Su
Monti, su Critica liberale, sul liberalismo, sulla politica,
sull’utopia. Letterina di fine anno (e di fine ventennio).
di
Felice Mill Colorni
Consensi
e dissensi all’interno di una lunga vicenda
politico-culturale.
Negli
anni di fango del
berlusconismo, il nucleo più attivo di chi ha operato nella
fondazione Critica
liberale e nella sua rivista ha avuto forte omogeneità e
coesione politica, a
dispetto delle differenze nelle storie culturali e politiche, nelle
vicende
esistenziali e civili e nella formazione ideale di ciascuno di noi.
Credo si
possa dire che abbiamo degnamente rappresentato in questo funesto
diciottennio quella
parte della cultura liberale e democratica italiana che non si
è mai rassegnata
a considerare normale o accettabile quello che stava accadendo, come se
si
fosse trattato delle normali vicende di una normale democrazia
dell’Europa
occidentale, o del semplice proseguimento della storia di un paese
sostanzialmente democratico, ma da sempre carente di cultura liberale e
di
accettabili livelli di decenza nell’etica pubblica.
Abbiamo
saputo vedere
il berlusconismo per quel che esso appariva al di là delle
Alpi a tutti i
democratici europei, di sinistra, di destra, di centro, e passando
attraverso
tutte le relative sfumature (e perfino ai soci del Ppe, che turandosi
il naso
lo avevano cinicamente imbarcato, garantendosi così per anni
la maggioranza
relativa nel Parlamento Europeo). La protettiva campana mediatica e la
complicità,
o l’assuefazione, o la rassegnazione da parte di quasi tutto
l’establishment
indigeno in Italia – dall’estrema destra
all’estrema sinistra, con eccezioni
quasi soltanto o individuali o estranee alla classe politica
– impedivano ai
più di riconoscere il berlusconismo per quel che
è (sperabilmente) ormai stato,
ora che sta avviandosi forse verso una fase di regressione:
cioè come un cancro
della democrazia costituzionale e liberale.
Nell’ultimo
anno, il
disastro economico seguito alla catastrofe civile sembra avere
finalmente
aperto gli occhi a molti che in precedenza non vedevano, o non avevano
voluto
guardare in faccia la realtà. La realtà di un
paese che non ha solo sofferto per
vent’anni per il mancato sviluppo e il mancato risanamento,
finendo così per
essere sospinto nelle prime file della crisi globale, e fino a un passo
dal
baratro nell’autunno 2011, ma che ha anche subito un processo
di imbarbarimento
generalizzato nel tono della sua vita civile, che altrove solo le
esperienze
totalitarie del Novecento erano riuscite a produrre. E per risollevarsi
dal
quale sarà verosimilmente necessaria almeno una generazione,
se tutto andrà
bene.
Nell’ultimo
anno le
cose sono cambiate, il berlusconismo, benché ancora capace
di condizionare
molto fortemente il sistema politico-mediatico, si è
progressivamente
indebolito, con lo sgretolamento della maggioranza parlamentare, con la
valanga
sempre più rovinosa, ormai perfino grottesca, di scandali e
malversazioni, e sotto
i colpi della crisi. Con il discredito della classe politica che ha
dominato
l’Italia negli anni di fango, sembra finalmente entrata in
crisi la stessa idea
della democrazia plebiscitaria come modello di legittimazione politica
preferibile e più avanzato ed efficiente della democrazia
costituzionale e
liberale. Il sistema politico è giunto a uno snodo che
appare altrettanto epocale
di quello del 1993-94.
E
non c’è forse da
stupirsi se, modificandosi gli equilibri del sistema, altre questioni
abbiano assunto
maggiore rilevanza, e anche le differenze latenti al nostro interno si
siano
fatte più significative.
Personalmente,
e fin
dall’inizio, non ho condiviso il prevalente giudizio, che mi
sembra nettamente negativo,
che alcuni fra noi hanno progressivamente sviluppato nei confronti del
governo
Monti nel corso dell’ultimo anno. E può darsi che
questa diversità di opinioni
dipenda anche da differenti impostazioni di cultura politica con cui
abbiamo
sempre saputo convivere senza troppi problemi. Se fra di noi
c’è una profonda
consonanza sulle tematiche – fino a qualche anno fa
pressoché esaustive della
nostra attività – dei diritti civili, del
costituzionalismo, della laicità, del
federalismo europeo, o del disgusto per la ciarlataneria populista e
per le sue
malversazioni, abbiamo opinioni in parte diverse sugli scenari e sulle
prospettive economico-sociali.
Diversità,
beninteso,
relative, interne a un comune paradigma liberalprogressista,
liberalradicale o
liberale di sinistra che dir si voglia. Siamo tutti eredi consapevoli
di una
tradizione politica, di matrice inglese e sorta in epoca vittoriana,
che
sostiene con convinzione il valore dell’economia di mercato,
ma che al tempo
stesso ritiene che sia doveroso assicurare a ciascun individuo
condizioni
materiali tali da garantirgli l’effettivo godimento delle
libertà liberali e da
favorire la mobilità sociale. Siamo tutti concordi nel
ritenere il welfare una
conquista di civiltà e un vanto liberale prima che
socialdemocratico o
laburista.
Però,
così come, fin
dai tempi di Tocqueville e di Mill, i liberali hanno ritenuto di dover
confrontare con l’analisi empirica e con
l’esperienza storica tanto i principi quanto
la prassi concreta della nascente democrazia di massa e la sua
compatibilità
con il liberalismo (una tematica che la deriva plebiscitaria ha reso di
scottante attualità un secolo e mezzo dopo), io credo che
altrettanto debba
esser fatto oggi per le condizioni di sostenibilità e per le
conseguenze inintenzionali
delle soluzioni e delle pratiche che hanno sostenuto le politiche del
lavoro e
il welfare novecentesco, portandoli a una crisi che non è
stata soltanto la
conseguenza di una cospirazione politico-affaristica internazionale.
Il
Novecento non ritornerà.
La
nostalgia per le
conquiste sociali del Novecento è più che
comprensibile, e perfino
condivisibile sul piano sentimentale. Ma credo che non possa essere una
politica, se non per chi abbia deciso di non voler fare i conti con la
realtà e
con la storia. Mi sembra votata alla sconfitta una politica che non
voglia
tenere debito conto di tre mutamenti storici che sono intervenuti negli
ultimi
decenni e che hanno posto termine alla società industriale
novecentesca, ai
suoi equilibri e alle sue certezze: i mutamenti tecnologici, la mutata
demografia delle nostre società, e la globalizzazione con
l’interdipendenza che
ne deriva.
Di
questi tre mutamenti
epocali, i primi due non sono nella disponibilità dei
decisori politici. Quand’anche
lo si volesse, non è mai accaduto nella storia che la
politica abbia potuto arrestare
o invertire una rivoluzione tecnologica o invertire drasticamente una
dinamica
demografica in atto (e ben radicata anch’essa in mutamenti
culturali e
tecnologici di lungo periodo; e che, se anche si modificasse, non
produrrebbe
conseguenze che nel lungo termine). Le nuove tecnologie hanno
rivoluzionato l’intero
nostro modo di vivere e perfino le nostre vite private, ed è
assurdo pretendere
che questa rivoluzione non coinvolga in pieno anche il mondo della
produzione e
del lavoro. Ciò ha comportato e comporta
un’inevitabile tendenza
all’individualizzazione dei rapporti di lavoro, e quindi un
correlativo
indebolimento degli strumenti novecenteschi di tutela del lavoro
dipendente
attraverso le pratiche sindacali tradizionali.
Dispiacerà
ai miei
amici più affezionati alla tradizione gobettiana, ma il
ruolo del conflitto
sociale non può più avere una
fecondità di esiti paragonabile a quella delle
giornate di Genova raccontate da Einaudi nel 1900. Il conflitto per il
conflitto, anche quando è sorretto da ottimi motivi e da
situazioni soggettive
disperate o mortificanti, è del tutto sterile quando non
è capace di indicare riforme
praticabili e che non costituiscano rimedi peggiori, nelle loro
conseguenze
magari inintenzionali, dei mali che intendono combattere. Se non
è capace di
questo, il conflitto diventa sterile quanto lo furono per secoli le
rivolte
contadine, o quanto lo fu il luddismo esattamente due secoli fa.
Sterile, o
perfino controproducente se rischia di aprire la porta a movimenti
totalitari o
a facilitare svolte autoritarie.
Anche
la
globalizzazione è un processo pressoché
impossibile da invertire; può essere
ostacolato o rallentato, ma non è lecito ignorare
né che l’interdipendenza ci
ha liberati da quarant’anni di terrore nucleare globale e
dalla minaccia di
annientamento dell’umanità (che avrebbe anche
potuto essere la mera conseguenza
di errori di valutazione – e ci siamo andati molto vicino
almeno tre volte, a
quanto se ne sa), né che la mondializzazione, se ha colpito
(soprattutto) le
economie meno dinamiche dei paesi ricchi, ha innescato processi di
sviluppo
certo molto diseguali, ma capaci di produrre un trasferimento di
ricchezza e di
potere, dal Nord ad almeno alcune vastissime regioni del Sud del mondo,
di
dimensioni gigantesche, che nessun programma di aiuto allo sviluppo
pianificato
dalla politica si sarebbe mai potuto sognare di realizzare neppure in
minima
parte. Non era forse quel che i progressisti di ogni tendenza avevano
vanamente
richiesto e perorato nel mezzo secolo precedente?
Mutamenti
di questa
portata comportano inevitabilmente mutamenti giganteschi anche nei
rapporti
sociali all’interno dei nostri paesi, certamente non tutti
desiderabili, e che del
resto avevano cominciato a manifestarsi ben prima dell’inizio
della crisi.
Tutte le maggiori trasformazioni sociali dell’età
moderna e contemporanea (e,
con un ritmo molto meno tumultuoso, anche delle età
precedenti a cominciare dal
neolitico) sono state innanzitutto conseguenza delle nuove
possibilità aperte
dalle innovazioni tecnologiche. Tentare di restaurare i rapporti
sociali della
società novecentesca – o di conservarne con le
unghie e con i denti quel che ne
è sopravvissuto, piuttosto che impegnarsi in un ridisegno
complessivo dei
sistemi di protezione sociale – a me sembra una strategia
perdente e un po’
disperata. È in sostanza la strategia della socialdemocrazia
europea – cioè di
quella che oggi è la sinistra europea per antonomasia
– ormai priva da anni di
idee, di ricette e di progetti che non siano la riproposizione di quel
che aveva
funzionato così bene nel passato.
Questo
non significa
sottovalutare l’argomento, sempre sottolineato dal nostro
Giovanni La Torre,
secondo cui le disuguaglianze crescenti, deprimendo la domanda, sono la
principale causa della crisi globale. Significa riconoscere che altra
cosa è la
diagnosi, altra la (possibilità di) terapia con strumenti
uguali o analoghi a
quelli che avevano funzionato nel passato. Per attenuare le
disuguaglianze si
potrà agire con le politiche fiscali – che
peraltro in Italia rischiano di
colpire sempre gli stessi, cioè soltanto la parte onesta dei
contribuenti; e comunque
nella stessa “agenda Monti” ci sono indicazioni
significative, mi sembra, nella
direzione di una ripresa di politiche fiscali parzialmente
redistributive. Ma si
potrà farlo entro i limiti piuttosto circoscritti consentiti
dai confini aperti
e dalla libertà di circolazione dei capitali. Il
“keynesismo in un solo paese” non
mi sembra un progetto verosimile: gli ultimi a provarci sono stati
più di trent’anni
fa i socialisti francesi del primo governo del primo settennato di
Mitterrand,
che dovettero arrendersi dopo pochi mesi, in un’epoca in cui
i processi di
integrazione e di globalizzazione erano enormemente meno avanzati di
oggi.
Ancor
più inverosimile
mi pare la possibilità di successo di una strategia di lotta
alle
disuguaglianze finalizzata al rilancio dello sviluppo che, nella
situazione
data, ritenga di poterne addossare principalmente l’onere al
sistema delle
imprese, già messo alle corde da stretta creditizia, alta
pressione fiscale (a
carico esclusivo di chi non evade, ovviamente), mancati pagamenti da
parte
della P.A., inefficienza delle infrastrutture, burocrazia inefficiente
e
invadente, corruzione dilagante, taglieggiamenti mafiosi in molte
regioni,
tempi della giustizia civile, ritardi negli investimenti e
nell’innovazione (certamente
spesso frutto di miopia e inettitudine, questi ultimi, ma a loro volta
anche
conseguenza degli altri fattori indicati): tutti elementi che
già spingono una
gran parte del sistema produttivo italiano sull’orlo del
fallimento e che comunque
lo pongono ben difficilmente in grado di competere nel mondo globale.
Tanto più
se si crede di fare opera di giustizia difendendo di fatto un sistema
di
apartheid fra lavoratori dipendenti (relativamente) garantiti e paria
totalmente
non garantiti; o se non si tiene nel debito conto che in Italia il
costo del
lavoro ha ben poco a che fare con quel che i lavoratori dipendenti si
ritrovano
effettivamente nelle loro buste paga, che ne costituisce la
metà scarsa (o
molto meno se si considerano gli oneri non contabilizzati nella busta
paga).
Insomma,
anche se si
ritiene che un cambio di paradigma sia necessario, nella situazione in
cui
viviamo storicamente, il livello decisionale davvero minimo per poterne
fare
una proposta realistica in fatto di significative misure fiscali
redistributive
è quello dell’Unione Europea, che solo se capace
di parlare con una sola voce,
solo se dotata di istituzioni capaci di decisione politica
perché direttamente
legittimate, avrebbe un peso tale, nel mondo, da potersi fare
promotrice di
mutamenti significativi a livello globale – e neppure in quel
caso sarebbe cosa
facile. Il deperimento delle sovranità statali su scala
globale – non solo su
scala europea – ha reso il mondo un luogo molto meno insicuro
per il genere
umano, allontanando enormemente il rischio
dell’autoannientamento, ha fatto
uscire dalla povertà assoluta centinaia di milioni di
individui nei paesi emergenti,
ma ha limitato di molto, soprattutto in Europa, la libertà
di manovra dei
governi, delle classi politiche e degli stessi elettori: nel bene e nel
male.
In
nessun caso, però, un
cambio di paradigma in direzione redistributiva potrebbe pretendere di
riproporre o di difendere le stesse soluzioni previste per il
finanziamento del
welfare, soprattutto del welfare previdenziale e sanitario, che erano
state
disegnate per una società la cui demografia era totalmente
diversa dall’attuale
e in cui la medicina tecnologica era molto meno efficace e potente: e
quindi
anche molto meno costosa. Eppure la rilevanza di questo argomento mi
sembra
venga spesso inspiegabilmente sottovalutata, anche al nostro interno.
Prendiamo
la riforma
previdenziale. Errori commessi sugli esodati a parte, e con le ovvie
esclusioni
per i lavori usuranti, che senso può avere resistere con
ogni mezzo
all’innalzamento dell’età pensionabile
per chi abbia la capacità psicofisica di
svolgere le mansioni cui è addetto, quando
l’aspettativa di vita è così
enormemente aumentata dai tempi in cui le norme di cui si è
discussa la riforma
erano state rivendicate e poi adottate? Che senso ha avuto difendere
una
diversa età pensionabile per le donne, retaggio di
un’epoca precedente la
secolarizzazione contemporanea, in cui il lavoro femminile era
considerato un
male, ancorché un male talvolta necessario? Come non vedere
che l’iniquità sta
semmai nelle pensioni da indigenti che spetteranno ai giovani
attualmente
vittime dell’apartheid e i cui contributi avrebbero dovuto
consentire la
continuazione del pensionamento dei cinquantenni? Come non vedere che,
anche
dopo la riforma Fornero, l’equilibrio del sistema si basa
largamente sul furto
legale dei contributi versati a fondo perduto da tanti non garantiti, a
cominciare da centinaia di migliaia di precari e di immigrati?
E
si possono chiudere
gli occhi sul fatto ormai evidente che l’erogazione effettiva
dei livelli
essenziali di assistenza sanitaria in molte regioni non è garantita se
non sulla carta, e
potrà esserlo sempre meno anche con una gestione molto
più oculata delle
risorse da parte della politica, con la conseguenza che, in mancanza di
una
riforma governata, il sistema già ora si orienta
spontaneamente verso un doppio
sistema sanitario, che cumulerà gli uni agli altri i
giganteschi sprechi, la
corruzione e il clientelismo della gestione pubblica con le
iniquità e i costi aggiuntivi
di una sanità per ricchi all’americana? E che,
quasi ovunque in Italia, il sistema
sanitario è diventato il principale canale di finanziamento
illegale della
politica? Si può far finta di non vedere che i progressi
tecnologici della
medicina e l’aumento dell’aspettativa di vita che
ne deriva stanno già rendendo
insostenibili oggi i costi del sistema sanitario italiano e che il
collasso è
imminente? Si può davvero pensare che sistemi di
finanziamento, che erano stati
pensati ed erano sufficienti quando l’aspettativa di vita era
molto inferiore e
quando molte cose che oggi sono tecnicamente possibili non si potevano
fare,
possano essere validi e sufficienti oggi?
Sia
chiaro che non
metto minimamente in questione l’obiettivo politico di
garantire il maggior
possibile empowerment
di ciascun individuo
nell’esercizio anche materiale delle sue libertà
liberali e dei suoi diritti di
autodeterminazione, indipendentemente dalle sue origini e condizioni
economiche;
non mi nascondo affatto che tale obiettivo richiede certamente anche
oggi un
penetrante intervento della politica. Ma gran parte
dell’armamentario
escogitato a tal fine dagli stessi liberali progressisti nel campo
delle
politiche economico-sociali, e applicato con tanto successo, nelle trente
glorieuses,
soprattutto grazie alla sinistra socialdemocratica
e laburista novecentesca, a me sembra oggi sostanzialmente inservibile,
se non
ai fini dell’autoinganno. E l’autoinganno non
è che il primo passo verso un
genere di populismo di sinistra, certo per lo più molto meno
becero, ma quasi
altrettanto demagogico, anche al di là delle intenzioni, di
quello di destra.
È
altrettanto importante
capire che cadere in questo autoinganno ha una conseguenza esiziale:
significa rinunciare
a rispondere a una sfida storica cui la civiltà liberale
europea si trova di
fronte. E capita che le grandi civilizzazioni, come mostrava Toynbee,
spesso si
estinguano quando non sono più in grado di maneggiare il
meccanismo della
risposta a sfida. Non è difficile intravedere nel medio
termine un simile
futuro per la democrazia liberale e costituzionale, di fronte al
modello
alternativo che si profila al nostro ormai vicino orizzonte, quello
della
prosperità senza libertà proprio del nuovo
autoritarismo asiatico di matrice
cinese.
Il
“riformismo
borghese” italiano, di cui il nostro Vetritto lamenta
l’eclissi negli ultimi
decenni e la mancanza di voce e presenza anche nei settori del sistema
politico
italiano che più avrebbero motivo di giovarsene, perderebbe
ogni ragion
d’essere se si limitasse a rimpiangere il passato
anziché esplorare nuove vie e
proporre strategie e progetti adeguati a una realtà che
è profondamente mutata.
Destra
e sinistra e liberalismo progressista.
In
un intervento della
scorsa primavera [1] avevo indicato le ragioni per cui, a mio avviso,
non ha
più gran senso per il liberalismo progressista incaponirsi a
fare un nostro uso
specifico – quasi privato e non comprensibile per la larga
maggioranza dei
nostri interlocutori – delle stesse categorie di destra e
sinistra, categorie consumate,
credo, non solo dal venir meno della società industriale
nella cui fase
nascente erano nate più di due secoli fa, ma ancor
più dalle loro degenerazioni
novecentesche, dalla mancanza di precisa e univoca
traducibilità all’interno
delle diverse tradizioni politiche nazionali europee (non parliamo
neppure del
resto del mondo) e foriere ormai di continui equivoci. Tanto
più che, scrivevo,
accanto al cleavage
socioeconomico
principale della politica novecentesca – e dando vita con
questo e fra di loro
alle più diverse e inattese combinazioni – altri cleavages,
spesso non meno rilevanti, oggi concorrono sempre più a
determinare il
posizionamento politico e l’identità di individui
e gruppi: autoritarismo,
proibizionismo e tradizionalismo versus
laicismo, libertarismo e politiche dei diritti; etnocentrismo e
sovranismo versus cosmopolitismo e
globalismo;
centralismo versus autonomismo;
industrialismo a oltranza versus
ambientalismo. Tanto in linea teorica che all’atto pratico,
tali sostanziali
linee di frattura non si prestano per nulla a essere ricondotte ad
alcun
coerente o semplicistico posizionamento sul continuum
destra / sinistra. Anche tale inutilizzabilità delle
categorie otto-novecentesche
nel mutato contesto storico sconsiglia ogni schematica e sbrigativa
assimilazione fra ricette della sinistra socialdemocratica del passato
e
strumenti per la realizzazione nel presente dei principi e dei valori
etico-politici del liberalismo (libero sviluppo della
personalità individuale e
empowerment
di ciascun individuo, massimizzazione
delle sue libertà e capacità di
autodeterminazione e limitazione dei poteri
legali e di fatto capaci di contrastarli).
Mi
rendo conto, però –
me ne sono accorto spesso in questi anni – che mettere in
questione il rapporto
organico fra liberalismo progressista e concetto di
“sinistra” significa invitare
gli interlocutori all’impresa impossibile di porre in
questione una di quelle
maniglie cognitive, una di quelle chiavi interpretative generali, su
cui si
costruiscono intere personalità intellettuali e si
percorrono intere biografie individuali,
civili e politiche. E per molti di noi pare sia andata proprio
così.
Prima
di tutto, la
cultura di Critica liberale è stata, per la maggior parte
dei suoi protagonisti
(credo di poter dire, da questo punto di vista, non per me), una
cultura
politica decisamente e profondamente radicata innanzitutto nella storia
d’Italia
della prima metà del Novecento. Faceva cioè
riferimento a una generazione per
la quale la lotta per le libertà liberali aveva
inevitabilmente coinciso con
l’antifascismo, inteso non solo come opposizione al fascismo,
ma anche come
necessaria alleanza di tutto lo schieramento antifascista, componente
totalitaria
inevitabilmente inclusa, sulle questioni democratiche di fondo.
Quell’esperienza aveva segnato per la vita soprattutto la
componente azionista
dei nostri maestri, a cominciare dall’ambiente torinese di
Bobbio. Il concetto
di “sinistra”, anche di sinistra in senso forte,
molti dei nostri maestri italiani
l’avevano costruito a partire da quell’esperienza.
E anche a partire dalla mancata
o comunque limitata comprensione del fenomeno comunista
nell’ambito della
vicenda umana e culturale di Piero Gobetti, e dell’uso che ne
ha fatto per
decenni l’establishment culturale legato al Pci.
A
Critica liberale era
piaciuto presentarsi – fin da quando era ancora lo spiffero
di sinistra della
corrente di sinistra del Pli di allora – non già
come ala sinistra del
liberalismo italiano, ma come “componente liberale della
sinistra italiana”.
Ricordo che all’epoca Marco Pannella rivendicava (ignoro se a
torto o a
ragione) la paternità della formula, assolutamente coerente,
del resto, anche con
le posizioni del Partito radicale di quell’epoca: e al
Partito radicale, così
come per lunghi anni anche a noi, alcune battaglie specifiche
– più o meno le
stesse dei radicali per un certo periodo, altre e totalmente diverse da
qualche
decennio in qua – sono sempre interessate molto di
più delle grandi scelte di
politica economica, su cui sapevamo, noi come loro, di non avere
possibilità di
influenza alcuna. E poiché sulle battaglie per i diritti
civili era tutta la
sinistra che doveva essere assemblata per poter raggiungere un
risultato, tutta
la sinistra italiana diventava il nostro comune necessario
interlocutore.
Dovevamo esserne politicamente parte.
Peraltro,
dal punto di
vista “ideologico”, eravamo, gli uni e gli altri,
quasi tutti decisamente e
fortemente anticomunisti, anche se non usavamo quel termine, che nel
linguaggio
della politica di quegli anni era diventato a poco a poco un eufemismo
per
definire l’estrema destra, e preferivamo quindi dirci semmai
estranei al
marxismo, “antileninisti” e
“antisovietici”. Ma sottovalutavamo –
continuammo a
sottovalutare fino alla fine – quanto fosse ancora davvero
genuinamente “comunista”
una significativa parte del Pci, e quindi limitatissima la sua
possibilità di
evolvere, di operare, come si diceva allora, la sua Bad Godesberg, senza
sfaldarsi;
nonostante non sbagliassimo, credo, nel considerare
tutt’altro che
ideologicamente comunista una parte, probabilmente maggioritaria
già dall’inizio
degli anni Settanta, dell’elettorato di quel partito: che lo
votava come
maggior partito della sinistra, con le stesse motivazioni con cui
avrebbe
potuto votare laburista in Gran Bretagna o per la Sdp in Germania. Noi
tutti criticavamo
il Pci molto più per le sue strategie consociative che per
il suo essere ancora
“comunista”, anche se ci era chiaro che chiedergli
di adottare una strategia
dell’alternanza equivaleva a chiedere una rottura del Pci con
il suo passato.
Estranei come eravamo a quella tradizione culturale, questa ci
sembrava, negli
anni Settanta e nella metà occidentale
dell’Europa, lascito residuale, mera
“derivazione”, inservibile impaccio ereditato dal
passato, vuoto feticcio
identitario.
Non
ci preoccupavano
invece granché le possibili scelte di politica economica di
un’eventuale
maggioranza di sinistra che si fosse affermata nel caso di una svolta
del Pci in
favore di una politica di alternanza anziché di compromesso
storico. Diciamo la
verità: piuttosto ferrati in campo storico, politologico,
sociologico, e molti
fra noi anche in campo giuridico, all’epoca eravamo
pressoché privi –
esattamente come i radicali – di un pensiero economico. Al
massimo ci portavamo
dietro qualche idea-forza molto generica su Keynes, sul New Deal, su
Beveridge;
ma sul loro ruolo storico, politico e ideologico, molto più
che sulle teorie
economiche. Sul piano politico ci interessavano molto di più
le libertà civili,
che ci sembravano tutt’altro che garantite da una classe
politica democristiana
che si mostrava scarsamente interessata all’attuazione
costituzionale e allo
smantellamento delle residue strutture autoritarie ereditate dal
fascismo; ci
preoccupavamo, ancora, della mancanza di laicità delle
istituzioni, del
divorzio e dell’aborto, dello sfrenato e diseducativo
autoritarismo connaturato
alla coscrizione militare forzata allora in vigore.
Come
molti all’epoca,
ritenevamo semplicemente che «ormai [fossimo] tutti
keynesiani» (così,
testualmente, e citando Milton Friedman, perfino Richard Nixon). Credo
che
molti di noi – io ero certamente fra questi verso la fine
della mia vita
politica radicale – nutrissimo già allora la
precoce intuizione che,
semplicemente, non fossero più possibili in Occidente
politiche economiche così
fortemente divergenti da quelle dei principali partner commerciali e
dai
fondamenti della costituzione economica stabilita in Occidente, e in
particolare nell’Europa occidentale, dopo la guerra, e
garantiti dagli
equilibri internazionali e dai processi di integrazione europea, da
poter
mettere davvero in questione per quella via i fondamenti della
democrazia
liberale: equilibri che sembravano fino al 1989 immutabili se non
attraverso
una guerra nucleare annientatrice. Il problema della
sostenibilità finanziaria
e demografica del welfare non sembrava all’ordine del giorno
né a noi né ad
alcun altro gruppo politico italiano di grande rilievo. Per questo
sottovalutavamo i possibili danni insiti nell’accumulo del
debito pubblico da
parte della classe politica, debito che d’altra parte sarebbe
esploso, nel
decennio successivo, non per responsabilità di un governo di
sinistra, che non
avrebbe visto la luce, ma dei governi “CAF”. La
corruzione ci sembrava invece,
già allora – almeno fin dall’epoca del
primo scandalo petroli – problema anche
economico di prima grandezza. E, in questo almeno, la sinistra di
allora ci
sembrava, e forse era davvero, tutto sommato meno inaffidabile della Dc.
Politique
d’abord,
etica della responsabilità e etica della convinzione.
In
anni molto più
recenti, cioè più o meno dall’inizio
degli anni di fango del berlusconismo, a
questa sostanziale mancanza di competenze e di nostro interesse
prioritario per
le politiche economiche (situazione terminata solo con il recente
inizio della
collaborazione sistematica a Critica di Giovanni La Torre – e
ovviamente con la
centralità assunta dalle questioni economiche in conseguenza
della crisi
globale), si è aggiunto quello che forse è stato,
assieme al precedente,
l’altro dei nostri due limiti principali in questo campo: il
nenniano (talvolta
perfino un po’ demitiano!) politique d’abord,
connaturato
soprattutto al nostro direttore, che costantemente ci ha fatto
giudicare ogni
progetto di riforma in campo socio-economico mai nel merito, ma sempre
essenzialmente sulla base delle sue ricadute immediate nel gioco
politico
contingente e sulla base degli schieramenti che determinava. Un limite
uguale e
contrario a quello di molti dei proponenti di quelle riforme
nell’ala
“riformista” o “liberal” del
Pds/Ds/Pd, a cominciare, per fare un nome,
dall’odierno coautore dell’agenda Monti Pietro
Ichino, che, interamente presi
dal proprio oggetto, e ai nostri occhi totalmente indifferenti alle
frequentazioni improponibili in cui si cacciavano, cercavano o non
respingevano
consensi bipartisan
alle proprie proposte
anche nel campo degli orrendi figuri della destra populista italiana.
Un
atteggiamento, il
nostro, che è spesso sembrato poco comprensibile a tanti
lettori e
simpatizzanti di Critica, molto affezionati a noi ma estranei a
riflessi probabilmente
tipici del “miglio quadrato” della politica romana,
e che spesso avrebbero
trovato naturali su questi temi convergenze fra la nostra sinistra
liberale e i
“riformisti” del centrosinistra, piuttosto che fra
noi e le tradizionali
strutture organizzate di massa della sinistra, a cominciare dalla Cgil.
Più di
dieci di anni fa, quando si cominciava a discutere della possibile
riforma
dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e molti a
sinistra tendevano a
fare un sol fascio di quella discussione e di quelle che parallelamente
infuriavano sulle caratteristiche peculiari della destra populista
italiana,
avevo scritto un articolo sulla rivista in cui raccomandavo di
distinguere fra
riforme economiche liberiste, più o meno condivisibili e
normale oggetto di
discussione in tutti i paesi occidentali, e norme eversive e ad personam tipiche del berlusconismo in
Italia [2]. Mi sembra che fra noi quelle riflessioni siano rimaste
isolate.
Ho
qualche volta
l’impressione che nella visione di alcuni di noi liberalismo
e “sinistra” siano
anzi divenuti concetti addirittura interscambiabili. Tanto il
liberalismo
quanto “la sinistra”, in questa ricostruzione del
concetto, a mio avviso totalmente
astorica, idealizzata, meramente deontologica, e invero alquanto
autistica,
mirerebbero nella sostanza ad accrescere le libertà
dell’individuo e a
liberarlo da pesi, ingiustizie e oppressioni di vario genere attraverso
il
conflitto sociale, ritenuto un motore sempre e comunque foriero di
progresso
civile. Non sarebbe davvero di sinistra tutto quel che non possa anche
dirsi
liberale: una sinistra illiberale non sarebbe una sinistra
“vera”, ma una
sinistra falsa, spuria, deviata, finta, estranea alla definizione.
Anche se il
necessario corollario sarebbe stato troppo stravagante per essere
enunciato
esplicitamente, il comunismo, come fenomeno mondiale che ha segnato
così profondamente
il XX secolo, non sarebbe stato parte – e quale parte
– della sinistra, ma, al
più, un impazzimento laterale, un fenomeno di cui
è perfino discutibile
l’inclusione nell’”album di
famiglia” della sinistra; o un’eresia ormai
trascurabile
quanto lo sono ormai le tante sette ereticali, un tempo anche potenti,
che
hanno costellato la storia del cristianesimo. Forse anzi, la stessa
socialdemocrazia europea del dopoguerra, per il suo carattere
anticonflittualistico, consensualistico e concertativo, proprio di
sinistra non
lo sarebbe mai stata del tutto.
Peccato
che questa idea
della sinistra come sinonimo di liberalismo progressista e conflittuale
non
trovi pressoché altri sostenitori nel mondo reale, politico
o accademico o
giornalistico, in Italia o nel mondo, e in particolare nella sinistra
storicamente data.
Questa
eccentrica
costruzione mentale concorre probabilmente a spiegare le ragioni del
prevalente
e crescente giudizio negativo che alcuni di noi hanno ripetutamente
espresso
sulla rivista e sul sito di Critica sull’operato del governo
Monti, fatto salvo
il comune e condiviso sollievo per la fine (si spera) della
più nefasta stagione
politica dell’Italia repubblicana e dell’Europa
occidentale del dopoguerra,
impersonata da Berlusconi. Come detto all’inizio, a me questo
giudizio fondamentalmente
negativo sull’esperienza di Monti non sembra sostanzialmente
condivisibile.
Mi
sembra innanzitutto che
tale giudizio non tenga in alcun conto i condizionamenti interni ed
esterni,
politici, istituzionali ed economici, all’interno dei quali
il governo ora
dimissionario ha dovuto operare. Un governo che non disponeva di una
maggioranza parlamentare sua propria e che avrebbe potuto essere
facilmente
delegittimato, oltre che sfiduciato, da una ancora intatta potenza di
fuoco
avversaria; e non penso che sarebbe stato semplice, come Enzo e altri
collaboratori
di Critica hanno creduto fosse possibile, giocare la partita
scacchistica
spregiudicata – spregiudicata, s’intende, per
ottime ragioni e più che ottimi
fini, e non in quanto costituzionalmente illegittima – che si
imputa a Monti e
a Napolitano di non aver voluto ingaggiare per mettere subito al
tappeto la
destra populista. (Ma io sono molto meno portato del nostro direttore
ad
appassionarmi alla scacchistica politica, e probabilmente per gli
scacchi non sarei
minimamente dotato).
Sul
piano delle scelte
economiche, è certamente vero che è spesso
mancata l’equità, ma l’obiettivo era
forse impossibile da centrare, dovendosi prioritariamente evitare il
baratro
incombente, non potendosi risolvere d’incanto il problema
dell’evasione – e
quindi rischiando di ottenere risultati opposti alle intenzioni da
politiche
fiscali fortemente redistributive, che avrebbero caricato di un onere
schiacciante i contribuenti onesti a vantaggio dei disonesti. E dovendo
(iniziare a) far pagare al paese la “bolletta
Berlusconi” che per decenni si
dovrà continuare a pagare per far fronte agli sperperi del
diciottennio di
fango, alle ruberie, ai debiti, al mancato risanamento, alle mancate
riforme, al
regresso civile (che ha avuto e ha un pesante costo anche economico). E
dovendolo fare assicurandosi anche il voto parlamentare dei primi
responsabili
dello sfascio.
Monti
ha agito, mi
sembra, seguendo in dosi massicce l’etica della
responsabilità. Probabilmente troppo,
e forse con qualche eccesso di cautela. Ma il nostro punto di vista non
può
ovviamente essere quello di chi per più di un anno
è riuscito a non far nemmeno
trapelare quel che certamente pensava della maggioranza –
come minimo della
maggioranza – di chi gli votava la fiducia in Parlamento.
Nessuno di noi di
Critica sarebbe certo stato minimamente adatto per un ruolo del genere,
forse
non da “tecnico”, come la finzione ha voluto, ma
certamente da diplomatico
esercitatosi a lungo negli equilibrismi intergovernativi che impegnano
quotidianamente il lavoro della Commissione europea.
Nella
maggior parte di
noi, all’opposto, l’etica della
responsabilità non solo non abbonda, ma è merce
rara. E non è solo rara, ma a volte mi sembra che risulti
pure alquanto sospetta
per principio.
E
sta qui, probabilmente,
la radice ultima tanto del mio dissenso rispetto a un giudizio comune a
molti
fra noi, che mi pare eccessivamente critico su quest’anno di
politica
governativa, quanto al tempo stesso, e non è paradossale, la
ragione della
assai più larga consonanza di vedute registrata negli anni
passati.
Io
credo che l’etica pubblica
della politica democratica debba essere l’etica della
responsabilità. Sapendo però
che anche l’assunzione consapevole dell’etica della
responsabilità come
criterio dell’azione politica deve trovare dei limiti. Ci
sono situazioni –
situazioni limite nella vita di una democrazia liberale – in
cui si deve essere
capaci di dire “no”, senza badare, o badando
necessariamente di meno, alle
conseguenze immediate. Negli anni di fango della Repubblica, negli anni
del
trionfo della ciarlataneria populista, dell’imbarbarimento
civile, della
dimissione di responsabilità dell’establishment
italiano e della stessa
opposizione, della chiusura di ogni spazio di intervento politico che
non
passasse attraverso un Pdl e un Pd complici nella progressiva
“serrata del
maggior consiglio” a ogni voce terza, la cultura liberale non
poteva che
testimoniare la sua irriducibile opposizione. E anche la sua
irriducibile
diversità. Altro, del resto, le era di fatto impedito di
fare. Hier
stehen wir,
è stata la sola nostra risposta possibile.
Così
è stato, così
doveva essere. E siamo stati fra i pochi.
Chi
invece adotta, come
proprio abito mentale ordinario, l’etica della convinzione,
inevitabilmente è
portato a dire “no” quasi sempre; o comunque ogni
volta che non siano
soddisfatti bisogni impellenti e richieste la cui fondatezza gli appare
incontrovertibile. Esige il risultato che ritiene eticamente dovuto, ma
senza troppo
curarsi delle possibilità, delle technicalities
e dei mezzi. Si
aggrappa alle rassicurazioni del primo esperto, magari appena di poco
più
esperto di lui, che assicura di avere in tasca la soluzione che salva
capra e
cavoli. È sempre portato a formulare domande “non
negoziabili”. Difficilmente è
consapevole che non c’è mai un limite al peggio:
se trova inaccettabile una
situazione è sempre pronto a ingaggiare un corpo a corpo con
il principio di
realtà. Può arrivare a teorizzare che il
dibattito sull’economia altro non sia
che un genere letterario. Può arrivare a puntare su una
“catastrofe creativa”:
nel caso del nostro Pellizzetti, perfino a puntare, magari in modo
intenzionalmente ed esplicitamente strumentale, su quello che alla
maggior
parte di noi pare nient’altro che il nuovo principe dei
ciarlatani della
politica italiana, dopo una pausa di poco più di un anno
dalla (sperabile)
conclusione dell’epoca segnata per sempre dal pagliaccio
precedente.
Ora,
salvo imprevisti,
si può sperare che la situazione stia lentamente mutando. Di
sicuro il sistema
politico italiano si sta ristrutturando un’altra volta, per
la prima volta dal
1993-94, e sperabilmente nella direzione opposta. Oggi alla cultura
politica
liberale si dovrebbe chiedere non di testimoniare la propria sdegnata
estraneità,
ma di cercare di intervenire, di far sentire la propria voce, di
partecipare
alla ripresa di una competizione politica forse civile. Invece, mi
sembra,
diamo l’impressione di essere un centro studi
sull’America Latina che osservi dall’Europa
una campagna elettorale in Ecuador.
Se
sotto Berlusconi – e
sotto il con-dominio “bipartitico” Pdl/Pd
– la solitudine era per noi una
costrizione, non si può fare per questo della solitudine e
della sconfitta il
destino ineluttabile e quasi metafisico di qualunque presenza liberale
nell’Italia – e solo nell’Italia
– nel XXI secolo, finendo per autocompiacersene
in modo quasi morboso. Finendo per autoconfinarsi in un culto della
propria
inattingibile e costitutiva “alterità”
che ricorda da vicino quello di Pannella
– nel caso di quest’ultimo funzionale
però al controllo personale e carismatico
di una formazione politica esistente, ancorché mantenuta in
stato di forzata
minorità e marginalità. Non
c’è ragione di ritenere la cultura liberale votata
in Italia, per non si sa quale maledizione della storia o
dell’antropologia, o
alla sconfitta eroica o all’ignominia. La storia prima o poi
cambia sempre; e,
sia pure più lentamente, cambiano anche le antropologie
culturali: ce ne vorrà,
ma nell’epoca della globalizzazione e
dell’interdipendenza, queste ultime possono
cambiare più velocemente che nel passato.
Sconfitta
eroica o
ignominia sono state le due sole opzioni per i liberali e per i
democratici italiani
dopo il ’22. Non farsi coinvolgere dalla ciarlataneria
imperante e malavitosa,
e anche dai tanti furbetti non restii a spartirsi con questa il
bottino, e col
bottino l’intera rappresentatività della
Repubblica, è stato il ben più modesto
dovere che si è presentato a noi dopo il ’94. Ma
già in questo secondo caso non
farsi coinvolgere non ha significato né la galera
né il confino né l’esilio (se
non meramente mentale); e del resto, anche per chi ha partecipato alla
spartizione del bottino, più che di ignominia, si
è trattato di ordinario
servilismo da faccendieri, certo volgarissimo e spesso malavitoso, ma
anche assai
più banale.
Il
pensiero utopico è più liberale del buon uso del
realismo politico?
Oggi
che ne stiamo
forse uscendo, viene il dubbio che a fare un po’ schifo ai
compagni di viaggio
sia proprio la prosaica realtà della politica democratica in
quanto tale, con
la sua inevitabile approssimazione rispetto al suo modello ideale, con
la sua
necessaria e intrinseca funzione di ricerca di denominatori comuni, e
quindi di
relativa reductio ad unum delle
posizioni
all’interno delle forze in competizione, con i suoi necessari
e faticosi
compromessi, con il suo inevitabile fare i conti con la
realtà e con i rapporti
di forza reali nella società e nelle istituzioni; e con la
sua inadeguatezza,
talvolta, a fornire a tutti le opportunità e le prestazioni
economiche che pure
riteniamo indispensabile obiettivo della nostra vita civile garantire.
Io
credo che la
democrazia liberale non possa né debba corrispondere a un
modello utopico, ma
sia un prodotto storico, una costruzione sociale intrinsecamente
imperfetta, che
può migliorare come può perire. A essere un
pericolo per la libertà e per la
ricerca libera e individuale della felicità che
più si addice a ciascuno di noi
non sono le teorie politiche che si prendono in carico il nostro legno
storto e
che cercano semmai di aiutarci a crescere meglio senza imporcelo. Sono
proprio
le utopie a non poter essere veicolo di libertà. Tutte le
vere ideologie
utopiche non sono soltanto meri progetti di soluzioni non ancora
sperimentate –
quasi tutto, altrimenti, sarebbe in certa misura utopia, o lo sarebbe
stato –
ma sono soluzioni che si vogliono definitive, ottimali, non
più superabili,
versioni secolarizzate della Gerusalemme celeste, luoghi della fine
della
storia, dove ogni forma di dissenso e di conflitto, anche quella
più regolata e
più lontana dalla violenza, quand’anche non se ne
teorizzi espressamente la
soppressione, non ha più alcun senso. E dove,
inevitabilmente, la
pianificazione totale necessaria al controllo della perfetta
uguaglianza – ma
necessaria anche alla garanzia della uguaglianza delle
opportunità, se e in
quanto quest’ultima debba mirare a essere davvero perfetta – presuppone il
controllo perfetto e totale da parte dei
governanti sui governati (e infatti mi sono spesso accorto che, di
tutti i
diritti individuali fondamentali, quello alla riservatezza e alla
privacy è di
gran lunga quello ritenuto da alcuni di noi il meno decisivo e il
più
disponibile). È da un abbondante paio di secoli a questa
parte che le ideologie
utopiche sono le anticamere, certo del tutto inintenzionali, del
terrore, degli
stermini, dei gulag.
Ho
sempre trovato
incongruo che nella precedente serie di Critica liberale comparisse un
motto,
incomprensibile a tutti i nostri lettori (c’è
stato perfino qualcuno che si è
chiesto se si trattasse di una simbologia massonica!), che recava un
pensiero, in
sé peraltro fallibilista e relativista quant’altri
mai – trial
and error
– assurdamente traslitterato nell’alfabeto
dell’Utopia di Tommaso Moro. Un santo martire cattolico,
fanatico e
sanguinario, responsabile di avere mandato al rogo un numero indefinito
di
eretici assistendo personalmente al loro supplizio, assolto dal
liberalismo laico e
progressista
italiano nel XX secolo proprio per avere fondato il pensiero utopico?
È
probabilmente in
questa predilezione, che a me appare incomprensibile e fortemente
contraddittoria con i fondamenti di ogni liberalismo democratico, che
va
ricercata una delle radici di quella che a me sembra una ingiustificata
ideologizzazione
dell’impasse che la nostra comune vicenda politico-culturale
ha sì forzatamente
subito, ma per effetto delle contingenze storiche in cui ci siamo
ritrovati,
per un periodo lungo ma circoscritto, negli anni di fango. E anche la
radicalizzazione delle interpretazioni della crisi e delle possibili
ricette
per uscirne. E l’incapacità di partecipare alla
vita politica democratica
accettandone i limiti, le approssimazioni, e anche le inevitabili
frequenti
meschinità di molti protagonisti – non sempre
appartenenti al solo campo
avverso.
(Quello
sul pensiero
utopico e sul realismo politico è il maggior dissenso di
ordine culturale che
mi divide dal nostro direttore. Per il resto, mi vengono in mente solo
il
diverso giudizio sulle radici anche riformate del liberalismo europeo,
che lui non
condivide, e quello sull’interventismo nella Grande Guerra
– il solo terreno di
dissenso, quest’ultimo, su cui le mie convinzioni, in questo
caso solidamente giolittiane,
mi collochino saldamente “alla sua sinistra”. Anche
in quest’ultimo suo
giudizio storiografico, molto più indulgente del mio, credo
pesi la venerata
memoria di tanti nostri maestri che, prima i diventare capi e
ispiratori
dell’antifascismo democratico, erano stati interventisti
democratici in
gioventù).
Naturalmente
possiamo
anche continuare, per quel che riguarda l’attività
di Critica liberale, a fare
quel che abbiamo fatto meglio in tutti questi anni: analizzare,
commentare,
studiare, criticare. È una funzione certamente utile, dato
che non cesseranno di
imperversare per decenni sulla scena italiana sempre nuovi tentativi di
usurpazione del nome di liberale da parte della ciarlataneria populista
imperante, degli apologeti del clericalismo o dei rivalutatori del
fascismo
storico, nelle più diverse salse e combinazioni.
Ma
non avrebbe invece senso
autocompiacersi di un destino di ineluttabile solitudine e sconfitta e
al tempo
stesso continuare a comportarci come se fossimo una componente, sia
pure al
momento contingentemente extraparlamentare, della politica italiana.
Una
componente della politica, e non solo del panorama politico-culturale.
Una
presenza che non è rappresentata effettivamente nel sistema
politico un po’
perché – secondo una teoria simile, nelle
conclusioni dell’analisi, a quella
radicale – il sistema non è democratico non
essendolo perfettamente, un po’
perché la politica reale (italiana ma forse mondiale)
è oggi una cosa troppo
sporca rispetto all’alta considerazione che ne nutriamo. Una
presenza, la
nostra, un po’ eterea e intermittente nel sinistro mondo
della realtà storica,
da cui è d’obbligo ritrarsi inorriditi al primo
apparire di qualcosa di assai
lontano da un ideale di perfezione quasi inumana, per attendere sulla
riva del
fiume il meritato passaggio dei cadaveri di chi, sia pure
maldestramente (e
magari maldestramente anche perché senza il nostro aiuto),
ci ha comunque provato.
Questo
non mi pare utile.
Meglio, molto meglio, in questo caso, dedicarci esclusivamente e
francamente
allo studio, al commento, all’analisi: a cominciare dai
nostri rapporti annuali
sulla secolarizzazione, cui sarà interamente dedicato, come
ogni anno, il
prossimo numero doppio della rivista; o magari a un rilancio della
collana dei
“libelli”. Del resto, a sconsigliare forse di
considerarci come una componente
virtuale della politica in senso stretto, sono la stessa innegabile
eterogeneità del nostro gruppo, almeno sulle importanti
questioni che sono al
centro di questa letterina, e la difficoltà di operare
qualunque reductio ad unum fra
persone dotate ciascuna
di una forte e assertiva identità politica e culturale.
Meglio,
anche per
questo, nel prossimo futuro, cercare, assieme a chi lo ritenga utile,
altri
ambiti di intervento propriamente politico, che non coinvolgano Critica
liberale, a partire magari dalle iscrizioni individuali
all’Alde, che abbiamo
contribuito a propagandare in Italia. E a partire dagli
“Stati Generali della
cultura laica” che Vetritto propone di convocare,
«rimettendo insieme i cocci
di un riformismo borghese che sopravvive solo in circoli, associazioni,
fondazioni, riviste, qualche lista civica; che è scomparso
dalla scena della
politica visibile, ma che non è morto». Ambiti,
questi, nei quali coinvolgere qualche
gruppo o qualche liberale sparso con cui sia possibile interloquire per
cercare
di influire, anche trasversalmente, su un sistema politico in fase di
ristrutturazione.
Il
nuovo sistema politico e i nuovi interlocutori.
Anche
perché, salvo
imprevisti, è probabile che dopo le elezioni qualche
liberale sia destinato a
riapparire anche in Parlamento, e non necessariamente sotto del tutto
mentite
spoglie.
Il
clima migliore potrebbe
infatti incoraggiare a una visibilità maggiore quei pochi
parlamentari di
cultura liberale che, come quasi sempre è accaduto, saranno
eletti, magari per
sbaglio o per il rotto della cuffia, o per un imprevisto, nelle file
del Pd. E
speriamo che, dopo il suo tentativo di partecipare alle primarie su una
piattaforma fatta di federalismo europeo e diritti civili, almeno
Sandro Gozi
sia recuperato e rieletto.
Nel
prossimo Parlamento
ci sarà poi, sempre salvo imprevisti, il nuovo partito di
Massimo Donadi, cui
spero si possano raccordare quei nostri amici che negli anni scorsi
hanno preso
molto sul serio l’inizialmente fortuita appartenenza formale
dell’Idv, da cui
provengono, agli organismi liberali europei. Sappiamo che, soprattutto
fra i
giovani di quel gruppo, ci sono non pochi liberali convinti, amici di
Critica.
E attraverso “Diritti e Libertà”
dovrebbe rientrare in Parlamento almeno il
nostro Franco Grillini. Spiace però che, pur avendo
manifestato l’intenzione di
dare finalmente vita a un partito della sinistra liberale, Donadi abbia
per ora
in gran parte contraddetto l’intenzione, e sprecato
un’occasione che poteva
essere davvero preziosa, circoscrivendo rigidamente la sua creatura
allo
stretto perimetro del personale politico proveniente
dall’Idv, personale di assai
disparata provenienza, e la cui qualità media nel passato
non aveva brillato. Staremo
a vedere. E dispiace che gli sia stata sostanzialmente imposta
l’alleanza
elettorale con il pur stimabile Tabacci, ciò che ci priva
anche qui, come
ovunque, della possibilità di votare con certezza per
rappresentanti sicuramente
laici, anzi “orgogliosamente laici” come Donadi
aveva presentato i protagonisti
dell’operazione: quelli di Donadi laici dovrebbero esserlo,
salvo eccezioni, ma
quelli di Tabacci no; però saranno nella stessa lista e con
il porcellum scegliere non si
può. Sappiamo
purtroppo anche che, una volta ricevuto un imprinting, è
molto difficile che un
gruppo politico cambi natura in corso d’opera, ma sembra
abbastanza certo che
almeno qualche altro parlamentare sicuramente liberale da quelle file
dovrebbe
uscire, a cominciare, se non altro, dallo stesso Donadi e, speriamo, da
Grillini. In bocca al lupo, comunque.
L’Idv
invece, ancora formalmente
membro dell’Alde, ma verosimilmente in attesa di trasmigrare,
a sembrare in
qualche occasione liberale nel corso dell’ultimo anno non ci
ha più neppure provato.
(Per la parte dell’Idv che non ha seguito Donadi non mi
sembra che alcuno di
noi abbia conservato qualche simpatia politica; trovo però
imbarazzante
constatare che in molti abbiano adottato uno schema interpretativo
entro certi
limiti analogo al loro, imputando al governo Monti una sostanziale
continuità e
malefatte analoghe a quelle che tutti giustamente rinfacciavamo
all’orrendo
predecessore).
Non
si sa che cosa ne sarà
dei radicali, che però ci hanno abituato a una tale
imprevedibilità di
comportamenti e alleanze che non sapremmo dirne nulla, anzi non
è chiaro
neppure se ci saranno, o se ci saranno solo per promuovere, comunque
sia e con
chiunque prometta di sostenerle, le iniziative di Pannella (su cui, non
intendendo
criticarlo nell’attuale frangente e avendo Critica
già manifestato un suo
parere mesi fa, non mi esprimerò in questa sede).
A
me sembra però che il
fatto davvero nuovo di questi giorni, quello che, anche se ha appena
messo in
moto un processo di cui non è ancora dato di intravedere
l’esito, potrebbe
davvero riservare sorprese, sia proprio la conferenza stampa di fine
anno del
Presidente del Consiglio e la relativa “agenda
Monti”.
E
qui, ancora una
volta, il mio parere è diverso da quello più
frequente sulle pagine di questo
sito e della rivista.
Prima
di tutto, Monti ha messo fine a ogni possibile ambiguità sui
suoi rapporti con
il berlusconismo. La rottura, anche per le modalità con cui
si è prodotta, non appare
davvero minimamente ricomponibile. E i tempi della rottura danno
ragione dei
suoi motivi. Il rapporto di Monti con i berlusconidi è
durato il tempo
necessario per portare a termine gli ultimi adempimenti della
legislatura,
mentre il suo rapporto futuro con il centrosinistra non è
del tutto compromesso.
Avremo con ogni probabilità nel prossimo Parlamento una
maggioranza
antiberlusconiana anche in Senato: se non ce la farà il
centrosinistra da solo,
la maggioranza prevedibile comprenderà il centrosinistra e
la coalizione
montiana. Questo verosimilmente significa che, anche con tutta la buona
volontà
di rianimarlo un’altra volta da parte di qualche suo leale
“competitore”,
Berlusconi non dovrebbe più avere voce in capitolo, nemmeno
quando si tratterà
di votare a maggioranza qualificata. E questo quasi sicuramente
significa
uscire davvero e definitivamente dalla nefasta
“età berlusconiana”. La legge
elettorale sarà quasi certamente cambiata, e il potere di
interdizione al
Senato che Berlusconi si era attribuito permanentemente con la
legge-porcata
dovrebbe così terminare. Non ci saranno più alibi
per l’approvazione di una
vera legge sul conflitto di interessi.
Per
le ragioni che a questo punto dovrebbero risultare chiare, a me
l’agenda Monti
sembra largamente condivisibile (almeno per quel che contiene). Tra
l’altro anche
per le caute novità che indica rispetto
all’operato dello stesso governo
uscente, in direzione di qualche maggiore attenzione al disagio sociale
e alle
disuguaglianze. Manca una prospettiva di più ampio respiro
di quella che può
fornire un’agenda delle cose da fare in una legislatura, ma,
per quel che
valgono i programmi elettorali (capisco che i miei amici difficilmente
accetterebbero di valutarli con il cinico metro proposto da Anthony Downs),
questa agenda mi
sembra meno ambigua e più seria e affidabile delle
“narrazioni” che spesso risuonano
nell’ambito del Pd. E da un terzo di secolo almeno (almeno da
quando ho vissuto
da consigliere di un Comune capoluogo di regione
l’applicazione della legge
sull’“equo canone”) ho imparato a
diffidare di consimili narrazioni, sempre solo
incentrate sugli obiettivi e quasi mai seriamente preoccupate di
indicare con
realismo gli strumenti necessari e idonei a raggiungerli, e che si
sforzano sempre
di nascondere le prevedibili o possibili conseguenze inintenzionali
delle
misure che promettono.
I
limiti dell’“agenda” mi sembrano
soprattutto due.
Da
un lato, e pur attribuendo così tanto rilievo al contesto
istituzionale
europeo, l’agenda si arresta a un passo dalla rivendicazione
di una vera
riforma federale delle istituzioni, anche se afferma la
necessità di attribuire
“un mandato costituzionale” al prossimo Parlamento
Europeo. Quest’ultima è una
tipica rivendicazione federalista, la più pressante del
momento, ed è in realtà
il solo passo che gli Stati membri devono compiere per mettere in moto
il
processo. Non avrebbe senso un mandato costituente senza una meta
federale. Può
darsi che la preoccupazione sia stata quella di non contraddire
apertamente
dichiarazioni di diverso segno rilasciate mesi fa dallo stesso Monti
– e in
forma più esplicita dal Ministro degli Esteri –
che avevamo commentato e
criticato a suo tempo sulla rivista. Può darsi che pesino
considerazioni di
ordine intergovernativo, dato che quella di mediare con successo
accordi generali
in tale sede è la ricorrente ambizione di ogni governante
europeo, ed è la
costante logica conservatrice cui il meccanismo istituzionale vigente
tende a indurre
e piegare i membri del Consiglio. Ma può anche darsi che si
sia trattato di una
semplice cautela di ordine elettorale.
Lo
stesso ordine di preoccupazione che ha forse indotto anche gli autori
dell’agenda a concedere qualcosa alla diffusa indignazione
anticastale,
proponendo una riduzione del numero dei membri del Parlamento e la
trasformazione del Senato in Camera delle Regioni. Non starò
qui a ripetere,
avendolo già fatto sulla rivista [3], le ragioni per cui
riterrei un’eventuale
riforma in senso monocamerale assai più opportuna di una
riduzione della
rappresentanza (che renderebbe anche meno contendibili le leadership di
partito),
o della conversione di una delle camere in palestra di demagogici
contenziosi campanilistici
fra aree territoriali.
Se
comunque quel che l’agenda contiene sembra a me largamente
condivisibile, il
problema è ciò che non contiene. Non si tratta
solo dello scenario più ampio.
Da questo punto di vista l’agenda è volutamente
una mera, non enciclopedica,
agenda di legislatura. Si tratta invece, essenzialmente, di tutta la
partita
della laicità delle istituzioni e dei diritti civili e delle
riforme ad essa
correlate, su cui l’Italia degli anni di fango ha aggiunto
agli inaccettabili ritardi
accumulati anche nuove manifestazioni di servilismo e di sudditanza
dello
Stato, e nuove discriminazioni ai danni dei non credenti e dei non
cattolici.
Naturalmente non ci si sarebbe potuti attendere da Monti, fresco
partecipante
alla riunione dei leader del Ppe, nulla di simile a un
“manifesto laico”; e,
dato che gli ingredienti della sua lista o coalizione comprenderanno
certamente
anche l’Udc e i molti cattolici che, pure assieme a molti
laici e con molta più
sobrietà politica e civile, si riconoscono in verso la Terza
Repubblica e in Italia
Futura, qualunque presa di posizione in materia, che avesse preteso di
rappresentare l’intera coalizione che sosterrà
elettoralmente l’agenda Monti, non
avrebbe potuto che risultare sconfortante. Perfino più
sconfortante dei
“compromessi alti” del Pd. Molto meglio nulla,
indubbiamente.
Il
problema però si sposta in questo modo dal testo
dell’agenda alla concreta
configurazione della coalizione. Una lista unica anche alla Camera,
comprendendo
necessariamente tutta l’Udc e comunque il suo leader, anche
al di là delle
intenzioni avrebbe inevitabilmente dato un segno integralista
all’intera
formazione, che in tal modo non sarebbe risultata potabile per i
liberali,
tanto più in presenza dell’attivo sostegno della
Cei. La nuova formazione avrebbe
avuto in ogni caso il merito di contribuire in modo determinante a dare
il definitivo
benservito al berlusconismo, ma non anche quello di aprire
all’Italia una
prospettiva di piena modernizzazione anche civile. Ma nella sua
conferenza
stampa di ieri Monti ha scartato l’ipotesi della lista unica
alla Camera, e ha esplicitamente
chiarito, a proposito delle questioni relative alla laicità,
che «non è su
queste questioni che si articola la formazione di questo impegno e
quindi credo
che in primis siano le coscienze individuali e la sede parlamentare i
momenti
nei quali questi valori e le iniziative conseguenti devono
esplicarsi».
Nella
coalizione di Monti non sarà presente una componente
politica organizzata esplicitamente
laico-liberale, ma, sulla base di questa dichiarazione, dovrebbe
esservi
ricompresa la stessa pluralità di posizioni in materia che
si ritrova nel
centrosinistra, e in particolare nel Pd. Anzi, se troverà
conferma nella
composizione delle candidature, questa più esplicita
dichiarazione di
pluralismo interno, rispetto a quanto sempre praticato dal Pd, dovrebbe
consentirvi
una manifestazione più libera – certo accanto alla
massiccia presenza di altre
di segno opposto – anche di posizioni laiche e liberali, non
costrette nella
camicia di forza dei cosiddetti “compromessi alti”
cui il Pd è obbligato dalla necessità
di non scontentare la sua componente di origine democristiana e dalla
sua
natura di classico partito politico a vocazione generalista. Se quindi
la
coalizione comprenderà anche presenze laiche, chiaramente e
visibilmente estranee
al cattolicesimo politico e al riferimento al Ppe, a me pare che i
liberali
italiani potranno e dovranno includere parti o esponenti di tale
coalizione fra
i propri primi interlocutori.
È
scontato che, come avviene in tutte le transizioni, sarà
inevitabile assistere
a giravolte e piroette di uomini politici che cercheranno nella
coalizione di
Monti una sopravvivenza altrove non più garantita.
Ciò non toglie che questo potrebbe
essere davvero l’inizio di una svolta nel sistema politico
italiano e non solo
la fuoriuscita da diciannove anni di vergogna civile.
[1]
http://www.felicemillcolorni.it/Novecento_defunto.html
[2]
http://www.felicemillcolorni.it/Articolo18_e_vere_anomalie_italiane.html
[3]
http://www.felicemillcolorni.it/Contro_populismo_anticasta.html
[Questo intervento ha provocato alcune obiezioni
comparse sul sito Internet di Critica liberale, cui ha fatto seguito
seguito una replica dell’autore]
Dal sito Internet di
Critica
liberale, 29/12/2012
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