Questa definizione sarebbe stata certo rifiutata, anche
allora,
dai radicali, e lo stesso Pci di allora avrebbe preteso un ben
più alto grado
di sottomissione, per accettare l’alleanza con un gruppo
politico così
minuscolo. Tuttavia, rilette oggi, le prese di posizione del Pr di quel
tempo
rimandano alla stagione in cui il solo modo per realizzare un rapporto
di
solidarietà politica fra il grande partito della classe
operaia che si riteneva
investito di una missione storica e rivoluzionaria e gruppi che esso
riteneva
espressione della “borghesia progressista” era
costituito dalla franca
accettazione da parte di questi ultimi di un ruolo consapevolmente e
programmaticamente subordinato[1].
E, se i radicali non arrivarono mai fino al punto di accettare
esplicitamente
un rapporto del genere, pure non manifestavano la minima riserva sul
carattere
sostanzialmente “democratico” dei comunisti
italiani fra gli anni 50 e 60;
anzi, sulla base di una esplicita e conclamata “scelta di
classe”, esprimevano
costantemente la convinzione che la “parte giusta”,
nel sistema politico
italiano, fosse quella rappresentata dalla sinistra di allora
– e sia pure da
una sinistra che avrebbero voluto rinnovare con le proprie proposte e
iniziative.
Il che è certamente molto sorprendente per chi abbia a mente
le accuse di
totalitarismo e di stalinismo rivolte dai radicali al Pci in epoche
segnate
dalla sua indubbia evoluzione successiva, per lenta e tardiva che essa
possa
essere retrospettivamente giudicata, e perfino ai Ds dei nostri giorni.
Forse,
più che
dimenticata, quella breve stagione fu davvero conosciuta –
provvidenzialmente –
solo da pochissimi attenti osservatori, dato che in quegli anni il Pr
era poco
più che un gruppuscolo romano di amici, protagonisti e poi
reduci della
stagione dei parlamentini universitari che il ’68 avrebbe
definitivamente
spazzato via.
Una
volta dissoltosi
nel 1963, con l’avvento del centro-sinistra e con le
polemiche sul “caso
Piccardi”[2],
il nucleo storico che aveva dato vita negli anni 50 al Partito
radicale, e che
gravitava fin quasi ad identificarvisi attorno al Mondo di Pannunzio,
il gruppo
di giovani che, con Pannella, ne aveva rilevato il nome e
l’attività aveva
avuto nei primissimi anni un disegno quasi ossessivo: segnare
profondamente le
distanze da quella prima esperienza radicale e accreditarsi come un
responsabile e affidabile alleato dei partiti della sinistra
tradizionale, a
cominciare dal Pci. Se i radicali del Mondo erano stati un gruppo di
intellettuali
(come tali in qualche modo alternativi all’intellighenzia
comunista), i nuovi
radicali ostentavano la propria estraneità e anche il
proprio disprezzo nei
confronti di un impegno politico incentrato sulla riflessione
culturale; se i
vecchi si rivolgevano quindi alle élites intellettuali, i
nuovi cercavano un
rapporto con le “masse popolari” e con i loro
partiti; se i vecchi radicali
avevano finito per aderire al centro-sinistra, i nuovi si battevano per
la
“alternativa di sinistra”; se i vecchi si
ricollegavano alla tradizione
liberale italiana (seppure non nella versione moderata e conservatrice
interpretata dal Pli di Malagodi), i nuovi si definivano
“socialisti e
libertari”; se i vecchi erano stati atlantisti, i nuovi erano
antimilitaristi e
contrari all’alleanza. Soprattutto, se i vecchi avevano a
lungo coltivato il
sogno della “terza forza” laica, i nuovi, sulla
scia delle alleanze un po’
spregiudicate e un po’ temerarie teorizzate e praticate in
sede di politica
universitaria già in epoca stalinista, propugnavano
un’organica alleanza con la
sinistra italiana così com’era allora,
auspicandone certo il rinnovamento, ma
con obiettivi ben più limitati e con toni decisamente
antitetici a quelli
ultimativi e perentori, rivolti a interlocutori che pure si andavano
emancipando sempre più dall’esperienza storica
comunista, cui siamo stati
abituati nei decenni successivi. L’alleanza con gli studenti
comunisti era
stata proposta dai giovani radicali fin dal 1953 e sperimentata
nell’Unione
Goliardica Italiana fin dal ’56[3].
All’indomani dell’invasione
dell’Ungheria, pur doverosamente condannata,
Pannella salutava nei giovani comunisti di allora “gli eredi
della tradizione
risorgimentale e liberale d’Italia”[4]
Inevitabilmente, viste le
caratteristiche
dell’interlocutore, e dato che, prima del successo conseguito
nella battaglia
per il divorzio, il peso politico del gruppo era davvero prossimo allo
zero,
una politica di alleanza strategica come quella cui aspirava in quegli
anni
Pannella non poteva certo fondarsi altro che su una consapevole
subalternanza,
al più con qualche sottolineatura antimilitarista e in
materia di diritti
civili, sottolineature del resto tipiche della “cultura
giovanile” occidentale
di quegli anni. Agli occhi dell’ambiente del Mondo,
“l’alleanza dei cretini”[5].
I
vecchi avversari liberalradicali nei parlamentini universitari
parlavano di
“posizione filocomunista”, “affiancata ai
‘carristi’ del Psi”[6].
Naturalmente sarebbe un po’ maramaldesco ironizzare troppo
pesantemente oggi su
quelle vicende, del resto comuni a tanta sinistra non comunista di
quegli anni:
si pensi alla sorte di gran parte dell’azionismo
“torinese”, così
ingenerosamente sbeffeggiato in questi ultimi tempi, si pensi alla
vicenda, non
sempre spregevole, di molti “indipendenti di
sinistra” di matrice liberale o
liberalsocialista. Per tutti, si potrebbe ricordare il giudizio di
Italo
Calvino, che negli anni 50 aveva rilevato come la condizione
minoritaria della
sinistra, il carattere conservatore delle coalizioni governative, e una
struttura degli apparati di sicurezza dello Stato ereditata dal regime
fascista
avevano obbligato i partiti della sinistra a svolgere anche, almeno in
relazione ad alcune battaglie garantiste (e magari in modo
opportunistico), il
ruolo di un partito liberale inesistente in Italia.
Sennonché sono proprio i
radicali di oggi, fra gli altri, a ergersi a severi giudici di scelte
politiche
come quelle e a rivendicare un proprio percorso “radicalmente
altro”.
Non
sarà allora inutile
ricordare che, mentre Norberto Bobbio, che peraltro non aveva mai
preteso di
definirsi liberale, nelle sue polemiche con Roderigo di Castiglia,
aveva già
assunto da molti anni il ruolo di maestro di liberalismo nei confronti
di una
sinistra che ignorava e disprezzava il liberalismo politico, i radicali
pannelliani, in quegli anni, del tutto privi (con qualche perfidia si
potrebbe
dire: quanto Marx nell’interpretazione di Bobbio) di una
teoria dello Stato e
del diritto, lontanissimi da qualunque rivendicazione anche vagamente
liberista,
usavano contrapporre alla cultura marxista ancora fortemente egemone
nella
sinistra italiana una vaghissima apologia del socialismo utopistico in
qualche
imprecisata versione “autogestionaria”. Un
socialismo inteso comunque in senso
forte, cioè come socializzazione, anche se non come
statalizzazione, dei mezzi
di produzione. Fino al punto di prendere abbastanza sul serio, sia pure
senza
mai approfondirne l’analisi, lo stesso modello economico
jugoslavo (che
sopravviveva in quegli anni solo perché saggiamente
puntellato, per ottime
ragioni di ordine geopolitico, dalle regalie occidentali, oltre che dal
turismo
e dalle rimesse degli emigranti): anzi, Pannella era solito ricordare
con
qualche orgoglio l’onore riservatogli dagli jugoslavi quando,
raccontava, in seguito
al rifiuto di una delegazione di studenti universitari da lui guidata
di
associarsi alla condanna di quel regime nel pieno della
“questione di Trieste”
e dopo la scomunica del Cominform, era stato fra i pochissimi italiani
invitati
privatamente a cena dal maresciallo Tito e dalla consorte Jovanka.
Certo,
questo stesso
episodio testimoniava una posizione comunque diversa da quella di un
socialismo
appiattito sull’esperienza sovietica. È evidente
però quanto i “nuovi
radicali”, nel loro sforzo di prendere le distanze dai
“vecchi radicali” del
Mondo e dal loro atlantismo, fossero lontani dalle professioni di fede
liberale
e occidentalista cui ci hanno abituato negli ultimi anni, e quanto
arbitraria
sia la loro attuale professione di continuismo. La tesi da essi
condivisa in
quegli anni (ed ampiamente esposta dai non pochi radicali che
collaboravano
all’“Astrolabio” di Parri) era quella,
allora largamente diffusa nella sinistra
“alternativa”, secondo cui il
“sistema” capitalista e quello sovietico si stavano
avviando verso una progressiva omologazione reciproca,
all’insegna di
un’identica deriva militarista, repressiva e tecnocratica[7].
Ugualmente e pariteticamente falliti erano considerati gli esperimenti
riformisti tentati negli anni 60 sia negli Usa che in Urss[8].
Con argomenti e perfino toni analoghi a quelli che la cultura liberale
e
socialista, radicali in testa, avrebbe tante volte a ragione imputato
al Pci a
partire dagli anni 70, nel dicembre del ’66 Pannella
ammetteva che “c’è
sicuramente del vero” nel negativo giudizio da tempo
formulato dal Psi
autonomista sulle degenerazioni del comunismo reale; ma ciò
non gli appariva
una buona ragione per giungere, come accusava i socialisti di fare,
“alla pura
e semplice accettazione ideologica della società dei
consumi”[9].
La mozione conclusiva del Congresso radicale di Firenze del novembre
’67
definiva i paesi del blocco sovietico “società di
capitalismo di Stato, pur esse
autoritarie”[10].
Nella sostanza il Pr uscito dalla scissione con il gruppo del Mondo nel
1963
professava un antiamericanismo che non si discostava sensibilmente, se
non per
un’ovvia maggiore attenzione nei confronti della
“nuova sinistra” americana, da
quello allora diffuso nel resto della sinistra
tradizionale italiana. L’uscita
dell’Italia dalla Nato e la denuncia
unilaterale del Patto atlantico e - si noti -
del trattato Ueo erano in questi anni motivi di fondo
dell’iniziativa
radicale. “Naturalmente è stata condannata
violentemente la politica americana”,
rilevava en passant Pannella, dopo il Congresso del maggio ‘67[11].
Emergeva
anzi
abbastanza nettamente, nonostante tutti i rilievi critici, una
sostanziale
scelta di campo a favore dell’Est piuttosto che
dell’Ovest, quanto meno nel
senso che i radicali si mostravano sì delusi
dall’esperienza storica sovietica,
ma sembrava loro naturale che vi fossero state riposte molte fondate
speranze.
La “sinistra” di cui essi si sentivano fortemente
parte era proprio la sinistra
che aveva tentato di “edificare il socialismo”.
In
occasione della
visita a Roma del presidente polacco, i radicali intervenivano
inalberando
slogan come “I radicali salutano Ochab” e
“Meno preti più socialismo”[12],
e con commenti di analogo tenore, da cui emergeva come la prospettiva
del
previsto Concordato fra Polonia e Vaticano sembrasse loro argomento di
polemica
molto più grave e urgente della realtà del
socialismo vigente in quel paese.
Uno stupefacente articolo pubblicato in quell’occasione
descriveva con allarme
la situazione polacca, dove sarebbe stato il revanscismo clericale a
provocare
la “situazione negativa” e il
“ristagno” seguiti ad “anni di
speranze”, che
sarebbero state suscitate da quello che veniva inopinatamente definito
“il
primo paese della libertà poststalinista”[13].
Nel corso delle manifestazioni indette dal Pr nel ’68 contro
l’invasione
sovietica della Cecoslovacchia, la limitata liberalizzazione promossa
dalla
“primavera di Praga” era ritenuta sufficiente non
solo per condannare,
ovviamente, l’invasione, ma anche per inneggiare al Pc
cecoslovacco, di cui non
veniva contestato il titolo “rivoluzionario”
(evidentemente, quello del colpo
di Stato del 1948) su cui si basavano la sua legittimazione al potere e
la
“edificazione del socialismo” in quel paese[14].
Ancor più significativo un articolo di Pannella, successivo
all’invasione, e
certo duramente critico nei confronti dell’Urss, ma che
conteneva giudizi come
questo: “Pochi anni fa, alla porta di Brandeburgo, esprimemmo
ai nostri ospiti
tedesco-orientali la nostra preoccupazione
di compagni”, per i “sintomi
autoritari e militaristi” avvertiti (meno male) nella
Germania comunista[15].
Neppure questi sintomi dovevano poi
apparire allora tanto gravi o esecrabili al leader radicale, se egli si
limitava a dedurne che nei paesi del blocco sovietico vigesse
“un’organizzazione della produzione e dei rapporti
di lavoro autoritaria e non dissimile da
quella capitalistica”.
Egli si mostrava insomma convinto di potersi legittimamente attendere
dai
governanti tedesco-orientali suoi “compagni”
qualcosa di meglio di quel che
poteva trovare in Occidente, e mostrava anche di non giudicare il
sistema
totalitario di quel paese peggiore della limitata democrazia liberale
dell’Europa occidentale. Pannella concludeva infatti:
“Sono, queste, strutture
che rischiano di vanificare
storicamente le immense conquiste della
Rivoluzione d’ottobre”[16].
Ma,
se il giudizio
storico sul socialismo reale, per quanto critico, era lontanissimo da
quello di
oggi, la terra promessa dei “nuovi radicali” non si
trovava a Est, ma piuttosto
nel Terzo mondo. Pannella, corrispondente da Parigi del Giorno di
Mattei
all’inizio degli anni ’60, aveva sostenuto senza
riserve la rivoluzione
algerina. Anche in questo caso in aperta polemica con i
“vecchi radicali”, che
all’opposto erano giunti ad approvare, sul Mondo,
l’intervento anglo-francese a
Suez nel ’56: in un articolo pur molto simpatetico del 1974,
Arrigo Benedetti
ricordava come in Pannella non gli fosse piaciuto “il
puntiglio di trovare non
so che verità sulle coste di quel mare disgraziato che
è il Mediterraneo”[17].
Pannella ha anzi più volte fatto intendere, anche parecchi
anni dopo, di essere
stato addirittura un membro del Fln algerino. E in un rancoroso
pamphlet
successivo alla sua fuga in Francia, Toni Negri raccontò di
avergli consegnato
una volta, a Parigi, “una valigia del réseau
algerino. Non era certo un nonviolento, allora!”[18].
È probabile che, in effetti, all’epoca non lo
fosse ancora.
Solo
nella mozione
congressuale del ’69, in concomitanza con il raffreddamento
dei rapporti con il
Pci (causato soprattutto dal tiepido atteggiamento di quel partito in
materia
di divorzio), e con il venir meno della necessità di
definire la propria
identità in contrapposizione a quella, ormai sulla via del
tramonto, dei
“vecchi radicali” del Mondo, il giudizio sul
socialismo reale cominciò a
precisarsi[19],
per radicalizzarsi poi progressivamente e sempre più nel
corso degli anni
successivi[20],
quando ormai la strategia della “alternativa di
sinistra” avrebbe sì continuato
ad essere propugnata ancora per qualche anno, ma ormai in termini di
contrapposizione frontale con il Pci degli anni del
“compromesso storico”.
In
questi inopinati
atteggiamenti si può leggere una contraddizione, allora
irrisolta, fra la
volontà di operare nell’ambito di
un’opposizione di sinistra ancora legata alla
sua prevalente identità comunista e l’ispirazione
libertaria e l’antica matrice
liberale comune a quasi tutto il gruppo dei “nuovi
radicali”, che si esprimeva
nella politica dei diritti civili. Questa stava del resto sempre
più prendendo
il primo posto fra gli interessi del Pr di quegli anni, divenendo anzi
per
qualche felice stagione l’elemento pressoché
esclusivo di un programma politico
incentrato su singoli issues:
anzi, proprio il
disinteresse pressoché assoluto mantenuto per quasi un
decennio nei confronti
di qualunque tema legato alla politica internazionale o alla politica
economica
avrebbe consentito alla successiva riconversione
“occidentalista” di
svilupparsi senza traumi, senza svolte evidenti, senza accuse di
tradimenti.
Tanto più che, nel caso dei radicali, la riconversione ai
valori dell’Occidente
liberale, avvenuta nella realtà, come si è visto,
in parallelo a quella della
sinistra di matrice comunista o socialista, non si sarebbe prodotta
come
conseguenza della sconfitta di speranze secolari di palingenesi
rivoluzionaria
che la sinistra marxista aveva nutrito, ma all’opposto come
un ritorno alla
propria matrice culturale e ideale originaria. Ma il carattere
accidentato di
questa storia, pochissimo conosciuta, consente oggi la rivendicazione
di un percorso
cinquantennale di assoluta coerenza,
che risulta, come si vede, piuttosto discutibile. Forse,
l’ultimo residuo di
quell’assidua (e poco apprezzata e ricambiata) consuetudine
con il mondo
comunista sta proprio nel costante cedimento alla tentazione di
riscrivere
continuamente la propria storia per conferirle un eccesso di
linearità.
Da Critica liberale, n.
51, maggio 1999
[1] Nel 1967 i radicali pubblicavano un “Libro bianco su il Partito radicale e le altre organizzazioni della sinistra”, a cura di Angiolo Bandinelli, Silvio Pergameno, Massimo Teodori, Roma, Edizioni radicali, dove si insisteva molto su un “unitarismo” di sapore nettamente frontista, fino al punto di sottolineare come motivo di vanto il fatto di avere “responsabilmente” rinunciato ad alcune importanti iniziative politiche, pur di non creare motivi di scontro all’interno della sinistra o di non fornire pretesti alla stampa di destra per speculare sulle divisioni fra le forze “democratiche” (pp. 32, 49s., 61).
[2] Generate dalla rivelazione,
contenuta nel volume di Renzo De Felice sulla “Storia degli
ebrei italiani
sotto il fascismo”, della partecipazione ad un convegno
giuridico sulla razza,
tenutosi a Vienna nel ’39, del collaboratore del Mondo
Leopoldo Piccardi, che
smentì parzialmente il proprio coinvolgimento.
[3] Carlo Oliva, Aloisio Rendi
“I precedenti: l’associazionismo studentesco nel
dopoguerra”, appendice a “Il
movimento studentesco e le sue lotte”, Milano, Feltrinelli,
1969, pp.241ss.
[4] Cit. in Giuliano Urbani
“Politica e universitari”, Firenze, Sansoni, 1966,
n.9 p.169. Secondo
l’opinione di uno dei principali oppositori
dell’apertura ai comunisti, “l’Ugi,
definita un tempo il più originale fra i movimenti
neoliberali del dopoguerra
italiano, è diventata un organismo frontista che anche in
linea di principio
contesta il mito dell’autonomia universitaria”
(Paolo Ungari, “I giovani
nell’Università del dopoguerra”, Il
Veltro n.1, 2/63).
[5] Così era titolato un
commento di Anonimo, Il Mondo, 7/4/59, che si chiedeva
perché mai “i
democratici dovrebbero dar peso alle tesi di un radicale [Pannella,
n.d.r.] che
ripete per caso su un giornale comunista le tesi che il Pci cerca di
diffondere
da anni. Meglio discutere, nonostante tutto, con l’on.
Togliatti”.
[6] “Crisi del Partito
radicale”, Tempi moderni, n.10, 7-9/62.
[7] “Nell’uno e
nell’altro caso,
gli eserciti sembrano costituire un elemento fondamentale e indiscusso
di
potere e di iniziativa politica”. (“Libro
bianco…” cit., p.42, 45).
[8] Gianfranco Spadaccia, “Il
riformista fallito”, L’Astrolabio, 5/1/69.
[9] “Libro
bianco…” cit., p.96.
[10] “Il centro-sinistra
è
fallito”, in “Le mozioni dei congressi radicali dal
1967”, in Quaderni radicali
n.13, 10-12/81, corsivo mio.
[11] “Radicali: bilancio di un
congresso”, intervista di Pannella a Astrolabio, 21/5/67.
[12] Le fotografie dei
manifestanti radicali nel numero speciale di Agenzia radicale a stampa,
10/8/67.
[13] “Più preti
oggi che ieri in
Polonia”, ibidem.
[14] “Viva il Pc
cecoslovacco”,
“Socialismo sì, oppressione no”,
“Rivoluzione sì repressione no” erano
gli
slogan esposti da manifestanti radicali che accompagnavano il commento
di Parri
all’invasione, in Astrolabio 1/9/69.
[15] Marco Pannella
“Osservazioni
sulla pace rossa”, Notizie radicali 8/68, ora anche in Marco
Pannella “Scritti
e discorsi (1959-1980)”, Milano, Gammalibri, 1982 (edizione
non curata
dall’autore), pp.40ss., corsivi miei.
[16] Ibidem, corsivi miei.
[17] Arrigo Benedetti, “Una
voce
contro l’ipocrisia”, ora in “Il pugno e
la rosa. I radicali: gauchisti,
qualunquisti, socialisti?”, a cura di Valter Vecellio,
Verona, Bertani, 1979,
p.245. Si noti il sottotitolo di questo volume: ancora nel 1979 la
definizione
“liberali” non compare neppure come ipotetica
etichetta da attribuire al Pr.
[18] Toni Negri “Diario di
un’evasione”, Milano, Mbp, 1986, p.74.
[19] Vi si parlava di
“persistente aggressione stalinista” verso i
“paesi di cosiddetta democrazia
popolare”. (“Per l’unità di
tutta la sinistra”, in “Le
mozioni…” cit.).
[20] “Al Congresso del Psiup
un
rappresentante del ‘panzer-socialismo’ di
Praga”, Notizie radicali 17/3/71,
ciclostilato.
Eppure, ancora parecchi anni
dopo, echi di questa stagione filocomunista riemergeranno dal passato,
ormai
incomprensibili per i radicali approdati all’impegno politico
a partire dai
primi anni 70. Di qui, ad esempio, una breve ma spericolata apologia
scritta in
occasione della morte di Mao nel 1976 (“I radicali sulla
morte del Compagno
[sic] Mao”, Notizie radicali 15/9/76)
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