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Contro il populismo anticasta

di Felice Mill Colorni

Nello scorso numero abbiamo cercato di analizzare la crisi, forse irreversibile, che sembra attraversare ovunque la democrazia liberale.

Il discredito della politica, che, come abbiamo cercato di mettere in evidenza, è un fenomeno che coinvolge tutte le democrazie occidentali, sta distruggendo più che altrove in Italia le basi stesse del consenso al principio della rappresentanza democratica, e alla storica confluenza, cui credevamo di esserci abituati nell’ultimo settantennio, fra democrazia, rispetto per le libertà individuali, rule of law, sistema delle garanzie costituzionali, freni e contrappesi, libertà di partecipazione e di organizzazione politica, apertura dei mercati, diffusione del benessere e dei diritti: in una parola, fra democrazia e liberalismo. Il meccanismo dell’inclusione democratica si è ingrippato ovunque, ma, fra le democrazie occidentali fino a ieri ritenute “avanzate” e consolidate, il discredito per la politica ha raggiunto in Italia il suo livello più alto.

E non c’è proprio nulla di cui stupirsi. Se già negli anni della cosiddetta “prima Repubblica” le culture politiche maggiormente diffuse si erano solo adeguate alle regole di un costituzionalismo liberale cui erano state tutte in origine assai lontane, nei successivi anni di fango, negli anni del rimbambinimento pubblicitario berlusconiano, declino economico e fine dello sviluppo si sono accompagnati al trionfo di una classe politica che, complessivamente, non può che suscitare un meritato ribrezzo – fatte ovviamente le debite e scontate eccezioni, che riguardano però, più che altro, minoranze più o meno piccole e singoli individui sparsi qua e là, talvolta eletti quasi per sbaglio o a dispetto di ogni previsione. Ribrezzo meritato per la sua infima media qualità etica e intellettuale, e per la rara arroganza e volgarità di cui ha dato prova soprattutto e sempre più nell’ultimo infausto diciottennio.

Il risveglio dal sogno pubblicitario è stato brutale, ma nel frattempo, nella sfera della politica – con inevitabile contaminazione di ogni altra sfera della vita civile – sono stati azzerati tutti gli standard minimi di decenza, ogni cultura politica diffusa, ogni senso di responsabilità individuale, di rispetto diffuso per ogni regola civile, civica e sociale, per non parlare delle regole giuridiche, a cominciare da quelle costituzionali.

Comportamenti delittuosi e corruttivi largamente diffusi, illegalità dilagante, collusioni con la criminalità organizzata non più soltanto nelle aree di suo insediamento storico, assalto alle risorse pubbliche e disprezzo per ogni bene pubblico, per la cultura, per l’ambiente, per la correttezza della concorrenza; la politica ridotta a cordate di consorterie contrapposte e a protezione e procacciamento di favori per clienti, postulanti e gruppi corporativi organizzati – non importa se economici, sindacali, religiosi o malavitosi: tutto quel che era patologia largamente riconosciuta e diffusa del sistema nella storia repubblicana è diventato regola e prassi incontrastata.

Incontrastata, anche e soprattutto, da parte di chi per primo avrebbe dovuto fin dall’inizio denunciarla e contrastarla: le due componenti del principale partito dell’opposizione, che non ne sono state capaci, fin dall’inizio, probabilmente perché prive degli strumenti culturali per farlo, dopo la rovina ignominiosa del “Dio che aveva fallito” e dopo il tracollo del cattolicesimo democratico. Incapaci di riconoscere la natura dell’avversario. Incapaci di capire che il conflitto d’interesse era esiziale per la sopravvivenza della cultura delle regole, vitale per ogni democrazia liberale e per ogni economia di mercato; incapaci, una volta naufragati sia la “cultura forte” e totalitaria in cui avevano fortemente creduto gli uni, sia il faticoso compromesso con la modernità secolarizzata che avevano gestito gli altri, di erigere una intransigente opposizione civile al berlusconismo. E non parliamo neppure della sinistra estremista, che questi argomenti li ha sempre ritenuti futili o al più secondari, e per la quale Obama e Bush, Madoff e Soros, Berlusconi e Draghi sono tutti più o meno la stessa cosa.

Così, anziché opporsi, hanno creduto di poter sopravvivere e sperare in una riscossa accettando largamente l’omologazione. Non che di quell’omologazione non ci fossero salde radici nella storia del precedente cinquantennio repubblicano (da cui, dopo tutto, proviene direttamente anche B): Tangentopoli, e prima di Tangentopoli la lunga teoria di scandali e malversazioni, e di finanziamenti inconfessabili, che ha contrassegnato la storia della Repubblica, e anzi l’intera storia dell’Italia unita fin dai suoi primi decenni, stanno lì a dimostrarlo. Ma se in precedenza l’“autobiografia della nazione” comprendeva in sé anche potenti anticorpi, questi si sono indeboliti nel diciottennio berlusconiano fin quasi a scomparire.

Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

«Sono tutti uguali»: è questo il senso comune che costituisce il punto di arrivo degli anni di fango italiani. Tutti uguali perfino nell’uso simmetrico e sedimentato delle definizioni comunemente accettate: “centrodestra e centrosinistra”, come se si trattasse di schieramenti politici analoghi a quelli degli altri paesi dell’Europa occidentale, come se la destra italiana comprendesse al suo interno componenti apparentabili a quelle degli schieramenti di centrodestra europei, come se l’ultimo governo di “centrosinistra” con la sua inverosimile e insostenibile eterogeneità interna non somigliasse piuttosto a un sistema politico europeo tutto intero, con l’aggiunta di estremisti di sinistra e di estremisti clericali altrove praticamente inesistenti.

“Tutti uguali”, comunque, nel senso comune dei cittadini elettori. Quindi tutti parte della stessa “casta”.

Non saremo certo noi di Critica a minimizzare o a banalizzare le circostanziate denunce delle malefatte della classe politica italiana, o almeno della sua larga maggioranza, purtroppo, come usa ormai dire, largamente bipartisan.

Propensione a delinquere largamente diffusa, malversazioni, saccheggi, clientelismi, micragnosi e ingiustificabili privilegi feudali, manifestazioni di grottesca avidità, di boriosa arroganza, di senso diffuso dell’impunità sono incontrovertibili, e vanno combattuti, repressi e denunciati senza riserve o riguardi di sorta.

Il fatto è che il confine fra queste sacrosante e spesso puntuali denunce e la tendenza a considerare “costo” inutile la democrazia rappresentativa e il Parlamento si sta facendo sempre più e sempre più pericolosamente labile.

Non c’è dubbio che, se dovessimo dare per scontato che, anche una volta conclusa la parabola degli anni di fango, questa e non altra sarà sempre la qualità della classe politica italiana, sarebbero giustificate tutte le proposte punitive e vendicative da più parti avanzate.

Ma è proprio questo il punto. Senza un profondo ricambio – politico, non meramente biologico – senza quel “Nuovo Risorgimento” che Critica liberale si ostina a proporre alla parte ancora raziocinante della società civile e della classe dirigente italiana, non ci resterebbe che rassegnarci definitivamente all’esilio, fisico o figurato.

Se invece pensiamo che qualche possibilità di svolta esista ancora, almeno ora, più consapevoli come siamo di essere sull’orlo del burrone – italiani in testa, ma con gli altri europei e occidentali non enormemente distanti – allora non si tratta di punire la politica ma di rifondarla – o almeno di orientare a quel fine le proposte.

L’alternativa è la vittoria “postuma” e definitiva del berlusconismo peggiore e più tracotante, quello che qualche anno fa proponeva sostanzialmente di sostituire il lavoro del Parlamento con riunioni della conferenza dei capigruppo, attribuendo a ciascuno dei suoi membri un voto ponderato proporzionale ai voti ricevuti nelle elezioni. Come, dopo tutto, si fa nelle società per azioni: la rappresentanza democratica inutile costo, anzi dannoso e sorpassato orpello ottocentesco.

Ma forse l’alternativa alla rifondazione della politica e delle sue regole potrebbe essere perfino peggiore, perché nelle polemiche contro la “casta” – così condivisibili nelle precise denunce specifiche da cui muovono – si avverte sempre più e sempre più marcato lo slittamento inconsapevole verso toni e argomenti tipici della esondante polemica antiparlamentare che, anche allora simultaneamente da sinistra e da destra, aveva caratterizzato il clima politico-culturale degli anni Dieci del Novecento, il clima che portò all’interventismo nella Grande Guerra prima e all’impresa fiumana e al fascismo poi. Nessuna eco bellicista oggi, ovviamente, ma lo stesso disprezzo per la clase discutidora, per i “ludi cartacei”, per le “cagoie” degne di essere bombardate con pitali dannunziani (un disprezzo da cui non seppero inizialmente trattenersi allora neppure alcuni dei nostri più amati simboli del liberalismo progressista novecentesco, molti dei quali dovettero ricredersi solo dopo il delitto Matteotti).

Se si contribuisce a far diventare senso comune la convinzione che, di fatto o addirittura inevitabilmente, «sono tutti uguali», la conseguenza necessaria sarà che la selezione della futura classe politica avverrà fra aspiranti di qualità sempre peggiore, in una spirale senza fondo. Già lo si vede nei movimenti giovanili di molti partiti, da cui quasi sempre i giovani più colti e brillanti si tengono ben lontani – salve le luminose eccezioni individuali che non mancano mai ma che non salvano il panorama complessivo.

È allora necessario discernere, nella congerie di misure “anticasta” che rendono così popolare chiunque se ne faccia portavoce, quel che è funzionale alla rifondazione della democrazia costituzionale e quel che va in senso opposto. Tenendo magari conto anche dell’esigenza di “tagliare i costi” della politica, ma non a discapito della democrazia parlamentare.

Tenere insieme le due esigenze non sarebbe neppure difficile: i costi veri della politica, quelli che hanno anche un vero significato finanziario e non soltanto morale e simbolico, e che incidono in modo pesantemente negativo sullo stesso funzionamento dell’economia italiana, riguardano, ben più che la politica visibile, la politica occulta.

Il vero scandalo del costo astronomico e parassitario della politica italiana – oltre che nei reati – sta nelle centinaia di migliaia di faccendieri, attendenti, uomini di fiducia, politicanti trombati, incaricati di consulenze spesso fasulle, che sono tutti, a differenza dei duemila circa fra parlamentari e consiglieri regionali su cui si incentra l’attenzione populista, non eletti, quasi sempre ignoti, ma infrattati, in modo invisibile e inestirpabile – e con stipendi e fringe benefits talvolta ben maggiori di quelli dei parlamentari – in consigli di amministrazione, enti, consorzi, società miste, fondazioni, finto “no profit”, confraternite, che inquinano i rapporti fra politica ed economia favorendone intrecci perversi e allontanando gli investimenti, e che costituiscono la parte largamente preponderante, e scandalosa, dei costi e del finanziamento occulto della politica. E sta nei finanziamenti alle segreterie dei partiti camuffati da “rimborsi” e nei contributi pubblici all’editoria parassitaria asservita o sfruttatrice della politica.

Un’altra enorme porzione dell’intermediazione parassitaria della politica è da ricercare nella gestione del sistema sanitario, forse la principale fra le fonti del finanziamento illegale del sistema politico. Ma su questo punto la trattazione richiederebbe molto spazio e la rimessa in discussione di molte idee ricevute: per il momento rimandiamo alle considerazioni sinteticamente esposte nel capitolo relativo del quaderno di Critica dedicato al “Nuovo Risorgimento”, reperibile nel nostro sito Internet.

Ci sono poi, certo, i miserabili privilegi e i vacui status symbols cui tanti “potenti” straccioni della politica italiana sembrano tenere tantissimo e che potrebbero essere tagliati in radice senza danno alcuno per la salute della democrazia. A tacere dei veri e propri reati commessi con l’uso e l’abuso dei voli militari o “di Stato”, non c’è ragione alcuna per mettere un’auto “blu” con autista a disposizione personale e permanente di un uomo politico: usare abitualmente i taxi non è disdicevole, così come sarebbe logico ricorrere a servizi pubblici di noleggio nelle singole occasioni in cui ciò sia realmente necessario per ragioni di rappresentanza.

Lo stesso, ovviamente, dovrebbe valere per mense, barbieri, palestre, cappelle, e consimili micragnosi privilegi, che non si vede perché debbano essere posti a carico dei contribuenti, al di là e oltre alle retribuzioni riconosciute agli uomini politici. Il loro costo incide proporzionalmente pochissimo sulla spesa pubblica complessiva, ma essi sono comprensibilmente ragione di pubblico scandalo, soprattutto nel momento in cui la classe politica è costretta a chiedere sacrifici ai contribuenti, anche per avere per anni, nella sua maggioranza, sperperato il loro denaro.

Venendo a riforme capaci di incidere sull’articolazione dei livelli di governo territoriale, non sembra che la soppressione delle amministrazioni provinciali – con tutte le relative strutture, consigli, giunte, assessori, presidenti, gabinetti, sedi relative, centralini, consulenti, attendenti, addetti stampa, auto blu, ecc. ecc. – possa depauperare troppo significativamente la democrazia italiana, così come l’accorpamento di molti piccoli Comuni. Anche senza il Cnel, residuo di un’idea di rappresentanza corporativa anziché politica, la democrazia sopravvivrebbe benissimo.

La maggior cura dimagrante dovrebbe essere riservata alle amministrazioni regionali, i centri di spesa più opachi e meno monitorati del paese e gestiti dalla classe politica più lautamente retribuita proporzionalmente ai costi che deve sostenere, e proprio per le quali si prospetta invece, salvo default, l’imminente cuccagna “federalista”.

Non si può invece trattare come un mero problema di “costi” quello dei rami alti dell’ordinamento costituzionale. Anche qui, beninteso, c’è spazio per risparmio e moralizzazione: per esempio, ponendo limiti, anche costituzionali, al numero dei membri dell’esecutivo, spesso nominati solo per bieche ragioni di bilanciamento fra fazioni e frazioni di maggioranze raccogliticce.

Quando invece è la rappresentanza parlamentare a essere messa in discussione, è il fulcro della democrazia a finire sul tavolo operatorio – o sul banco della macelleria. Certo, se la qualità dei parlamentari fosse destinata a rimanere l’attuale, allora sarebbero più che giustificati i colpi di scure: dimezzare numero e stipendi, introdurre limiti al numero dei mandati, ecc. Se si tratta di continuare a nominare i parlamentari con la legge-porcata di Calderoli, tanto vale, come proponeva B, far votare i soli capigruppo. Invece di spendere denaro per organizzare elezioni, basterebbe anzi commissionare qualche bel sondaggio ed estrarre a sorte i parlamentari fra rose proposte dalle segreterie dei partiti, così, per esibirli una o due volte l’anno, come si fa in Cina, dietro pagamento di un gettone di presenza.

Per il momento la principale norma “moralizzatrice” introdotta – quella per cui è ora necessaria un’intera legislatura anziché metà per maturare il vitalizio – ha avuto il solo brillante risultato di far sopravvivere B e questa legislatura allo sfaldamento della maggioranza. Ci sarebbe costato molto di meno – anche economicamente – triplicarglielo, piuttosto, il vitalizio: ci saremmo liberati di molti dei peggiori, che avrebbero trovato conveniente abbandonare la politica.

Ma le democrazie liberali non possono fare a meno di una classe politica. Il sogno della democrazia diretta resa possibile dalle nuove tecnologie è un sogno totalitario analogo a quello della “democrazia dei consigli” di novant’anni fa, o della “democrazia assembleare” sessantottesca; o è il sogno di una società in cui nessuno è responsabile delle scelte della politica, in cui si può gioiosamente disfare il giorno dopo quel che si è deciso il giorno prima illudendosi di non pagarne i costi. Un sogno totalitario come quello di affidarsi ciecamente ogni quattro o cinque anni a un capataz: si è visto con quali risultati.

E una classe politica non si improvvisa. Non risulta che molti grandi leader democratici occidentali siano assurti al rango di statisti dovendo sottostare al limite dei due mandati (originariamente norma interna al vecchio Pci, che se ne serviva per far ottenere il vitalizio, e porre così a carico dei contribuenti, a rotazione, l’intera alta burocrazia di partito, centrale e periferica). Di dilettanti allo sbaraglio ne abbiamo già avuti a sufficienza dal ’94 in poi.

Non sarà certo popolare di questi tempi. Ma bisogna pure che qualcuno abbia il coraggio di dire che da un parlamentare – così come dal Sindaco di un grande Comune, che ha responsabilità personali anche maggiori, per non dire da un ministro – si deve poter pretendere che svolga con competenza una funzione non meno delicata e non meno impegnativa di quelle che si affidano a professionisti affermati. E che nessuna democrazia si può permettere il lusso di screditare sistematicamente l’attività politica considerandola naturale e scontato appannaggio di disonesti e profittatori; e, come ovvia conseguenza, di attribuirle alla fine sia retribuzioni lontane da quelle di altre attività professionali di simile rilievo, sia pesanti svantaggi reputazionali: pena il depauperamento senza fine della qualità media della classe politica. Fenomeno cui effettivamente si assiste, su entrambe le sponde dell’Atlantico, con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Sarebbe molto meglio sopprimere tutti gli attuali indecorosi privilegi e tornare a legare stabilmente la retribuzione dei parlamentari allo stipendio degli alti magistrati: evitando così sia di lasciarne la determinazione al mero arbitrio degli interessati, sia di farne ricorrentemente oggetto di demagogia qualunquista.

Tra l’altro, all’ombra della vindice moralizzazione popolare e populista, si nascondono come sempre i più furbi.

Se il nostro bicameralismo puro è indifendibile, differenziare le funzioni fra le Camere per giustificare la sopravvivenza di entrambe, riducendo il Senato a mero terreno di lotta per la spartizione territoriale delle risorse sulla base di alleanze partitiche e di rapporti di forza numerici sarebbe un rimedio molto peggiore del male (se non per le fortune della Lega Nord e di future Leghe Sud), così come sottrarre a una delle due Camere i poteri ispettivi – prevedibilmente proprio a quella in cui le minoranze politiche sono maggiormente rappresentate.

E sarebbe rimedio peggiore del male, per ridurre i costi, “dimezzare” i membri, dimezzando così anche il numero dei potenziali controllori e soprattutto di quelli appartenenti alle minoranze, mantenendo però il bicameralismo a vantaggio dell’oligopolio dei partiti superstiti, quelli maggiori e maggiormente responsabili del disastro italiano, e innanzitutto dei più responsabili di tutti, i loro capibastone, alla fine i veri beneficiari dell’epurazione, che sempre meno dovrebbero confrontarsi con competitori interni capaci di scalzarli o di condizionarli, e sarebbero perfino capaci, con questa operazione, di atteggiarsi a moralizzatori.

Meglio, molto meglio di tutto questo, pensare caso mai a una più lineare transizione al monocameralismo, soluzione, tra l’altro, anche molto più efficace perfino in termini di mero risparmio, tenuto conto del costo della complessa organizzazione, spesso caratterizzata da una gestione a dir poco allegra, e dell’entità del patrimonio immobiliare di altissimo pregio di ciascuna Camera, ben più rilevante del costo delle retribuzioni e degli stessi privilegi dei loro membri. Le esigenze di necessaria ponderazione dell’attività parlamentare potrebbero essere salvaguardate anche con una sola Camera, attraverso la previsione di doppi passaggi e seconde letture se richiesti da minoranze qualificate, ma senza con ciò depauperare la democrazia per risparmiare sui suoi costi.

Quando politicanti ciarlatani come gli attuali, e i loro servi nei media, invece di dedicare tempo e risorse ai provvedimenti economici indilazionabili pena la catastrofe, cominciano a trastullarsi ancora una volta con la Costituzione, ripromettendosi di farne polpette per ingraziarsi la plebe, la prima operazione igienica necessaria è fermarli e metterli in condizione di non nuocere più. Sostituendo loro, non mutilando la democrazia parlamentare.

Da Critica liberale, n. 192, ottobre 2011

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