La
Costituzione delle mille famiglie
di
Felice Mill Colorni
Tempo
fa Rai Educational
ha trasmesso un incontro fra un gruppo di liceali romani e un illustre
costituzionalista, attivo militante della sinistra. A una ragazza che
gli
chiedeva se non ritenesse opportuno prevedere qualche forma di tutela
giuridica
delle famiglie di fatto e di quelle omosessuali, il protagonista della
trasmissione rispondeva: «Secondo l'articolo 29 della
Costituzione, la
Repubblica riconosce la famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio,
dunque le famiglie di fatto non possono venire tutelate,
perché è assente
l'elemento determinante che è il matrimonio»,
concedendo poi che tuttavia una
qualche attenuata forma di riconoscimento sarebbe stata ipotizzabile
sulla base
dell’art. 2, relativo alle «formazioni sociali ove
si svolge la personalità»
dell’individuo.
La citazione dell’art. 29
è
testualmente sbagliata, ma l’errore è molto
significativo, perché rispecchia
una convinzione oggi molto diffusa, frutto di un vivacissimo attivismo
politico-culturale, che è riuscito a riportare il dibattito
diffuso su questi
temi indietro di svariati decenni.
Questa storia secondo cui
l’articolo 29
primo comma della Costituzione impedirebbe di riconoscere
parità di diritti
alle famiglie di fatto e a quelle omosessuali (distinte, queste ultime,
dalla
generalità delle prime, in quanto le coppie gay in Italia
non possono scegliere
volontariamente se essere o meno “di fatto”)
è in effetti da qualche anno un Leitmotiv
del neoclericalismo
italiano che, sempre più minoritario nella
società, riesce a guadagnare peso
politico grazie ad aggressive strategie di lobbying
e all’accondiscendenza
dell’intera classe politica: anche di molti
“laici”, scarsamente interessati a
questi argomenti e quindi pronti ad assecondare il punto di vista
clericale,
ritenuto (a torto) molto popolare fra gli elettori. La storia si
ripete: anche
alla vigilia del referendum del 1974 i politici
“laici” erano convinti che gli
elettori avrebbero bocciato la legge sul divorzio.
Da
ultimo, si è fatto un largo, aggressivo e apodittico uso di
queste tesi
sull’art. 29 primo comma in occasione del dibattito
parlamentare sulla legge
sulla fecondazione assistita.
L’articolo
29 della Costituzione non dice affatto, come una lettura superficiale
potrebbe
suggerire, che la Repubblica riconosce come famiglia solo quella
definita come
«società naturale fondata sul
matrimonio» - definizione, peraltro,
come
è evidente, intrinsecamente contraddittoria e comicamente
incongrua, dato che è
ben arduo sostenere che un negozio giuridico come il matrimonio esista
“in
natura” o sia sempre esistito ed esista ovunque e fondi un
modello di famiglia
sostanzialmente identico in tutte le società umane.
L’art. 29 dice invece una
cosa diversa: «La Repubblica riconosce i
diritti della famiglia
come società naturale fondata sul matrimonio». I
costituenti vollero con ciò
statuire che lo Stato non avrebbe potuto fare a meno di garantire
«i diritti»
delle famiglie fondate sul matrimonio, alle quali veniva
così assicurata una
relativa sfera di autonomia rispetto al potere regolativo dello Stato:
di qui l’illegittimità
costituzionale una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti
di tali
famiglie.
I
cattolici hanno sempre tentato di interpretare questa norma secondo la
loro
prospettiva giusnaturalistica, affermando che a tali famiglie viene qui
piuttosto
riconosciuta una priorità e una originalità
rispetto all’ordinamento dello
Stato. Hanno sempre negato che il riferimento al carattere di
«società
naturale» della famiglia possa ricavarsi da un concetto
sociologicamente
determinato e storicamente mutevole di che cosa costituisca
“famiglia” ai sensi
della Costituzione e che a tale espressione vada quindi riconosciuto un
valore
puramente recettizio. Questa tesi però non nasce con lo
scopo artificioso di
fornire oggi una legittimazione costituzionale al riconoscimento delle
famiglie
di fatto o di quelle omosessuali, ma era già stata sostenuta
in epoca non
sospetta: per esempio, già nel capitolo del Commentario
della Costituzione
diretto da Giuseppe Branca dedicato all’art. 29, redatto nel
1976 da Mario Bessone.
In
ogni caso, rispondendo alle critiche dei parlamentari laici contro il
carattere
ideologico che altri democristiani, come La Pira, intendevano
attribuirle, lo
stesso Aldo Moro, in sede di Assemblea costituente, dichiarò
che quella
dell’art. 29 «non è una definizione,
è una determinazione di limiti». E Mortati
ribadì che essa aveva lo scopo di «circoscrivere i
poteri del futuro
legislatore in ordine alla sua [della famiglia]
regolamentazione». L’autonomia
della famiglia fondata sul matrimonio, come “formazione
sociale intermedia”,
non avrebbe potuto essere invasa da interventi autoritari, come quelli
messi in
atto dai regimi fascisti appena tramontati o da quelli comunisti, volti
a
soppiantarla a vantaggio di regolamentazioni autoritative di taglio
statalista
o collettivista e di modelli organizzativi o fini contrastanti con
quello di
sede del libero e autonomo svolgimento della personalità dei
suoi singoli
componenti e di tutela dei loro «diritti
inviolabili» (così definiti dall’art.
2). Punto.
L’art.
29 non prende neppure in considerazione modelli familiari alternativi a
quello
della famiglia fondata sul matrimonio, modelli che certo non tutela, ma
dei
quali anche si disinteressa totalmente, e quindi non gli si
può far dire che
diritti analoghi o uguali a quelli riconosciuti alla famiglia
tradizionale
devono essere sempre negati alle famiglie non tradizionali e non
fondate sul
matrimonio. Un tale riconoscimento da parte della legge ordinaria,
infatti, non
riguarderebbe minimamente la materia regolata dall’art. 29, e
non avrebbe
nessuna incidenza su quel che l’art. 29 dispone, dato che non
sarebbe
suscettibile di modificare, limitare, compromettere o intaccare in
nessun modo
e in nessuna misura i diritti o la sfera di autonomia delle famiglie
tradizionali,
che non ne sarebbero neppure sfiorati.
Al
contrario, è la Costituzione, all’art. 30, che
richiede esplicitamente, almeno
ai fini della tutela dei figli naturali, l’eliminazione delle
leggi ordinarie
emanate al solo fine di punire le famiglie diverse da quelle
tradizionali
(obiettivo che, realizzato in buona misura dalla riforma del diritto di
famiglia del 1975, viene oggi apertamente contraddetto da leggi
regionali -
come quella del Friuli-Venezia Giulia - che discriminano apertamente i
figli
naturali per colpire le scelte di vita dei genitori, leggi che non sono
ancora
state dichiarate illegittime, e che sono state approvate grazie al
nuovo clima
e ai nuovi poteri ottenuti con l’improvvida riforma sul
federalismo interno,
oltre che grazie al lobbismo neoclericale e all’assenza di
quel controllo
democratico diffuso e competente che circonda pur sempre
l’attività delle
Camere ma non quella dei Consigli regionali).
Del
resto, all’epoca dell’approvazione della
Costituzione, le famiglie non
tradizionali non costituivano certo quel fenomeno sociale diffuso ed
emergente
che ne fa oggi un problema politico di tutto rilievo nelle nostre
società; o
meglio, esistevano come mera conseguenza
dell’impossibilità di scioglimento del
matrimonio, ma non costituivano in genere una scelta di vita
volontaria, bensì
un mero ripiego cui gli interessati avrebbero ben volentieri rinunciato
se
avessero potuto risposarsi. Tanto meno era pensabile che si potesse mai
porre
in termini legislativi il problema del riconoscimento delle famiglie
omosessuali. Nessuna sorpresa quindi che la materia non fosse ritenuta
di
rilevanza (addirittura) costituzionale.
Anche
in linea più generale, d’altra parte, è
del tutto illogico pretendere che la
particolare o rinforzata tutela esplicitamente garantita dalla
Costituzione a
una specifica situazione obblighi positivamente anche a denegare lo
stesso
trattamento ad altre situazioni socialmente analoghe o identiche: la
garanzia
costituzionale rinforzata di un diritto non implica di per
sé anche l’obbligo
costituzionale di negare la parità di trattamento ai casi in
cui, pure, essa
non sia costituzionalmente dovuta. Gli articoli 33 primo comma e 19
tutelano in
modo particolare, rispettivamente, la libertà di
insegnamento e la libertà di
culto, ma nessuno si sogna di trarne la conseguenza che la
libertà di
espressione del pensiero in altri campi, garantita in modo meno
incondizionato
dall’art. 21, debba essere obbligatoriamente limitata al solo
fine di
sottolinearne un presunto minor valore o una minore dignità
nei casi che non
sono oggetto della tutela rinforzata prevista dagli artt. 33 e 19.
Affermare in
modo particolarmente solenne e impegnativo i diritti di qualcuno
(perché sono
la storia recente e gli avvenimenti altrove in corso a consigliare di
farlo) non
equivale a vietare qualunque minimo riconoscimento dei diritti di
qualcun
altro; e comunque una così rilevante denegazione di diritti,
per essere
obbligatoria benché derogatoria rispetto a principi
fondamentali della
Costituzione, dovrebbe almeno essere stata formulata in modo espresso.
Il
problema dei limiti costituzionali all’intervento legislativo
sulla famiglia ha
semmai posto delicati problemi nel passato: quando si è a
lungo e animatamente
discusso se e fino a che punto proprio la disciplina legislativa della
famiglia
tradizionale fondata sul matrimonio potesse essere oggetto di incisive
riforme,
in particolare in relazione ad un preteso obbligo di garantirne
l’indissolubilità (nonostante la Costituente
avesse approvato, per soli tre
voti, un emendamento soppressivo della costituzionalizzazione
dell’indissolubilità) e più in generale
in relazione ad un presunto obbligo di
preservarne i caratteri tramandati dalla tradizione e ritenuti da
politici e
giuristi clericali intrinseci ad un astorico modello proprio della
«famiglia
come società naturale»: e ciò,
nonostante che lo stesso art. 29, al secondo
comma, e l’art. 30, non solo autorizzassero, ma addirittura
imponessero
incisive riforme, con ciò smentendo la fondatezza
dell’interpretazione
“tradizionalista”. Ma questi problemi, risolti con
la legge sul divorzio e con
la riforma del ’75, non hanno comunque alcuna attinenza con
l’introduzione e il
riconoscimento di nuovi istituti giuridici, relativi a modelli di
famiglia non
tradizionali e diversi da quello di cui si occupa l’art. 29.
Va
tra l’altro rilevato che l’interpretazione qui
proposta dell’art. 29 primo
comma, perfino banale oltre che strettamente letterale, dovrebbe in
teoria
essere tutt’altro che sgradita a giuristi di orientamento
conservatore, se non
portasse a sgradite conseguenze politiche. Essa è infatti
perfino coerente con
una assai sobria concezione positiva della Costituzione, intesa come
mero
limite all’attività del legislatore ordinario,
concezione abitualmente
preferita dai giuristi conservatori, o anche liberalconservatori, a
quella di
chi nella sinistra italiana ha considerato per anni la Costituzione del
’48
come la traccia di un “programma” di mutamento
sociale cui il legislatore
ordinario avrebbe dovuto attenersi per realizzarne gli obiettivi di
riforma
sociale e attuare i valori etico-politici in essa racchiusi (Tarello).
Negli ultimi anni si è
tentato in
realtà di leggere l’articolo 29 primo comma come
se esso riproducesse in Italia
l’art. 6.1 della Costituzione tedesca, secondo il quale
«il matrimonio e la
famiglia godono della particolare protezione dell’ordinamento
statale» [Ehe und Familie stehen unter dem besonderen
Schutze der
staatlichen Ordnung].
Tale formulazione avrebbe potuto in teoria, con qualche forzatura,
autorizzare
interpretazioni restrittive come quelle auspicate in Italia dagli
esegeti
neoclericali dell’art. 29, dato che l’aggettivo besonder-,
qui reso in italiano
con “particolare”, copre anche un campo semantico
più ampio, che include
significati come “speciale” o “über
das Normale” (Duden),
cioè “superiore al consueto”: se ne
potrebbe in
teoria dedurre non solo una particolare tutela da regolamentazioni
invasive, ma
anche l’imposizione di un regime “di
privilegio”, derogatorio rispetto al
principio di uguaglianza formale. È molto verosimile che
all’origine o a
sostegno della nuova vulgata interpretativa dell’articolo 29,
incentrata non
più sui limiti alla regolamentazione legislativa della
famiglia fondata sul
matrimonio ma sull’asserito divieto di parità di
trattamento per le famiglie
non tradizionali, ci sia stato, a suo tempo, il più
sofisticato e ambizioso
intento di proporre in Italia interpretazioni dottrinali restrittive
elaborate
dai giuristi conservatori tedeschi. In realtà, se tale fosse
stato l’obiettivo,
va detto che lo sforzo era mal indirizzato: contro la legge tedesca sul
“matrimonio gay”, la Lebenspartnerschaftsgesetz,
analoga alle leggi “matrimoniali” scandinave,
approvata due anni fa dalla
coalizione “rosso-verde”, avevano fatto ricorso
alla Corte costituzionale i Länder
governati da Cdu e Csu,
ma la Corte ha recentemente
respinto la tesi dell’incostituzionalità (anche
se, significativamente, sulla
base dell’argomento che tale legge non equipara proprio
interamente al
matrimonio tradizionale le unioni omosessuali).
In
ogni caso, in Italia l’art. 29 primo comma stabilisce
soltanto che la legge non
può denegare i diritti o ledere la sfera di autonomia delle
famiglie fondate
sul matrimonio, e non tutela, ma neppure regola in alcun modo, le
famiglie alternative.
Non fissa nessuna scala gerarchica di dignità delle scelte
individuali, e non
esprime neppure indicazioni o “preferenze” sulle
libere scelte che i cittadini
compiono riguardo alle loro vite. Questo però non significa
che altre
indicazioni, anche cogenti, non siano desumibili da altre disposizioni
costituzionali. Una norma cardine dell’intero ordinamento
costituzionale
italiano, come l’articolo 3 primo comma, che impone
l’uguaglianza formale fra i
cittadini come parametro fondamentale di legittimità della
legge ordinaria,
impone che situazioni giuridiche uguali siano trattate in modo uguale.
Nella
misura in cui situazioni giuridiche attinenti alle famiglie
tradizionali siano
identiche a quelle attinenti a famiglie non tradizionali, queste ultime
devono
essere trattate in modo identico. Non solo quindi l’art. 29
primo comma non
impone un trattamento differenziato, ma la Costituzione vigente nel suo
complesso - e in alcuni casi gli impegni internazionali
dell’Italia - impongono
al contrario parità di trattamento e parità di
diritti.
E
ancora: si è detto che l’art. 29 primo comma
colloca la tutela della famiglia nel quadro del sistema delle autonomie
riconosciute alle “formazioni sociali intermedie”.
Tali «formazioni sociali»,
che dunque ricomprendono anche la famiglia (tradizionale e
matrimoniale) come
caso speciale, rivestono il ruolo essenziale di luoghi «ove
si svolge la
personalità» del singolo individuo, come recita
l’art. 2. Come tali esse sono i
luoghi all’interno dei quali «la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo». Che fra tali
«formazioni sociali» possano riconoscersi
anche le “famiglie di fatto” comincia ad essere
abbastanza pacificamente
riconosciuto da dottrina e giurisprudenza. Ed è altrettanto
chiaro dalla lettura
complessiva delle disposizioni costituzionali riguardanti le
«formazioni
sociali» e la famiglia che il loro fine comune è
il pieno e libero sviluppo
della personalità e dei diritti umani fondamentali degli
individui che le
compongono (tanto che non ha mai avuto successo il tentativo di
attribuire alla
famiglia - neppure alla famiglia tradizionale e matrimoniale - il
carattere di
persona giuridica, titolare di situazioni giuridiche soggettive
distinte e
sovraordinate rispetto a quelle dei singoli componenti): è
evidente che, a
questi effetti, qualunque discriminazione non potrebbe che ritenersi
del tutto
illegittima.
Né si pensi che la stessa
qualificazione di “famiglia” qui attribuita alle
famiglie non tradizionali e
non fondate sul matrimonio sia irrilevante o meramente ideologica.
Anche a
prescindere dall’evidente rilievo assiologico della questione
- che pure è
costituzionalmente rilevante, trattandosi di riconoscere ai cittadini
la «pari
dignità sociale» assicurata dall’art. 3
primo comma - sono numerose le norme di
vario rango, a cominciare dall’art. 31 primo comma della
stessa Costituzione,
che attribuiscono alle “famiglie” (non sempre solo
alle famiglie con figli) determinati
benefici o agevolazioni economici o sociali: la mancata attribuzione
della
qualificazione di “famiglie” a quelle non
tradizionali non potrebbe che
comportare pesanti e illegittime discriminazioni, spesso a carico degli
individui che le compongono.
Quel che può essere oggetto
di
dibattito è quanto penetrante possa essere la parificazione
dei diritti:
l’articolo 3 primo comma impone di trattare in modo identico
situazioni
giuridiche identiche, ma, si argomenta, le situazioni configurabili per
le famiglie
di fatto non sono mai identiche a quelle delle famiglie fondate sul
matrimonio,
dato che i partner che hanno dato vita alle prime hanno pur
volontariamente
scelto di non sposarsi. Ed è evidente che, come ha anche
sottolineato la Corte
costituzionale, si frustrerebbe tale libertà di scelta, se
si volesse imporre
loro autoritativamente lo stesso regolamento giuridico delle famiglie
tradizionali. Tale argomento è ben fondato nel caso di
conviventi di sesso
diverso - ma non certo fino al punto di ritenere necessariamente del
tutto
irrilevante ogni e qualunque conseguenza economica, sociale e giuridica
dell’unione di fatto e comunque non mai, come ha anche
riconosciuto la stessa
Corte, per quel che riguarda i diritti dei figli, che non hanno potuto
scegliere
proprio nulla. Ma non lo è nel caso delle famiglie di fatto
omosessuali, dato
che i loro componenti, a differenza dei primi, non hanno potuto affatto
liberamente scegliere, in Italia, se sposarsi o meno. E, come tutti gli
esseri
umani, non hanno neppure scelto il proprio orientamento sessuale, e
quindi
affettivo, che costituisce così una «condizione
personale» ascritta, sulla base
della quale ogni discriminazione legislativa dovrebbe ritenersi
espressamente
vietata dall’art. 3 primo comma della Costituzione.
Né d’altra parte si vede in
che cosa la condizione giuridica di una coppia omosessuale convivente
si possa
distinguere rispetto a quella di una coppia di coniugi eterosessuali
che non
possano o non intendano avere figli.
Una soddisfacente soluzione di questo
aspetto del problema potrà aversi solo quando anche in
Italia sarà consentito
agli omosessuali di contrarre matrimonio (come al momento
può avvenire solo in
Olanda) o almeno di fare ricorso ad un istituto corrispondente che,
magari
senza assumere il nomen juris di matrimonio, e
magari limitandosi a
regolamentare soltanto i rapporti fra i partner (senza cioè
estendervi
l’applicabilità delle norme sulla filiazione),
consenta però a due persone
dello stesso sesso di scegliere di regolare i loro propri rapporti
giuridici e
patrimoniali ricorrendo alle stesse possibili alternative fra cui
possono
scegliere due partner di sesso diverso, senza alcuna discriminazione o
differenziazione. Tali istituti sono ormai vigenti in quasi tutti i
paesi
dell’Europa occidentale, e un progetto in tal senso (mirante
a istituire le
«unioni domestiche registrate») è stato
da qualche mese presentato anche al
Parlamento italiano dal deputato Grillini e altri.
Anche una volta che un tale istituto
fosse introdotto nell’ordinamento italiano, resterebbe
comunque il problema
delle famiglie di fatto (eterosessuali o omosessuali), non intenzionate
a
ricorrere al matrimonio o alla corrispondente “unione
registrata”. La
predisposizione di nuovi istituti giuridici ad esse riservati appare
necessaria, di fronte alla molteplicità dei legami
famigliari e affettivi
prodotti dal pluralismo sociale, e può essere prevista sia
introducendo la
possibilità, per chi lo preferisca, di adottare
regolamentazioni pattizie più
leggere ed elastiche del matrimonio e dell’“unione
registrata” (come il Pacs
francese, di cui lo stesso deputato diessino ha appena presentato una
versione
italiana), sia prevedendo una qualche minimale forma di tutela almeno
del
partner economicamente molto svantaggiato in caso di scioglimento di
convivenze
more uxorio anche non formalizzate in alcun modo ma
protrattesi a lungo
nel tempo.
Che la Costituzione italiana vieti
tutto questo è un’emerita sciocchezza. Ripetuta
ossessivamente da zelanti
parlamentari, giornalisti e giuristi neoclericali potrà
anche diventare senso
comune, come sempre più spesso capita che avvenga alle
sciocchezze
ossessivamente ripetute dai media. Ma resterà pur sempre
un’emerita
sciocchezza.
Da Critica liberale, n. 86, dicembre 2002.
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