Home

Scritti

Mail


Letterina di fine anno (e di fine ventennio). Risposte ai critici.

di Felice Mill Colorni

[Replica alle obiezioni avanzate sul sito Internet di Critica liberale all’intervento “Su Monti, su Critica liberale, sul liberalismo, sulla politica, sull’utopia”]

Non sono sorpreso delle critiche di alcuni dei nostri amici di cui avevo a mia volta criticato le tesi nel mio intervento iniziale. Sono però molto sorpreso da alcuni degli argomenti utilizzati. È davvero la prima volta in vita mia che mi vengono attribuite opinioni addirittura imparentate con quelle di Reagan e Thatcher, o l’intenzione di volere “americanizzate” l’Italia e l’Europa, e non capisco da quale passaggio di quel che ho scritto un tale equivoco possa essersi prodotto.

Oltre ad avere opinioni diametralmente opposte a quelle del reagan-thatcherismo in materia di diritti civili e ad avversare profondamente i loro principi etico-politici tradizionalisti e nazionalisti (e nel caso della Thatcher antieuropei), ho anche sempre detestato il darwinismo sociale spesso esaltato in quella stagione e da quella cultura politica, e ancor più la sua retorica vendicativa: molto più ancora di quanto non mi trovi in dissenso con le tesi di chi ritiene riproponibili le soluzioni messe in pratica dalla sinistra socialdemocratica novecentesca, e molto più di quanto non mi senta, come sono sempre stato, estraneo all’estetica e alla retorica della sinistra di tradizione latamente socialista. Non ho mai condiviso alcuna fede nel mito della “mano invisibile”, né mi sono mai sognato di pensare che l’assenza di regole giovi all’economia di mercato. Non so neppure quanto io abbia titolo a definirmi liberista – credo che il nostro amico liberista Bitetto abbia qualche dubbio in proposito – e certamente non ho nulla del liberista utopico.

Semplicemente non credo che le soluzioni socialdemocratiche novecentesche siano ancor oggi efficaci e praticabili nella mutata situazione. Penso quindi che la struttura del welfare vada profondamente ripensata e riformata, per renderla sostenibile, non per “rottamarla”, come invece sta avvenendo di fatto ora, e proprio per mancanza di riforme. Non credo alla possibilità del “keynesismo in un solo paese”, non credo che le nuove tecnologie siano compatibili con il ritorno a rapporti di lavoro standardizzati di tipo novecentesco – e quindi con le politiche del lavoro, e con il tipo di conflitto sociale, correlati a quei sistemi di produzione – e non credo che si possa onestamente affermare che i meccanismi di finanziamento del welfare novecentesco siano sostenibili nella nuova situazione demografica, con l’aumento dell’aspettativa di vita e con le nuove possibilità di cura determinate dal progresso medico e tecnologico. Se non a prezzo di nuove, diverse e pesantissime iniquità e disuguaglianze.

Non mi pare neppure di non avere manifestato queste opinioni in precedenza, come sembra supporre il nostro amico Paolo Ercolani (nessuno fra noi, e tanto meno io, abbiamo mai coltivato le nostre amicizie entro ghetti monogenerazionali): se ne può trovare ampia traccia sia in altri interventi scritti e pubblicati sulla rivista, sia nelle nostre discussioni, soprattutto dell’ultimo anno, da quando cioè il dibattito economico è diventato parte importante della rivista come mai in precedenza. È stato probabilmente il fortissimo taglio “antimontiano” della prima pagina del sito in queste ultime settimane che mi ha spinto ad articolare più sistematicamente opinioni già più volte espresse (e già più di dieci anni fa, come potete constatare da uno degli articoli citati nella “letterina”, e senza che ciò suscitasse all’epoca la minima obiezione al nostro interno). D’altronde le festività non sono propizie alla scrittura per chi ha famiglia, ma lo sono per i single. Me ne scuso.

Io continuo a ritenermi un “liberale di sinistra” o liberalprogressista, o liberalradicale che dir si voglia. Non credo neppure che le diseguaglianze non siano una causa, e probabilmente la principale, della crisi: su questo punto, anzi, mi avete abbastanza convinto. E non sono per nulla i principi di fondo della protezione sociale che metto in questione.

Tanto meno mi nascondo, proprio io, come quel che accade sia causa e conseguenza di mutamenti dei rapporti di forza fra gruppi sociali. L’ho scritto a chiare lettere in un articolo recente, che peraltro avevo citato anch’esso in calce alla “letterina”, dove affermavo testualmente: «C’è poco da fare: l’apertura dei confini e l’interdipendenza garantiscono al meglio possibile la pace fra superpotenze, ma, per converso, il lavoro ha perso il valore economico che aveva progressivamente acquistato nel corso di un secolo», e per conseguenza, «il conflitto sociale non può più avere la funzione, l’efficacia e il rilievo che aveva ai tempi in cui Einaudi rifletteva sullo sciopero dei portuali di Genova del 1900». Mi sembra quindi di aver ben presente che sono cambiati i rapporti di forza, tanto che non li credo neppure modificabili volontaristicamente (e come poi? Con l’“ottimismo della volontà”? E per restaurare una società che non c’è più?). E infine non capisco da che cosa di quel che ho scritto si possa trarre la conclusione che non mi renda conto di come il disagio economico incida negativamente sull’esercizio effettivo delle libertà liberali, consapevolezza che mi sembrava al contrario di avere ripetutamente indicato come quella che caratterizza da un secolo e mezzo il liberalismo progressista distinguendolo da quello conservatore.

Penso però che insistere con le vecchie ricette produca oggi risultati opposti alle intenzioni, sia in termini di efficacia, sia in termini di equità, sia ai fini della lotta alla corruzione e alla trasparenza delle forme di costruzione del consenso democratico. E l’eterogenesi dei fini è la forma principe dei fallimenti della sinistra nel Novecento. Penso che non governare il cambiamento in atto, per sforzarsi di difendere quel che non può essere difeso, sia già oggi fonte di impoverimento, di iniquità e di disuguaglianze crescenti. Ma non mi sono mai sognato di mettere in causa né il significato di civiltà che ha avuto la costruzione del welfare nel secolo scorso – mi sembrava di averlo sottolineato molto chiaramente – né tanto meno di propugnarne un azzeramento all’insegna del “si salvi chi può”, o addirittura un ritorno alle “ricette dell’Ottocento”. Ma quando mai.

Credo che i sistemi di protezione sociale vadano ripensati e riformati da cima a fondo per poter essere ancora – o nuovamente – efficaci e sostenibili. E credo che rifiutarsi di prenderne atto non potrà che portare al loro collasso prima di quel che non si pensi.

Su questo credevo di essere stato chiaro, ma evidentemente non lo sono stato.

O forse l’equivoco dipende dal modo binario di affrontare tutte le questioni della vita pubblica che si è affermato, con esiti disastrosi, nel diciottennio di fango, e del resto adombrato nelle categorie schmittiane evocate da Pierfranco.

L’accettazione delle quali significa forse che dobbiamo scegliere fra il mantenimento in vita di carrozzoni parassitari e clientelari e il darwinismo sociale? Che tutto va schiacciato a forza in uno di questi due contenitori?

C’è un altro equivoco che mi preme dissolvere. È vero che, per quel che riguarda la specifica situazione italiana, a me pare che le cose siano – salve sorprese ancora possibili – in netto miglioramento, con l’inizio del tramonto, almeno apparente, della funesta stagione berlusconiana.

All’interno di una crisi generale della democrazia costituzionale in Occidente, su cui ho anche ampiamente scritto nei mesi passati sulla rivista, credo che ci sia stata in questi anni in Italia una degenerazione distinta, specifica e ulteriore, che ha reso infinitamente più grave di quella generale la situazione italiana, che va quindi tenuta separata dal più complessivo fenomeno della crisi della democrazia occidentale. Una degenerazione che ha prodotto una regressione civile che non potrà essere sanata, se tutto dovesse andar bene, in meno di una generazione. Anche nel ’29 la crisi era stata globale, e forse le risposte alla fine furono abbastanza simili, ma le situazioni e le sue conseguenze politiche non erano state affatto ovunque le stesse.

Non mi consta che siano esistiti altri capi di governo, nel mondo, che abbiano avuto uno dei propri due principali collaboratori condannato con sentenza definitiva per avere corrotto dei giudici in suo favore, e l’altro, in primo e secondo grado, per collusioni mafiose; che siano sopravvissuti a decine di imputazioni infamanti solo aggrappandosi alla prescrizione, facendosela accorciare ulteriormente per via legislativa, facendosi pure abrogare uno dei delitti per i quali erano sotto processo a pochi giorni dalla sentenza, e ciononostante rimanendo in carica; che, chiamati a testimoniare in un processo di mafia (in un processo di mafia!) si siano avvalsi della facoltà di non rispondere rimanendo tuttavia in carica come capi di governo; che abbiano pubblicamente definito “eroe” (e in un comizio elettorale a Palermo!) un boss mafioso pluricondannato per avere mantenuto il silenzio in galera; che stiano in politica inquinando e condizionando la competizione democratica attraverso il controllo di quasi tutte le tv private nazionali del paese e di una quota enorme di quella pubblica; che si siano cuciti addosso decine di leggi ad personam per farla franca e altre per regalare centinaia di milioni alla propria azienda e rafforzare la propria posizione di dominio nel mercato pubblicitario innalzando le soglie di concentrazione ammissibili; che abbiano turlupinato ereditiere minorenni, azzerato la memoria storica, rivalutato il fascismo storico, esibito razzismo e omofobia, seminato analfabetismo civile; che, titolari per dovere d’ufficio di innumerevoli segreti di Stato, si facciano ricattare perfino da giovanotte senz’arte né parte e da faccendieri di ogni risma; che abbiano piazzato nelle istituzioni rappresentative, a carico dei contribuenti, le proprie “igieniste dentali” e i propri massaggiatori; che abbiano ritenuto di poter offendere pubblicamente, a ripetizione, i rappresentanti dei principali paesi partner e alleati del proprio; che utilizzino propri giornali per diffamare i propri avversari e per rivendicare il diritto di diffamare impunemente, ecc., ecc., ecc., ecc.

Altri possono anche essere pessimi, peggio che pessimi, e inetti, e cialtroni, e aggiungete quel che volete. Forse possono essere pari a Berlusconi in fatto di inettitudine, possono anche invidiarne la capacità di nuocere impunemente. Ma la nequizia e le degenerazioni raggiunte dal berlusconismo non sono semplicemente alla loro portata, per quanto ce la mettano tutta. Li trascendono. Sono inarrivabili.

Nulla, proprio nulla, può essere paragonato a quella che è stata la situazione italiana degli anni di fango. Almeno nell’Europa occidentale degli ultimi 67 anni. Forse perfino alcuni di noi si sono invece abituati in questi anni a tutto questo, e non ne colgono più l’assoluta unicità. O, come faceva Bertinotti, vedono in Berlusconi nient’altro che la manifestazione italiana dell’imperialismo liberista internazionale. Invece tutto questo non ha avuto alcun parallelo in nessun altro paese civile. Non si tratta affatto di una questione di bon ton (anche se essere definiti nel mondo intero dalla cafonaggine degli ultimi anni ha pure avuto un costo). Si è trattato in questi anni dello scardinamento sistematico dell’assetto costituzionale della Repubblica.

Per questo, non credo affatto che gli anni di fango italiani abbiano avuto un rapporto diretto e consequenziario con la crisi globale, che tra l’altro precedono di parecchi anni, e neppure con i mutamenti che un tempo si sarebbero detti “strutturali” iniziati negli anni precedenti; non credo affatto che il berlusconismo sia la pura e semplice conseguenza o manifestazione indigena di un fenomeno globale.

È vero che nel ’93 una parte della società italiana, soprattutto al Nord, era in cerca del suo Reagan o della sua Thatcher. Ma se, invece, è arrivato Berlusconi con quel che ne è seguito, alla base di questa degenerazione mi pare vi sia stata soprattutto la convergenza fra dinamiche tutte interne al sistema politico e l’arretratezza civile, del paese e del suo establishment, strettamente legata all’“autobiografia della nazione” (su cui Gobetti mi pare molto più convincente che nei suoi abbagli sulla democrazia dei consigli). Ed è soltanto all’almeno apparente esaurimento di questo fenomeno italiano che si riferisce l’attenuazione del mio pessimismo.

Altro è però ritenere che il sistema politico italiano si stia forse dirigendo finalmente verso una (relativa e ancora incerta) ritrovata normalità, e che quindi il sistema politico ne risulti meno impraticabile che nel recente passato, ben altro è ritenere soddisfacente questo risultato tutto interno alla situazione italiana.

Al contrario, per quel che riguarda il “tramonto dell’Occidente” (del “mio”, credo largamente “nostro”, Occidente: uso questa espressione in senso addirittura opposto a quello del più celebre utilizzatore della formula), sono lontanissimo dal considerare soddisfacente l’attuale congiuntura, o il paese avviato sulla buona strada, o sulla via del risanamento la crisi globale. Altro che schemini “consolatori”. Io credo che non ci sia proprio nessuna consolazione in vista, e, a differenza di La Torre e Pellizzetti, nessuna praticabile ricetta del buon tempo andato, adottabile sul piano nazionale e capace di avvicinarla.

Non solo credo che siamo di fronte, pressoché ovunque, a una torsione degenerativa della democrazia rappresentativa, dato che le qualità richieste per vincere le elezioni hanno sempre meno a che fare con quelle necessarie all’efficacia della rappresentanza politica. Manca anche del tutto lo stesso decisore politico necessario a qualunque svolta, cioè un decisore politico al tempo stesso democraticamente legittimato e sovranazionale: come minimo – davvero come minimo – al livello e del peso globale dell’attuale Unione Europea. Ma in realtà quel che servirebbe per assicurare efficacia sarebbe un decisore politico democraticamente legittimato, politicamente coeso e che almeno comprendesse, oltre all’Unione Europea, anche gli Stati Uniti. E basta enunciare questi requisiti per capire che il decisore necessario continuerà a mancare.

E tuttavia non me la sento per questo di rimpiangere, o di nutrire la minima nostalgia, per una lunga stagione delle nostre vite in cui metà dell’Europa – anzi una larga parte del mondo – era dominata da dittature ben più totalitarie e repressive di quelle oggi sopravvissute, seconde solo al nazismo e peggiori perfino del fascismo storico italiano; un’epoca in cui la povertà assoluta e le carestie producevano nel mondo stragi quotidiane molto più estese delle attuali; in cui i conflitti periferici erano raramente “a bassa intensità”; e in cui, soprattutto, abbiamo vissuto all’ombra della quotidiana minaccia dell’annientamento totale o della regressione all’età della pietra.

Non so voi, ma io ho vissuto gli anni del terrore nucleare con la quotidiana – davvero quotidiana – consapevolezza che la sopravvivenza dell’umanità dipendeva interamente dalla lucidità e dall’assennatezza delle valutazioni di un numero indeterminato di sconosciuti ufficiali di rango medio-alto dell’Armata rossa – perfino dalla loro sobrietà – e dall’affidabilità della tecnologia a loro disposizione. Questa era la situazione almeno negli anni successivi all’installazione degli euromissili, quando i tempi di reazione a un attacco missilistico si erano ridotti a cinque minuti: il che escludeva la possibilità di qualunque decisione razionalmente discussa da una leadership politica sulla fondatezza ed effettività della minaccia e sulla messa in atto della ritorsione. Del resto, noi siamo vivi solo grazie alla determinazione e al coraggio del ventisettenne vicecomandante di un sommergibile sovietico, Vassili Arkhipov, che anni prima aveva fatto mancare il proprio indispensabile consenso al lancio di un siluro nucleare contro una portaerei americana nei giorni della crisi di Cuba, mentre gli altri due decisori designati, il comandante e il terzo ufficiale e commissario politico del sommergibile in immersione, avevano già deciso per l’attacco. In quegli anni qualche migliaio di cittadini tedeschi – dove si era maggiormente consapevoli della situazione – si era trasferito in Australia o in Nuova Zelanda, dato che si riteneva che nell’emisfero Sud l’umanità avrebbe potuto sopravvivere a una guerra nucleare globale. Io invece nel day after non avrei proprio desiderato sopravvivere.

Non chiedetemi quindi di deprecare l’interdipendenza globale che è conseguenza della globalizzazione, anche se questa ha ridotto di molto, soprattutto ma non solo per insipienza degli europei, la capacità di autodeterminazione democratica delle nostre società.

Tanto più che non mi sembra che la società industriale di un tempo, con le sue durezze e i suoi destini anch’essi largamente segnati, meriti la struggente elegia nostalgica, dai toni che potevano ricordare il lamento di Pasolini sulla morente civiltà contadina, che mi è capitato di leggere sul sito tempo fa.

Mi pare che il mio punto di vista, lungi dall’essere “consolatorio”, sia ben più “tragico” (in senso letterale) di quello di Giovanni e Pierfranco, che almeno pensano di possedere una possibile e praticabile ricetta per l’uscita dalla crisi: che ritengono cioè che l’adozione di politiche economiche fortemente diverse, e in larga misura già sperimentate con successo in un mondo davvero diverso dal nostro, potrebbe portarci un’altra volta fuori dalla crisi e assicurare una più diffusa giustizia sociale.

Però intanto il debito italiano sta lì, e mi sembra che nessuno di noi prospetti l’ipotesi che sia possibile e meno dannoso non rimborsarlo. I redditi da tassare ulteriormente sono sempre gli stessi, aliquote molto più alte su quelli dei super-ricchi sarebbero anche moralmente giustificate ma non risolverebbero minimamente il problema, e gran parte del sistema produttivo è già ora sull’orlo del fallimento. La patrimoniale, dopo l’Imu, sta già anche nell’agenda Monti, al massimo sarà questione di misura. La previdenza è basata sul furto ai danni dei non garantiti, e non li garantirà quando sarà il loro turno. Il welfare sanitario è al tempo stesso al collasso e massima e strutturale fonte della corruzione politica. E allora? Quali altri margini per il keynesismo in un solo paese?

Io penso che, finché non cambia la situazione internazionale, e con i margini che ci sono, non si possa fare molto di più che cercare di evitare la catastrofe assoluta, il baratro a un passo dal quale Berlusconi ci aveva portato nel novembre 2011, e che potrebbe riaprirsi in caso di comportamenti irresponsabili da parte della classe politica, dell’elettorato, dell’establishment o di quel che ne resta. Insomma, all’interno di un solo paese mi sembra che non si possa fare molto di più che evitare l’attuale sorte della Grecia. Con ogni rete di protezione sociale semplicemente azzerata.

E mi pare che quel che si può cercare di fare politicamente sia intanto cercare di difendere, in una situazione molto minacciosa, quel tanto di razionalità che consenta alla democrazia rappresentativa di sopravvivere alla crisi e di non essere spazzata via da nuovi irrazionalismi plebiscitari o da promesse che mi sembrano tanto desiderabili quanto impossibili da mantenere, e che, se poi non mantenute, rischiano di generare nuovi populismi incontrollabilmente eversivi della democrazia costituzionale.

È in questo senso che a me l’“agenda Monti” sembra (relativamente, si intende, e data la situazione) probabilmente più affidabile di altre proposte sul tappeto. Anche e proprio perché non si fa eccessive illusioni e non promette molto di più di quel che può dare.

Passando, più brevemente, alla contingenza politica e alle questioni di schieramento, condivido nella sostanza quel che ha scritto Giovanni Vetritto nel post tuttora disponibile nella prima pagina del sito di Critica: «Si vanno aggregando due sole coalizioni presentabili, ciascuna orfana della componente del riformismo borghese: quella del centrosinistra aggregato intorno al PD, cui quella copertura manca sul fianco destro, e quella del nuovo montismo degasperiano e centrista, monco di quella stessa componente sul fianco sinistro».

Per quel che riguarda l’analoga apertura al dialogo pure da me prospettata anche nei confronti del “nuovo montismo”, e che ha suscitato le più unanimi obiezioni Paolo Bonetti in questo caso incluso è più che ovvio che nulla mi attendo dall’Udc e dal suo mondo, figuriamoci. E nulla dai prevedibili numerosi transfughi che penseranno di salvarsi grazie alla nuova opportunità offerta dalle circostanze. Ma non mi attendo neppure nulla da Rosi Bindi, da Rutelli, da Vendola o da Renzi. E meno di nulla da Ingroia, o da Di Pietro, o dai rimasugli dei partitini neocomunisti. E solo nuove possibili catastrofi dalla fatua e querula irresponsabilità degli apprendisti stregoni di Grillo. Donadi l’ho conosciuto a seguito dei rapporti che l’Idv ha avuto in questi anni con l’Alde e con l’Eldr a livello europeo, e mi è sembrato consonante su molte questioni, oltre che persona rispettabile. Ignoravo quali posizioni avesse assunto in occasione del G8 di Genova, ma tutti gli appartenenti all’ambiente di provenienza Idv hanno subito in questi anni evoluzioni e involuzioni significative in disparate direzioni. Quanto ai sostenitori di Monti estranei a Udc e Fli, staremo a vedere, come ho scritto nella “letterina”: e staremo a vedere quale sarà il loro peso rispetto all’Udc, di cui non mi sento di dare per scontata la prevalenza in quella coalizione; e vedremo se vi saranno o meno fra loro presenze esplicitamente laiche. In ogni caso non mi sono iscritto, né tanto meno mi sono sognato di proporre l’adesione di Critica, ad alcun gruppo politico esistente o già in formazione. E neanche di “riposizionare” la linea della rivista, di cui dicevo anzi che non si può che prendere atto della compresenza al suo interno di diverse storie e biogafie «dotate ciascuna di una forte e assertiva identità politica e culturale».

D’altra parte sulla politica Critica ha scelto esplicitamente e di fatto, mi pare, di non incidere direttamente. Chi fra noi volesse farlo dovrà eventualmente cercare altre strade, indipendenti dalle attività della fondazione e della rivista.

Un partito liberalprogressista italiano non c’è. E non c’è, tra l’altro, anche perché pure noi non abbiamo mosso un dito per tentare assieme ad altri di farlo nascere, nel momento in cui si prospettava la prima ristrutturazione del sistema politico italiano dal ’93-’94 – e forse sarà l’ultima per molti anni. Se a livello europeo i liberali sono un gruppo variegato, cui capita di votare con i popolari su molte questioni economiche e quasi sempre con il Pse e con i verdi sulle libertà civili (molto spesso anche sulla tutela dei consumatori e sull’ambiente), la situazione non mi pare molto differente nel nuovo scenario che si apre in Italia con il tramonto del berlusconismo (sempre che così accada). E con i margini di manovra dati dalla crisi, che a me sembrano molto più ristretti di quel che appaiono ad altri fra noi, più ottimisti e forse più arrabbiati, ma alla fine più consolabili di me. Tutto qui: neppure la minima consonanza o ammirazione postuma, da parte mia, né per Reagan né per Thatcher.

  

Dal sito Internet di Critica liberale, 02/01/2013


[Replica ulteriore  a un commento allo stesso post]

Ma i rapporti di forza non cambiano per effetto di “retoriche mistificatorie”. Cambiano perché è cambiato il mondo, perché sono cambiate le tecnologie, perché uno sciopero stile 1900 oggi è pressoché privo di effetto sulla controparte. Perché, quindi, quella “pericolosità antagonistica” non c’è più, si è estinta. Ci si può piangere sopra, ma non serve a nulla, se non ad autoingannarsi. O a rimpiangere l’età del nostro (relativo) benessere diffuso di occidentali, del gulag altrui e dell’equilibrio del terrore (solo perché ne siamo usciti tutti vivi per puro caso). Se si organizzano, oggi sono effettivamente più pericolosi i consumatori che i lavoratori dipendenti (ricordate qualche anno fa lo smantellamento di una piattaforma petrolifera della Shell nel mare del Nord, imposta con un boicottaggio da Greenpeace – che poi fece pure autocritica ammettendo di essersi sbagliata – cui la Shell dovette piegarsi?). Certo che Obama qualcosa può ancora decidere, perché gli Usa hanno ancora la stazza per poterlo fare (e anche per le ragioni monetarie che sempre ci ricorda Giovanni). Gli europei no, almeno finché non si daranno un governo europeo. E poi sarei io quello che sottovaluta i rapporti di forza?

Dal sito Internet di Critica liberale, 18/01/2013


Share   


Creative Commons License
I file pubblicati su questo sito da Felice Mill Colorni sono rilasciati con licenza
Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Diritti di utilizzo ulteriori possono essere richiesti a http://www.felicemillcolorni.it/Contatti.php.



Home

Scritti

Mail