Letterina
di fine anno (e di fine ventennio). Risposte ai critici.
di
Felice Mill Colorni
[Replica alle obiezioni
avanzate sul sito Internet di Critica liberale all’intervento
“Su Monti, su Critica liberale, sul liberalismo, sulla
politica, sull’utopia”]
Non
sono sorpreso delle
critiche di alcuni dei nostri amici di cui avevo a mia volta criticato
le tesi
nel mio intervento iniziale. Sono però molto sorpreso da
alcuni degli argomenti
utilizzati. È davvero la prima volta in vita mia che mi
vengono attribuite
opinioni addirittura imparentate con quelle di Reagan e Thatcher, o
l’intenzione
di volere “americanizzate” l’Italia e
l’Europa, e non capisco da quale
passaggio di quel che ho scritto un tale equivoco possa essersi
prodotto.
Oltre
ad avere opinioni
diametralmente opposte a quelle del reagan-thatcherismo in materia di
diritti
civili e ad avversare profondamente i loro principi etico-politici
tradizionalisti e nazionalisti (e nel caso della Thatcher antieuropei),
ho
anche sempre detestato il darwinismo sociale spesso esaltato in quella
stagione
e da quella cultura politica, e ancor più la sua retorica
vendicativa: molto
più ancora di quanto non mi trovi in dissenso con le tesi di
chi ritiene
riproponibili le soluzioni messe in pratica dalla sinistra
socialdemocratica
novecentesca, e molto più di quanto non mi senta, come sono
sempre stato,
estraneo all’estetica e alla retorica della sinistra di
tradizione latamente
socialista. Non ho mai condiviso alcuna fede nel mito della
“mano invisibile”,
né mi sono mai sognato di pensare che l’assenza di
regole giovi all’economia di
mercato. Non so neppure quanto io abbia titolo a definirmi liberista
– credo
che il nostro amico liberista Bitetto abbia qualche dubbio in proposito
– e certamente
non ho nulla del liberista utopico.
Semplicemente
non credo
che le soluzioni socialdemocratiche novecentesche siano ancor oggi
efficaci e
praticabili nella mutata situazione. Penso quindi che la struttura del
welfare vada
profondamente ripensata e riformata, per renderla sostenibile, non per
“rottamarla”, come invece sta avvenendo di fatto
ora, e proprio per mancanza di
riforme. Non credo alla possibilità del
“keynesismo in un solo paese”, non
credo che le nuove tecnologie siano compatibili con il ritorno a
rapporti di
lavoro standardizzati di tipo novecentesco – e quindi con le
politiche del
lavoro, e con il tipo di conflitto sociale, correlati a quei sistemi di
produzione – e non credo che si possa onestamente affermare
che i meccanismi di
finanziamento del welfare novecentesco siano sostenibili nella nuova
situazione
demografica, con l’aumento dell’aspettativa di vita
e con le nuove possibilità
di cura determinate dal progresso medico e tecnologico. Se non a prezzo
di
nuove, diverse e pesantissime iniquità e disuguaglianze.
Non
mi pare neppure di
non avere manifestato queste opinioni in precedenza, come sembra
supporre il
nostro amico Paolo Ercolani (nessuno fra noi, e tanto meno io, abbiamo
mai
coltivato le nostre amicizie entro ghetti monogenerazionali): se ne
può trovare
ampia traccia sia in altri interventi scritti e pubblicati sulla
rivista, sia
nelle nostre discussioni, soprattutto dell’ultimo anno, da
quando cioè il dibattito
economico è diventato parte importante della rivista come
mai in precedenza. È
stato probabilmente il fortissimo taglio
“antimontiano” della prima pagina del
sito in queste ultime settimane che mi ha spinto ad articolare
più
sistematicamente opinioni già più volte espresse
(e già più di dieci anni fa,
come potete constatare da uno degli articoli citati nella
“letterina”, e senza
che ciò suscitasse all’epoca la minima obiezione
al nostro interno). D’altronde
le festività non sono propizie alla scrittura per chi ha
famiglia, ma lo sono
per i single. Me ne scuso.
Io
continuo a ritenermi
un “liberale di sinistra” o liberalprogressista, o
liberalradicale che dir si
voglia. Non credo neppure che le diseguaglianze non siano una causa, e
probabilmente la principale, della crisi: su questo punto, anzi, mi
avete
abbastanza convinto. E non sono per nulla i principi di fondo della
protezione
sociale che metto in questione.
Tanto
meno mi nascondo,
proprio io, come quel che accade sia causa e conseguenza di mutamenti
dei
rapporti di forza fra gruppi sociali. L’ho scritto a chiare
lettere in un articolo
recente, che peraltro avevo citato anch’esso in calce alla
“letterina”, dove
affermavo testualmente: «C’è
poco da fare: l’apertura dei confini
e l’interdipendenza garantiscono al meglio possibile la pace
fra superpotenze,
ma, per converso, il lavoro ha perso il valore economico che aveva
progressivamente acquistato nel corso di un secolo»,
e per conseguenza,
«il
conflitto sociale non può più avere la
funzione, l’efficacia e il rilievo che aveva ai tempi in cui
Einaudi rifletteva
sullo sciopero dei portuali di Genova del 1900».
Mi sembra quindi di
aver ben presente che sono cambiati i rapporti di forza, tanto che non
li credo
neppure modificabili volontaristicamente (e come poi? Con
l’“ottimismo della
volontà”? E per restaurare una società
che non c’è più?). E infine non capisco
da che cosa di quel che ho scritto si possa trarre la conclusione che
non mi
renda conto di come il disagio economico incida negativamente
sull’esercizio
effettivo delle libertà liberali, consapevolezza che mi
sembrava al contrario
di avere ripetutamente indicato come quella che caratterizza da un
secolo e
mezzo il liberalismo progressista distinguendolo da quello conservatore.
Penso
però che insistere
con le vecchie ricette produca oggi risultati opposti alle intenzioni,
sia in
termini di efficacia, sia in termini di equità, sia ai fini
della lotta alla
corruzione e alla trasparenza delle forme di costruzione del consenso
democratico.
E l’eterogenesi dei fini è la forma principe dei
fallimenti della sinistra nel
Novecento. Penso che non governare il cambiamento in atto, per
sforzarsi di
difendere quel che non può essere difeso, sia già
oggi fonte di impoverimento,
di iniquità e di disuguaglianze crescenti. Ma non mi sono
mai sognato di
mettere in causa né il significato di civiltà che
ha avuto la costruzione del
welfare nel secolo scorso – mi sembrava di averlo
sottolineato molto
chiaramente – né tanto meno di propugnarne un
azzeramento all’insegna del “si
salvi chi può”, o addirittura un ritorno alle
“ricette dell’Ottocento”. Ma
quando mai.
Credo
che i sistemi di
protezione sociale vadano ripensati e riformati da cima a fondo per
poter
essere ancora – o nuovamente – efficaci e
sostenibili. E credo che rifiutarsi
di prenderne atto non potrà che portare al loro collasso
prima di quel che non
si pensi.
Su
questo credevo di
essere stato chiaro, ma evidentemente non lo sono stato.
O
forse l’equivoco
dipende dal modo binario di affrontare tutte le questioni della vita
pubblica
che si è affermato, con esiti disastrosi, nel diciottennio
di fango, e del
resto adombrato nelle categorie schmittiane evocate da Pierfranco.
L’accettazione
delle
quali significa forse che dobbiamo scegliere fra il mantenimento in
vita di
carrozzoni parassitari e clientelari e il darwinismo sociale? Che tutto
va
schiacciato a forza in uno di questi due contenitori?
C’è
un altro equivoco che mi preme dissolvere. È vero che, per
quel che
riguarda la specifica situazione italiana, a me pare che le cose siano
– salve
sorprese ancora possibili – in netto miglioramento, con
l’inizio del tramonto,
almeno apparente, della funesta stagione berlusconiana.
All’interno
di una crisi generale della democrazia costituzionale in
Occidente, su cui ho anche ampiamente scritto nei mesi passati sulla
rivista,
credo che ci sia stata in questi anni in Italia una degenerazione
distinta, specifica
e ulteriore, che ha reso infinitamente più grave di quella
generale la
situazione italiana, che va quindi tenuta separata dal più
complessivo fenomeno
della crisi della democrazia occidentale. Una degenerazione che ha
prodotto una
regressione civile che non potrà essere sanata, se tutto
dovesse andar bene, in
meno di una generazione. Anche nel ’29 la crisi era stata
globale, e forse le
risposte alla fine furono abbastanza simili, ma le situazioni e le sue
conseguenze politiche non erano state affatto ovunque le stesse.
Non
mi consta che siano esistiti altri capi di governo, nel mondo, che
abbiano
avuto uno dei propri due principali collaboratori condannato con
sentenza
definitiva per avere corrotto dei giudici in suo favore, e
l’altro, in primo e
secondo grado, per collusioni mafiose; che siano sopravvissuti a decine
di
imputazioni infamanti solo aggrappandosi alla prescrizione, facendosela
accorciare ulteriormente per via legislativa, facendosi pure abrogare
uno dei
delitti per i quali erano sotto processo a pochi giorni dalla sentenza,
e
ciononostante rimanendo in carica; che, chiamati a testimoniare in un
processo
di mafia (in un processo di mafia!) si siano avvalsi della
facoltà di non
rispondere rimanendo tuttavia in carica come capi di governo; che
abbiano
pubblicamente definito “eroe” (e in un comizio
elettorale a Palermo!) un
boss mafioso pluricondannato per avere mantenuto il silenzio in galera;
che
stiano in politica inquinando e condizionando la competizione
democratica
attraverso il controllo di quasi tutte le tv private nazionali del
paese e di una
quota enorme di quella pubblica; che si siano cuciti addosso decine di
leggi ad personam per farla franca
e altre per
regalare centinaia di milioni alla propria azienda e rafforzare la
propria
posizione di dominio nel mercato pubblicitario innalzando le soglie di
concentrazione ammissibili; che abbiano turlupinato ereditiere
minorenni,
azzerato la memoria storica, rivalutato il fascismo storico, esibito
razzismo e
omofobia, seminato analfabetismo civile; che, titolari per dovere
d’ufficio di
innumerevoli segreti di Stato, si facciano ricattare perfino da
giovanotte
senz’arte né parte e da faccendieri di ogni risma;
che abbiano piazzato nelle
istituzioni rappresentative, a carico dei contribuenti, le proprie
“igieniste
dentali” e i propri massaggiatori; che abbiano ritenuto di
poter offendere pubblicamente,
a ripetizione, i rappresentanti dei principali paesi partner e alleati
del
proprio; che utilizzino propri giornali per diffamare i propri
avversari e per
rivendicare il diritto di diffamare impunemente, ecc., ecc., ecc., ecc.
Altri
possono anche essere pessimi, peggio che pessimi, e inetti, e
cialtroni, e aggiungete quel che volete. Forse possono essere pari a
Berlusconi
in fatto di inettitudine, possono anche invidiarne la
capacità di nuocere
impunemente. Ma la nequizia e le degenerazioni raggiunte dal
berlusconismo non sono
semplicemente alla loro portata, per quanto ce la mettano tutta. Li
trascendono.
Sono inarrivabili.
Nulla,
proprio nulla, può essere paragonato a quella che
è stata la
situazione italiana degli anni di fango. Almeno nell’Europa
occidentale degli
ultimi 67 anni. Forse perfino alcuni di noi si sono invece abituati in
questi
anni a tutto questo, e non ne colgono più
l’assoluta unicità. O, come faceva
Bertinotti, vedono in Berlusconi nient’altro che la
manifestazione italiana
dell’imperialismo liberista internazionale. Invece tutto
questo non ha avuto
alcun parallelo in nessun altro paese civile. Non
si tratta
affatto di una questione di bon ton (anche se
essere definiti nel mondo
intero dalla cafonaggine degli ultimi anni ha pure avuto un costo). Si
è
trattato in questi anni dello scardinamento sistematico
dell’assetto
costituzionale della Repubblica.
Per
questo, non credo affatto che gli anni di fango italiani abbiano avuto
un rapporto diretto e consequenziario con la crisi globale, che tra
l’altro
precedono di parecchi anni, e neppure con i mutamenti che un tempo si
sarebbero
detti “strutturali” iniziati negli anni precedenti;
non credo affatto che il
berlusconismo sia la pura e semplice conseguenza o manifestazione
indigena di
un fenomeno globale.
È
vero che nel ’93 una parte della società italiana,
soprattutto al Nord,
era in cerca del suo Reagan o della sua Thatcher. Ma se, invece,
è arrivato
Berlusconi con quel che ne è seguito, alla base di questa
degenerazione mi pare
vi sia stata soprattutto la convergenza fra dinamiche tutte interne al
sistema
politico e l’arretratezza civile, del paese e del suo
establishment,
strettamente legata all’“autobiografia della
nazione” (su cui Gobetti mi pare
molto più convincente che nei suoi abbagli sulla democrazia
dei consigli). Ed è
soltanto all’almeno apparente esaurimento di questo fenomeno
italiano che si
riferisce l’attenuazione del mio pessimismo.
Altro
è però ritenere che il sistema politico italiano
si stia forse
dirigendo finalmente verso una (relativa e ancora incerta) ritrovata
normalità,
e che quindi il sistema politico ne risulti meno impraticabile che nel
recente
passato, ben altro è ritenere soddisfacente questo risultato
tutto interno alla
situazione italiana.
Al
contrario, per quel che riguarda il “tramonto
dell’Occidente” (del
“mio”, credo largamente
“nostro”, Occidente: uso questa espressione in
senso
addirittura opposto a quello del più celebre utilizzatore
della formula), sono
lontanissimo dal considerare soddisfacente l’attuale
congiuntura, o il paese
avviato sulla buona strada, o sulla via del risanamento la crisi
globale. Altro
che schemini “consolatori”. Io credo che non ci sia
proprio nessuna
consolazione in vista, e, a differenza di La Torre e Pellizzetti,
nessuna
praticabile ricetta del buon tempo andato, adottabile sul piano
nazionale e capace
di avvicinarla.
Non
solo credo che siamo di fronte, pressoché ovunque, a una
torsione
degenerativa della democrazia rappresentativa, dato che le
qualità richieste
per vincere le elezioni hanno sempre meno a che fare con quelle
necessarie
all’efficacia della rappresentanza politica. Manca anche del
tutto lo stesso
decisore politico necessario a qualunque svolta, cioè un
decisore politico al
tempo stesso democraticamente legittimato e sovranazionale: come minimo
–
davvero come minimo – al livello e del peso globale
dell’attuale Unione
Europea. Ma in realtà quel che servirebbe per assicurare
efficacia sarebbe un
decisore politico democraticamente legittimato, politicamente coeso e
che
almeno comprendesse, oltre all’Unione Europea, anche gli
Stati Uniti. E basta
enunciare questi requisiti per capire che il decisore necessario
continuerà a
mancare.
E
tuttavia non me la sento per questo di rimpiangere, o di nutrire la
minima nostalgia, per una lunga stagione delle nostre vite in cui
metà
dell’Europa – anzi una larga parte del mondo
– era dominata da dittature ben
più totalitarie e repressive di quelle oggi sopravvissute,
seconde solo al
nazismo e peggiori perfino del fascismo storico italiano;
un’epoca in cui la
povertà assoluta e le carestie producevano nel mondo stragi
quotidiane molto
più estese delle attuali; in cui i conflitti periferici
erano raramente “a
bassa intensità”; e in cui, soprattutto, abbiamo
vissuto all’ombra della
quotidiana minaccia dell’annientamento totale o della
regressione all’età della
pietra.
Non
so voi, ma io ho vissuto gli anni del terrore nucleare con la
quotidiana – davvero quotidiana – consapevolezza
che la sopravvivenza
dell’umanità dipendeva interamente dalla
lucidità e dall’assennatezza delle
valutazioni di un numero indeterminato di sconosciuti ufficiali di
rango
medio-alto dell’Armata rossa – perfino dalla loro
sobrietà – e
dall’affidabilità della tecnologia a loro
disposizione. Questa era la
situazione almeno negli anni successivi all’installazione
degli euromissili,
quando i tempi di reazione a un attacco missilistico si erano ridotti a
cinque
minuti: il che escludeva la possibilità di qualunque
decisione razionalmente
discussa da una leadership politica sulla fondatezza ed
effettività della
minaccia e sulla messa in atto della ritorsione. Del resto, noi siamo
vivi solo
grazie alla determinazione e al coraggio del ventisettenne
vicecomandante di un
sommergibile sovietico, Vassili Arkhipov, che anni prima aveva fatto
mancare il
proprio indispensabile consenso al lancio di un siluro nucleare contro
una
portaerei americana nei giorni della crisi di Cuba, mentre gli altri
due
decisori designati, il comandante e il terzo ufficiale e commissario
politico del
sommergibile in immersione, avevano già deciso per
l’attacco. In quegli anni
qualche migliaio di cittadini tedeschi – dove si era
maggiormente consapevoli
della situazione – si era trasferito in Australia o in Nuova
Zelanda, dato che
si riteneva che nell’emisfero Sud
l’umanità avrebbe potuto sopravvivere a una
guerra nucleare globale. Io invece nel day
after
non avrei proprio
desiderato sopravvivere.
Non
chiedetemi quindi di deprecare l’interdipendenza globale che
è
conseguenza della globalizzazione, anche se questa ha ridotto di molto,
soprattutto ma non solo per insipienza degli europei, la
capacità di
autodeterminazione democratica delle nostre società.
Tanto
più che non mi sembra che la società industriale
di un tempo, con le
sue durezze e i suoi destini anch’essi largamente segnati,
meriti la struggente
elegia nostalgica, dai toni che potevano ricordare il lamento di
Pasolini sulla
morente civiltà contadina, che mi è capitato di
leggere sul sito tempo fa.
Mi
pare che il mio punto di vista, lungi dall’essere
“consolatorio”, sia
ben più “tragico” (in senso letterale)
di quello di Giovanni e Pierfranco, che almeno
pensano di possedere una possibile e praticabile ricetta per
l’uscita dalla
crisi: che ritengono cioè che l’adozione di
politiche economiche fortemente
diverse, e in larga misura già sperimentate con successo in
un mondo davvero
diverso dal nostro, potrebbe portarci un’altra volta fuori
dalla crisi e
assicurare una più diffusa giustizia sociale.
Però
intanto il debito italiano sta lì, e mi sembra che nessuno
di noi
prospetti l’ipotesi che sia possibile e meno dannoso non
rimborsarlo. I redditi
da tassare ulteriormente sono sempre gli stessi, aliquote molto
più alte su
quelli dei super-ricchi sarebbero anche moralmente giustificate ma non
risolverebbero minimamente il problema, e gran parte del sistema
produttivo è
già ora sull’orlo del fallimento. La patrimoniale,
dopo l’Imu, sta già anche
nell’agenda Monti, al massimo sarà questione di
misura. La previdenza è basata
sul furto ai danni dei non garantiti, e non li garantirà
quando sarà il loro
turno. Il welfare sanitario è al tempo stesso al collasso e
massima e
strutturale fonte della corruzione politica. E allora? Quali altri
margini per
il keynesismo in un solo paese?
Io
penso che, finché non cambia la situazione internazionale, e
con i
margini che ci sono, non si possa fare molto di più che
cercare di evitare la
catastrofe assoluta, il baratro a un passo dal quale Berlusconi ci
aveva
portato nel novembre 2011, e che potrebbe riaprirsi in caso di
comportamenti
irresponsabili da parte della classe politica,
dell’elettorato,
dell’establishment o di quel che ne resta. Insomma,
all’interno di un solo
paese mi sembra che non si possa fare molto di più che
evitare l’attuale sorte
della Grecia. Con ogni rete di protezione sociale semplicemente
azzerata.
E
mi pare che quel che si può cercare di fare politicamente
sia intanto cercare
di difendere, in una situazione molto minacciosa, quel tanto di
razionalità che
consenta alla democrazia rappresentativa di sopravvivere alla crisi e
di non
essere spazzata via da nuovi irrazionalismi plebiscitari o da promesse
che mi
sembrano tanto desiderabili quanto impossibili da mantenere, e che, se
poi non
mantenute, rischiano di generare nuovi populismi incontrollabilmente
eversivi
della democrazia costituzionale.
È
in questo senso che a me l’“agenda Monti”
sembra (relativamente, si
intende, e data la situazione) probabilmente più affidabile
di altre proposte
sul tappeto. Anche e proprio perché non si fa eccessive
illusioni e non
promette molto di più di quel che può dare.
Passando,
più brevemente, alla contingenza politica e alle questioni
di schieramento,
condivido nella sostanza quel che ha scritto Giovanni Vetritto nel post
tuttora
disponibile nella prima pagina del sito di Critica: «Si
vanno aggregando due sole coalizioni presentabili, ciascuna orfana
della
componente del riformismo borghese: quella del centrosinistra aggregato
intorno
al PD, cui quella copertura manca sul fianco destro, e quella del nuovo
montismo degasperiano e centrista, monco di quella stessa componente
sul fianco
sinistro».
Per
quel che riguarda
l’analoga apertura al dialogo pure da me prospettata anche
nei confronti del
“nuovo montismo”, e che ha suscitato le
più unanimi obiezioni –
Paolo
Bonetti in questo caso
incluso –
è
più che ovvio che nulla mi
attendo dall’Udc e dal suo mondo, figuriamoci. E nulla dai
prevedibili numerosi
transfughi che penseranno di salvarsi grazie alla nuova
opportunità offerta
dalle circostanze. Ma non mi attendo neppure nulla da Rosi Bindi, da
Rutelli,
da Vendola o da Renzi. E meno di nulla da Ingroia, o da Di Pietro, o
dai
rimasugli dei partitini neocomunisti. E solo nuove possibili catastrofi
dalla
fatua e querula irresponsabilità degli apprendisti stregoni
di Grillo. Donadi
l’ho conosciuto a seguito dei rapporti che l’Idv ha
avuto in questi anni con
l’Alde e con l’Eldr a livello europeo, e mi
è sembrato consonante su molte
questioni, oltre che persona rispettabile. Ignoravo quali posizioni
avesse
assunto in occasione del G8 di Genova, ma tutti gli appartenenti
all’ambiente
di provenienza Idv hanno subito in questi anni evoluzioni e involuzioni
significative in disparate direzioni. Quanto ai sostenitori di Monti
estranei a
Udc e Fli, staremo a vedere, come ho scritto nella
“letterina”: e staremo a
vedere quale sarà il loro peso rispetto all’Udc,
di cui non mi sento di dare
per scontata la prevalenza in quella coalizione; e vedremo se vi
saranno o meno
fra loro presenze esplicitamente laiche. In ogni caso non mi sono
iscritto, né
tanto meno mi sono sognato di proporre l’adesione di Critica,
ad alcun gruppo
politico esistente o già in formazione. E neanche di
“riposizionare” la linea
della rivista, di cui dicevo anzi che non si può che
prendere atto della
compresenza al suo interno di diverse storie e biogafie
«dotate ciascuna di una
forte e assertiva identità politica e culturale».
D’altra
parte sulla
politica Critica ha scelto esplicitamente e di fatto, mi pare, di non
incidere
direttamente. Chi fra noi volesse farlo dovrà eventualmente
cercare altre
strade, indipendenti dalle attività della fondazione e della
rivista.
Un
partito
liberalprogressista italiano non c’è. E non
c’è, tra l’altro, anche
perché pure
noi non abbiamo mosso un dito per tentare assieme ad altri di farlo
nascere,
nel momento in cui si prospettava la prima ristrutturazione del sistema
politico italiano dal ’93-’94 – e forse
sarà l’ultima per molti anni. Se a
livello europeo i liberali sono un gruppo variegato, cui capita di
votare con i
popolari su molte questioni economiche e quasi sempre con il Pse e con
i verdi
sulle libertà civili (molto spesso anche sulla tutela dei
consumatori e
sull’ambiente), la situazione non mi pare molto differente
nel nuovo scenario
che si apre in Italia con il tramonto del berlusconismo (sempre che
così
accada). E con i margini di manovra dati dalla crisi, che a me sembrano
molto
più ristretti di quel che appaiono ad altri fra noi,
più ottimisti e forse più arrabbiati,
ma alla fine più consolabili di me. Tutto qui: neppure la
minima consonanza o
ammirazione postuma, da parte mia, né per Reagan
né per Thatcher.
[Replica ulteriore
a un
commento allo stesso post]
Ma
i rapporti di forza
non cambiano per effetto di “retoriche
mistificatorie”. Cambiano perché è
cambiato il mondo, perché sono cambiate le tecnologie,
perché uno sciopero
stile 1900 oggi è pressoché privo di effetto
sulla controparte. Perché, quindi,
quella “pericolosità antagonistica” non
c’è più, si è estinta. Ci si
può
piangere sopra, ma non serve a nulla, se non ad autoingannarsi. O a
rimpiangere
l’età del nostro (relativo) benessere diffuso di
occidentali, del gulag altrui
e dell’equilibrio del terrore (solo perché ne
siamo usciti tutti vivi per puro
caso). Se si organizzano, oggi sono effettivamente più
pericolosi i consumatori
che i lavoratori dipendenti (ricordate qualche anno fa lo
smantellamento di una
piattaforma petrolifera della Shell nel mare del Nord, imposta con un
boicottaggio da Greenpeace – che poi fece pure autocritica
ammettendo di
essersi sbagliata – cui la Shell dovette piegarsi?). Certo
che Obama qualcosa
può ancora decidere, perché gli Usa hanno ancora
la stazza per poterlo fare (e
anche per le ragioni monetarie che sempre ci ricorda Giovanni). Gli
europei no,
almeno finché non si daranno un governo europeo. E poi sarei
io quello che
sottovaluta i rapporti di forza?
Dal sito Internet di Critica
liberale, 18/01/2013
I file pubblicati su questo sito da Felice Mill Colorni sono
rilasciati con licenza
Creative
Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia
License.
Diritti di utilizzo ulteriori possono essere
richiesti a http://www.felicemillcolorni.it/Contatti.php.