Pacs:
Ulivo peggio di Fanfani
di
Felice Mill Colorni
Una delle conseguenze
più sgradevoli
dell’ultimo disgraziato
quindicennio politico dell’Italia berlusconiana è
che siamo rimasti in pochi a
renderci conto delle dimensioni e della vastità della
regressione cui abbiamo
assistito. Se, per quel che riguarda il miserevole stato
dell’etica pubblica,
una consistente minoranza di italiani ne è ancora
consapevole, non altrettanto
può dirsi per quel che riguarda gli arretramenti intervenuti
nel dibattito
culturale e civile.
Sappiamo,
lo abbiamo più volte riconosciuto, di essere dei
privilegiati: noi liberali
siamo fra i pochi italiani cui non è franato addosso il
mondo di certezze
etico-politiche, ideologiche e culturali costruito in una vita intera.
E non
c’è dubbio che i collaboratori e i lettori di
questa rivista appartengano a
quella minoranza di cittadini la cui conoscenza e visione del mondo non
dipende
dal fast-food
falsamente o scarsamente pluralistico quotidianamente ammannito dalla
televisione generalista italiana. Quanto meno, apparteniamo a quella
minoranza
che è in grado di mantenere canali di comunicazione
più saldi e diretti con il
resto dell’Occidente europeo. È soprattutto per
questo che non cessiamo di
stupirci e di indignarci anche di fronte all’emergere di
discorsi e idee-forza
che alla maggioranza dei nostri connazionali devono ormai sembrare
addirittura
luoghi comuni.
È il caso del dibattito in corso sulla
questione dei “pacs”.
Come è sempre stato il caso, nella storia
dell’Occidente, di tutti i dibattiti
che hanno riguardato l’estensione di diritti e principi
fondamentali della
convivenza civile a minoranze tradizionalmente discriminate (ebrei, non
credenti, donne, neri, ecc.), si tratta di una questione su cui davvero
si
misura il grado di civiltà di un paese, della sua classe
politica, della sua
società civile, dei suoi media, della sua classe dirigente.
Ovunque, questo tipo
di questioni ha sempre visto tendenzialmente contrapporsi un fronte
“progressista” e riformatore a uno
“tradizionalista”, che spesso si è
caratterizzato per il rifiuto di rapportare i riflessi condizionati,
gli stati
d’animo e le mentalità tipici della propria
tradizione etnica ai principi
giuridici generali e ai valori etico-politici di cui pure i suoi
sostenitori
non potevano in linea di principio negare la cogenza
(l’uguaglianza giuridica
dei cittadini, la loro pari dignità sociale,
l’intollerabilità di
discriminazioni formali o sociali basate su caratteristiche ascritte
della
personalità degli individui): il tradizionalista rifiuta
sempre di vedere
questa contraddizione e difende questa propria cecità e
ignoranza
affettivamente, facendosi scudo dei propri pregiudizi, della propria
emotività
e di quella dei propri consentanei.
La caratteristica del caso italiano è che il
discorso
tradizionalista, lungi dall’essere residuale (e
dall’avere la consapevolezza di
esserlo, come accade ovunque altrove in Europa) è ormai
quello egemone nei
media e quello con cui sembra ritenere di doversi prioritariamente
misurare
l’intera classe politica. Il modo in cui l’Italia
sta affrontando la questione
dei “pacs” va ben al di là
dell’importanza intrinseca della questione, proprio
perché rende evidente l’ormai ampio divario
culturale, quasi antropologico, fra
l’Italia di questo inizio di XXI secolo e
l’Occidente europeo. Essa rende
infatti anche più chiare le conseguenze nefaste di alcuni
fenomeni culturali
striscianti che si sono a poco a poco imposti non tanto per forza
propria,
quanto perché insistentemente suggeriti dai media e dalla
stessa industria
culturale in quanto funzionali a dare plausibilità a un
sistema politico nel
quale, in uno dei suoi due poli, dovevano avere un peso determinante la
relativizzazione del giudizio sul fascismo storico e la piena
legittimazione di
un antico clericalismo cattolico estremista, antiilluminista e
antirisorgimentale, nonché il regionalismo etnicista e
primitivista dei
leghisti. Con la conseguenza di stipare nell’affollato polo
“progressista”
anche gli eredi del clericalismo (relativamente) più
moderato che era stato
tipico del polo tradizionalista-conservatore del vecchio sistema
politico, cioè
della Democrazia cristiana, e particolarmente acceso in alcune sue
componenti
(e oggi nel centrosinistra). Se l’intenso battage
politico e mediatico
di questi anni dovesse davvero produrre (come in certa misura non
potrà non
produrre alla lunga) un effettivo mutamento negli atteggiamenti
dell’opinione
pubblica e nelle mentalità, il divario fra
l’Italia e l’Occidente europeo
rischierebbe di farsi incolmabile, almeno nei tempi prevedibili, quanto
quello
che produsse per qualche secolo l'eclissi della civiltà
italiana in Europa al
termine del Rinascimento.
Bisogna
riconoscere a Luciano Violante di essere stato in questi anni,
più di altri, un
coerente sostenitore dell’introduzione dei
“pacs” nella legislazione italiana.
Proprio per questo è particolarmente impressionante il tono
difensivo delle
dichiarazioni da lui rilasciate lo scorso 7 agosto al
“Corriere della sera”: «I
pacs, intesi come matrimonio o come famiglia, non li sostiene nessuno
… Il
problema è la possibilità di scambiarsi
liberamente alcuni diritti. Gli
anziani, pensionati e soli, che hanno cominciato a vivere insieme per
risolvere
il problema delle pensioni troppo basse e per farsi compagnia, sono
ormai un
buon numero: perché impedire loro di scambiarsi diritti? Lo
Stato, dal canto
suo, non ha il diritto di infilarsi sotto le lenzuola dei
cittadini».
Che
i “pacs” siano cosa
diversa dal matrimonio è in
re ipsa.
Mancando nella classe politica italiana il consenso non solo per una
soluzione
come quella olandese, belga, spagnola e canadese (abolizione del
requisito
della differenza di sesso per contrarre matrimonio), ma anche per
quella
adottata ormai con diverse denominazioni in tutto il resto
dell’Europa
occidentale con le sole eccezioni di Austria e Irlanda (introduzione di
un
nuovo istituto giuridico che attribuisca alle coppie dello stesso sesso
che lo
richiedano piena parità di diritti e di trattamento con le
coppie sposate,
salvo il nomen juris di
matrimonio
e le norme relative alla filiazione), i proponenti hanno optato, da
parecchi
anni, per l’introduzione in Italia, intanto, di nuovo
istituto, che
istituirebbe fra i contraenti un rapporto più
“leggero” del matrimonio,
utilizzabile sia, come solo mezzo a disposizione per tutelare in
qualche misura
la propria unione, da parte delle coppie omosessuali, sia, come
strumento
alternativo al matrimonio per regolare la propria unione, per le coppie
eterosessuali che non intendano sposarsi ma neppure permanere
nell’incerta
condizione di coppie di mero fatto: un modo per venire incontro alle
esigenze
di un crescente pluralismo delle forme di convivenza e per assicurare
una forma
primordiale di riconoscimento e tutela alle coppie gay. Una soluzione,
come si
vede, ultramoderata, mutuata da quella vigente soltanto in Francia e
nel
granducato del Lussemburgo, e ben lungi dal riconoscere
parità di trattamento,
parità di diritti e pari dignità sociale (art. 3
primo comma della
Costituzione) ai cittadini omosessuali. Non a caso in Francia
è ormai
all’ordine del giorno la proposta, condivisa da
pressoché tutta la sinistra e
da parte della destra, di adottare la soluzione spagnola.
Nell’Italia
di questi anni, invece, perfino la proposta minimale e ultramoderata
dei “pacs”
viene considerata estremamente audace (come qualche decennio fa, ma
solo nei
settori più arretrati della società italiana di
allora, si gridava allo
scandalo per la proposta di abolire il “delitto
d’onore” o di introdurre la
possibilità di divorziare). Nella loro totale ignoranza dei
più elementari
termini della questione, gli “esperti” del
centrosinistra italiano hanno
escluso di poter introdurre nel loro programma elettorale i
“pacs”, preferendo
che si parlasse di “unioni civili”. Ignoravano
anche che quest’ultima
definizione era quella originaria del progetto francese, che i politici
di quel
paese vollero mutata in “pacs” (patto civile di
solidarietà) proprio perché la
formula suonava più moderata: infatti “unioni
civili” è l’espressione
utilizzata altrove (per esempio nel Vermont) per indicare piuttosto il
modello
prevalente e meno moderato, quello che attribuisce alle unioni piena
parità di
diritti, salvo nome e norme sulla filiazione. Come ha commentato il
nostro
Andrea Bitetto a proposito delle citate dichiarazioni di Violante,
nella
migliore delle ipotesi e nella visione di alcuni dei loro stessi
più autorevoli
sostenitori, i “pacs” italiani dovrebbero essere
solo «un modo per
istituzionalizzare le “nuove comuni”, oggi,
nell’epoca del trionfo del mercato,
non più motivate ideologicamente ma solo come succedanei
della previdenza
sociale».
Anche
questo però sembra troppo: non solo a una destra
ultraclericale e postfascista,
ma anche, caso assolutamente unico nell’intero mondo
democratico occidentale –
dall’Europa occidentale e centrale al Canada e fino alla
Nuova Zelanda – a una
parte considerevole del “centrosinistra”: a una
parte considerevole proprio di
quella parte del centrosinistra destinata a dar vita a quel
“Partito
democratico” che, nelle intenzioni, dovrebbe diventare
l’architrave “assennata”
dello schieramento progressista italiano. Con la conseguenza,
anch’essa
assolutamente unica, che a sostenere la tesi della piena
parità di diritti per
gli omosessuali, oltre alla pattuglia dei radicalsocialisti,
è in Italia solo
la sinistra neocomunista e “altermondialista”, e
non anche il centrosinistra mainstream e,
come ovunque altrove, la parte
moderna, liberista e non tradizionalista, della destra
“normale” (quella di
cui, dopo il quindicennio berlusconiano, non sembra neppure esistere
più
traccia).
E
perfino la rappresentante diretta del cardinale Ruini
all’interno dello
schieramento governativo, la senatrice Binetti, nonostante decenni di
coerente
milizia integrista a prova di bomba, viene sonoramente fischiata dalla
platea
del meeting di Rimini per non avere dato prova, a
giudizio dei ciellini,
di sufficiente accanimento.
C’è
da chiedersi con che faccia questa gente possa poi fare la predica ai
fondamentalisti islamici dell’Ucoii, cui sono così
affratellati non solo nella
comune discendenza abramitica ma anche nella comune resistenza contro
l’individualismo liberale tipico della civiltà
europea occidentale moderna.
Si
tratta di una forma di estremismo clericale cui erano rimasti estranei
perfino
i più strenui campioni dell’integrismo cattolico
nella storia repubblicana.
Anche nell’Italia, largamente premoderna, contadina,
controriformista e
preconciliare, dell’immediato dopoguerra.
Il
13 settembre 1946 si
svolse nell’Assemblea costituente una seduta della terza
sottocommissione della
“Commissione dei Settantacinque”, incaricata di
redigere il progetto della
Costituzione repubblicana. La deputata democristiana Maria Federici,
correlatrice del progetto, discutendosi delle “garanzie
economico-sociali per
l’assistenza della famiglia”, rilevava, secondo
quanto riportato nel resoconto sommario,
come «un articolo [per regolare la materia] sia sufficiente,
al massimo due, se
si considera il fatto delicato che, oltre ad una famiglia costituita
secondo la
legge, possono formarsi dei nuclei familiari irregolari, che tuttavia
hanno
bisogno di garanzie di ordine sociale e giuridico: articolo o articoli
nei
quali siano considerate le provvidenze da dare in eguale misura agli
uni e agli
altri». “Eguale misura”: molto
più di quel che propone il progetto dei
“pacs”
nell’anno di grazia 2006; e in un’epoca in cui il
fenomeno delle famiglie di
fatto era nella sostanza limitato alle sole famiglie costituite da
separati
che, se solo lo avessero potuto, nella quasi totalità dei
casi non avrebbero
chiesto di meglio che di potersi divorziare e risposare. E non si
parlava di
una legge ordinaria, ma addirittura della Costituzione.
E
che cosa replicava alla sua collega di sottocommissione e di partito il
leader
incontrastato, allora e nei decenni successivi,
dell’integrismo cattolico
addirittura postfascista (come si direbbe oggi senza alcuna forzatura),
Amintore Fanfani? Dopo una mera obiezione procedurale (la materia
sarebbe stata
a suo avviso di competenza della prima sottocommissione e non della
terza),
Fanfani affermava che «è invece necessario
preoccuparsi del fatto che,
esistendo la convivenza familiare, questa convivenza possa arrivare ad
essere
integrata – ove ce ne sia bisogno – in modo che se
ne assicuri un’esistenza
confacente con la dignità dell’uomo».
Così Amintore Fanfani, nel 1946.
Oggi,
ad escludere addirittura la qualifica di “famiglia”
alle famiglie non costituite
con il matrimonio – questione tutt’altro che
ideologica o formale, perché da
tale qualificazione dipende l’applicabilità di
buona parte della legislazione
statale e regionale in materia di welfare,
dall’art. 31 primo comma
della Costituzione fino alle politiche sulla casa –
è uno degli esponenti del
centrosinistra che più si è speso,
all’interno del suo partito, per
l’approvazione dei “pacs”. E il
segretario dei Ds non perde occasione per dare
addirittura per scontata un’interpretazione
dell’articolo 29 primo comma della
Costituzione del tutto campata per aria e fondata soltanto
sull’ossessiva
ripetizione di slogan da parte di politicanti e giuristi cattolici
militanti,
della cui fondatezza perfino letterale non ci si preoccupa minimamente
di interrogarsi
(e basterebbe leggere la norma in questione, come abbiamo a suo tempo
largamente argomentato, per rendersi conto della sua assoluta
infondatezza [La
Costituzione delle mille famiglie,
Critica liberale, dicembre 2002]:
come del resto ha cominciato a chiarire la giurisprudenza, non appena
la
questione è approdata a una Corte d’Appello,
secondo quel che riferisce in
questo stesso fascicolo Francesco Bilotta): una buona scusa per far
credere che
il faticoso compromesso verbalistico sul programma del centrosinistra
sia anche
il massimo consentito dalla Costituzione. (Un compromesso, sia detto
per
inciso, che è stato un’ulteriore dimostrazione
dell’assoluta ignoranza e
superficialità degli “esperti” dei
partiti. La riforma, vi si diceva, dovrà
riguardare i diritti dei singoli e non già delle coppie di
cui essi fanno parte
in quanto tali: anche se il senso politico era trasparente –
non se ne farà
nulla, almeno nell’ambito delle iniziative di governo
– gli estensori sembrano
essere stati del tutto ignari del fatto che neppure la famiglia
tradizionale e
matrimoniale ha nel diritto vigente il carattere di persona giuridica,
titolare
di situazioni giuridiche soggettive distinte e sovraordinate rispetto a
quelle
dei singoli componenti).
Il
fatto è che sembra quasi di assistere oggi nel campo
clericale ad uno scenario
analogo a quello descritto da John
Reed
nella società zarista in disfacimento nei “Dieci
giorni che sconvolsero il
mondo”: una radicalizzazione continua per effetto della quale
i gruppi che solo
il giorno prima sembravano estremisti venivano continuamente scavalcati
da
nuovi gruppi più radicali che li relegavano fra i
“moderati”, stimolandone pure
alcuni alla rincorsa. Magari questa volta non finirà con un
assalto cruento a
qualche Palazzo d’Inverno – e neppure al Quirinale,
per riconsegnarlo al Papa,
che pure nella sua recente visita ha fatto ben capire che non
disdegnerebbe
un’eventuale restituzione – e neppure con
l’instaurazione rivoluzionaria di un
regime religioso totalitario stragista e talebano; ma la cosa grave
è che,
mentre la società italiana, per ora ancora abbastanza
indifferente al richiamo
dei media e della politica, continua a secolarizzarsi sempre
più, un
“centrosinistra” che comprende al suo interno
posizioni che, su questi temi, sono
proprie nel resto dell’Europa occidentale solo della destra
radicale (mentre
quelle della destra nostrana sono assenti o patrimonio esclusivo di
frange
lunatiche), non ha il coraggio di riconoscersi figlio e parte della
modernità e
della civiltà europea, ed erede anche
dell’illuminismo, del Risorgimento e
della tradizione della democrazia laica e liberale, e concorre
così, per quel
che gli compete, e magari obtorto collo nella
coscienza dei più
consapevoli, al continuo, strisciante allontanamento
dell’Italia dall’Europa
liberale cui stiamo assistendo sgomenti da un quindicennio.
Da
Critica liberale, n. 129-130, luglio - agosto 2006.
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