Legge elettorale: un dibattito assolutamente sconcio
di
Felice Mill Colorni
Il modo in cui viene
discussa la riforma della legge elettorale è ogni giorno più sconcio. Calderoli,
l’autore confesso della vigente legge-porcata (per chi non se lo ricordasse,
così testualmente da lui stesso definita in un talk-show televisivo) può andare
fiero. Ha fatto scuola. Praticamente l’intero sistema politico – tutti i
partiti che contano – per procedere alla riforma sta adottando criteri identici
ai suoi. Tutti i principali protagonisti della trattativa stanno cercando di
configurare una legge elettorale ritagliata, solo ed esclusivamente, in base al
risultato prevedibile sulla base dei sondaggi che rilevano le intenzioni di
voto del momento. La legge elettorale sta così diventando, anche teoricamente,
anche in linea di principio, una legge che deve essere necessariamente, che non
può non essere, una nuova legge-porcata, da reinventare liberamente alla
vigilia di ogni votazione per predeterminarne un risultato ogni volta diverso e
ogni volta conveniente per la maggioranza uscente. La cosa inverosimile, o che
sarebbe inverosimile per chi non avesse assistito al progressivo imbarbarimento
della politica italiana negli anni di fango, è che nessuno se ne vergogna
neppure.
È stato addirittura
elaborato – e ripetuto da stormi di pappagalli semianalfabeti che, more solito, l’hanno fatto diventare
un’ovvietà largamente condivisa senza nemmeno riflettervi – il postulato
secondo cui la modifica di una legge elettorale provocherebbe una sorta di
istantanea delegittimazione degli organi eletti sulla base della normativa
elettorale previgente: e ciò in coerenza con l’ottuso dibattito italiano degli
ultimi vent’anni, secondo cui le leggi elettorali – almeno quelle improntate a criteri
classici, semplici, trasparenti, comprensibili a tutti, ispirate a principi
generali e astratti – non avrebbero tutte vantaggi e svantaggi relativi, ma avrebbero
miracolose virtù salvifiche le une e fossero causa di tutti i mali le altre.
Secondo questo stupidissimo e puerile postulato, non solo non sarebbe
disdicevole confezionarsi leggi elettorali su misura alla vigilia delle
elezioni, ma ciò sarebbe addirittura più appropriato che scriverle, un po’ più
“alla cieca”, a mesi o anni di distanza dal voto.
Così si assiste alle
proposte più cervellotiche, destinate a instaurare i sistemi di voto più
incomprensibili alla stragrande maggioranza degli elettori, tutte destinate a
essere ritagliate sulla base degli interessi più biechi e diretti di
politicanti che si cuciono addosso le leggi che convengono a loro, ai loro
partiti, alle loro consorterie, agli alleati di cui non possono fare a meno – e
solo per la prossima volta: poi si vedrà. Come hanno già fatto – senza uno
straccio di giustificazione, come puro atto di forza – per la legge elettorale
europea: oggi di nuovo, e di nuovo alla vigilia delle elezioni, cercano, se
possibile, di garantirsi reciprocamente gli uni gli altri, regalandosi un
diserbante che li liberi da qualunque minaccia di concorrenza. Come in Turchia,
dove militari e islamisti si combattono su tutto, ma sono complici nel
mantenere in vigore lo sbarramento al dieci per cento, che impedisce ai turchi
ogni possibile alternativa presente o futura. Così la politica italiana degli
anni di fango. Per poter usare con gli elettori l’argomento a loro avviso più
forte, se non più convincente: «O mangi questa minestra o salti da questa
finestra».
E se non troveranno un
accordo, procederanno di forza, esattamente come avevano fatto per la
legge-porcata: con la forza che ha dato loro il mancato adeguamento alle
passate riforme elettorali della maggioranza richiesta per la ridefinizione delle
regole del gioco.
Non c’è nessuna logica
confessabile, sono un’idea primitiva e barbarica della democrazia come mera
affermazione della volontà di chi può. I più anziani l’avranno appresa nelle
scuole fasciste, dove si insegnava che la volontà dei più andava considerata
altrettanto arbitraria quanto quella dei più violenti. Dove, come nell’Italia
berlusconiana, la sola democrazia pensabile non era la democrazia liberale, ma
la democrazia plebiscitaria. Dove il liberalismo come teoria e tecnica della
limitazione del potere era considerato, come nell’Italia berlusconiana, inutile
e sorpassato orpello ottocentesco.
Neppure noi, che siamo
fra i più pessimisti, avremmo pensato mesi fa che la classe politica italiana
potesse architettare perfino qualcosa di peggio della legge-porcata. Invece ce
la stanno mettendo tutta. E non ci si prova affatto la sola consorteria
berlusconiana, nascondendosi di nuovo in una baita alpina. Ci provano tutti,
alla luce del sole, senza vergogna, ormai consapevoli che la responsabilità politica
non esiste più, soprattutto nelle questioni che richiedono un minimo di
conoscenze o di applicazione per capirle: sono consapevoli che, non esistendo
più uno straccio di establishment responsabile, per
queste e per simili oscenità non li punirà quasi nessun elettore.
Noi non abbiamo che da
ribadire quel che abbiamo detto più volte. Ci sarebbe sembrata un’ovvia necessità sanitaria, doverosa e urgente, riparare immediatamente e comunque al vulnus
rappresentato dalla imposizione unilaterale da parte della consorteria
berlusconiana della legge-porcata, prima ancora della prossima legislatura,
ripristinando tale e quale la legge elettorale previgente. Non per i suoi
pregi, certamente modesti e più che
opinabili, ma perché si tratta dell’ultima legge elettorale in ordine di tempo
approvata dal Parlamento a larga maggioranza; e al fine di non
riaffermare il precedente di una modifica della legge elettorale adottata alla
vigilia delle elezioni dalla maggioranza uscente, al solo fine di
predeterminare la composizione del Parlamento nella legislatura successiva.
Meglio tornare a una legge che esisteva già, elaborata anni fa senza conoscere
i sondaggi di oggi.
Ma se il degrado è
arrivato al punto che questa classe politica non ne è capace – forse non è
nemmeno più capace di capire la differenza fra atti di governo, leggi
ordinarie, leggi che fissano le regole del gioco e leggi costituzionali –
allora è molto meglio lasciar perdere. Meglio – meno ripugnante – tornare a
votare con la legge-porcata, imposta dalla consorteria berlusconiana e da cui
oggi la consorteria berlusconiana teme di essere spazzata definitivamente via,
piuttosto che approvare una porcata bis, di cui anche il centrosinistra si renda
corresponsabile, e forse destinata a cristallizzare per sempre la spartizione
artificiosa della politica italiana – proprio come quella turca – fra due
protagonisti apparentemente determinati a diventare ogni giorno più impresentabili
del giorno prima e preoccupati ormai solo di garantirsi dalla concorrenza, che
non sia quella addomesticata dei loro simili. Berlusconi e i suoi hanno imposto
la legge-porcata a forza quando gli conveniva: se adesso venissero chiamati a
pagarne il prezzo, non avrebbero proprio nulla di che lamentarsi.
Per il futuro, se mai si
dovesse tornare a vedere un po’ di luce, ci sembrerebbe opportuno non solo che tutti i quorum di garanzia
previsti dalla Costituzione venissero rapidamente adeguati alle intervenute
riforme elettorali, ma anche
che la Costituzione richiedesse maggioranze qualificate (indicativamente i due
terzi,
come in altri paesi),
almeno per l’approvazione di quelle modifiche che incidono sui principi che
regolano la materia elettorale. E, visti i precedenti, se stesse a
noi, proporremmo che la Costituzione stabilisse che tali leggi di modifica
entrassero in vigore cinque anni dopo la loro pubblicazione, in modo da evitare
che il Parlamento uscente possa determinare a sua discrezione la composizione
di quello successivo anche in caso di elezioni anticipate.
E se poi dovessimo,
come fanno tutti, proporre il sistema a nostro avviso preferibile, opteremmo
per una rappresentanza di almeno 500 deputati, di cui un centinaio eletti con
proporzionale pura e collegio unico nazionale – in modo da garantire a tutte le
minoranze diritto di rappresentanza e diritto
tribuna (compresi noi liberali progressisti, che siamo privi di
rappresentanza nel sistema politico italiano da un terzo di secolo); e la
maggioranza restante eletta in collegi uninominali, in modo da garantire
stabilità (per quanto possibile, perché non esiste sistema elettorale al mondo
capace di garantirla artificialmente).
Affermato questo
principio basilare – e introdotto uno statuto pubblico per i partiti politici,
che non si vede perché non debbano essere regolati almeno tanto seriamente quanto
le società commerciali – ci formalizzeremmo molto meno sul resto: preferenze
(non più di una, però) o meno per la quota proporzionale, doppio turno (con o
senza soglia per l’accesso al secondo) o turno unico per la quota uninominale.
Con l’eccezione dell’adeguamento dei quorum costituzionali
all’avvenuto mutamento delle leggi elettorali, tutte le altre riforme
costituzionali sono a nostro avviso lontanissime dal costituire una priorità,
perché il sistema costituzionale non è stato per nulla una delle cause del
degrado italiano. Non ha neppure compromesso l’efficienza decisionale, quando
c’è stata volontà politica, come hanno dimostrato gli iter supersonici con cui
sono state approvate perfino tutte le leggi vergogna del berlusconismo. Semmai,
la Costituzione ha avuto il merito di farci evitare il peggio, che la classe
politica di questi anni di fango ci stava preparando. Le
riforme – o la macelleria – costituzionali, che sono da quasi quarant’anni il
parco giochi preferito degli apprendisti stregoni della politica italiana, sono
l’ultima cosa che serve all’Italia. Tanto meno, per le ragioni più volte
indicate, siamo disponibili all’indulgenza con l’ondata antiparlamentare che
rischia di travolgere, esattamente come novant’anni fa, non le “caste” (i cui
principali responsabili ne uscirebbero rafforzati e più inamovibili di prima),
ma la democrazia liberale. Ma, se proprio la pulsione fosse irrefrenabile,
saremmo comunque contrarissimi a qualunque ridimensionamento della
rappresentatività del Parlamento (e, ancor più, a qualunque manomissione della
Corte costituzionale).
All’attuale classe politica non vorremmo insomma che fosse consentito
di mettere le mani sulla Costituzione. Ma, se proprio non lo si potesse
evitare, piuttosto che ridurre il numero dei membri delle Camere, meglio, molto
meglio, pensare allora piuttosto a una più lineare transizione al
monocameralismo. (Soluzione, tra l’altro, anche molto più efficace perfino in
termini di risparmio economico, tenuto conto del costo dell’organizzazione, spesso
caratterizzata da una gestione a dir poco allegra, e dell’entità del patrimonio
di ciascuna Camera, ben più rilevante del costo delle retribuzioni e degli
stessi privilegi dei loro membri). Le esigenze di necessaria ponderazione
dell’attività parlamentare potrebbero essere salvaguardate anche con una sola
Camera, attraverso la previsione di doppi passaggi e seconde letture se
richiesti da minoranze qualificate, ma senza con ciò depauperare la democrazia
per risparmiare sui costi.
Ma questi sono discorsi futuribili. Al momento il massimo che può
forse esser fatto è fermare la mano, impedire di fare ancora altri danni irreversibili,
alla peggiore classe politica dell’Europa occidentale.
Dal sito Internet di Critica liberale, 19/07/2012
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