Sul tramonto della democrazia
di
Felice Mill Colorni
Quello dell’Italia
berlusconiana è certamente un caso limite, almeno nel perimetro del vecchio
Occidente del dopoguerra (Europa occidentale, Nordamerica, Australia): visto da
lontano, è un caso che appare perfino grottesco, a tratti patetico. Ma la
democrazia liberale gode di salute pessima ovunque. La crisi dell’economia
occidentale sta mettendo a nudo molto più che nel passato recente l’incapacità
delle democrazie di articolare risposte convincenti alle sfide del momento, ma
il processo è in corso da qualche decennio.
Non sembra di vedere
nessun significativo paese in controtendenza. Ovunque, solo paralisi
decisionale, assenza di leadership, populismi dilaganti – più o meno sbracati e
sguaiati secondo le diverse tradizioni nazionali – istituzioni prese in ostaggio
da tutte le corporazioni, elettori infuriati, giovani indignati, nuove speranze
che durano al massimo qualche settimana per spegnersi creando sempre nuove
disillusioni e furori. La democrazia dell’Occidente liberale, le sue
istituzioni, tutta la politica, è investita da un’ondata mondiale di
discredito, di sfiducia, di rigetto.
L’avanguardia di questo
rigetto è costituita proprio da quei paesi che, appena vent’anni fa, ne avevano
salutato la nascita, dopo la caduta del comunismo, come una liberazione attesa
da quarant’anni: oggi l’Ungheria è governata da un regime democraticamente
eletto che ha tutte le caratteristiche di un nuovo fascismo aggiornato e troppo
smaliziato per far uso di brutalità, la Repubblica Ceca ha un presidente nazionalpopulista
meno buzzurro e smodato dei colleghi ungheresi, ma che sembra la controfigura
negativa di Václav Havel. Ma è un segnale ancor più sinistro il trionfo dei
populismi anche nei paesi europei di più solida tradizione democratica. E non
meno minacciosa ci sembra la versione “di sinistra” di questo populismo, non
sempre lontanissima dal riecheggiare temi e argomenti cari alla versione della
destra ruspante, in combinazioni che appaiono cervellotiche e inverosimili ma che
sono purtroppo ben reali.
Per molti di noi, nati
o comunque formatisi dopo la fine della seconda guerra mondiale, la simbiosi di
liberalismo e democrazia era apparsa per decenni come un fatto scontato. La
ricostruzione che poteva sembrare più convincente vedeva in quella simbiosi l’esito
coerente, razionalmente abbastanza “logico” e lineare, di progressivi
allargamenti del suffragio: processo certamente contrastato e combattuto,
tutt’altro che indolore, ma in qualche modo scritto in una qualche recondita virtualità
“progressista” del destino occidentale. Forse si trattava di una delle ultime
ridotte da cui l’idea di progresso non era stata ancora spazzata via dalla sua critica
protonovecentesca.
Era un’idea ingenua e in
fondo molto “americana” della democrazia. In Europa le cose erano state assai
più tormentate. I lunghi capitoli dedicati da Guido de Ruggiero alla
conciliazione, perfino alla conciliabilità, fra liberalismo e democrazia nella
storia dell’Europa contemporanea, che a una prima lettura adolescenziale potevano
sembrare perfino poco comprensibili ai giovani liberali italiani inconsapevolmente
“americanizzati” come molti di noi, si sono fatti molto più chiari, si sono
materializzati sotto i nostri occhi in questo inizio di secolo.
Fino a tutta la prima
metà del Novecento, la parola “democrazia” risuonava ancora, anche (e oltre che
del significato ingentilito di “democrazia liberale”), degli echi niente
affatto univoci che essa aveva avuto nella storia del pensiero politico
occidentale, fin dalle sue origini. “Democrazia” era una parola che risuonava
ancora, per il de Ruggiero degli anni Venti, anche di terrore giacobino, di
“volontà generale” poco interessata a dissensi e minoranze, richiamava alla
mente la democrazia diretta, la democrazia “dei consigli”, capace di tutte le durezze
e di tutte le manipolazioni. Passata la breve stagione sessantottesca, in cui
parecchi nostri coetanei, anche se per lo più ignari delle sue origini,
l’avevano rifatta propria, quell’idea arcaica di democrazia quarant’anni fa ci sembrava
così lontana che anche le critiche e i timori di cui la democrazia era stato
oggetto in un passato recente non sembravano più aver senso: vivevamo nell’epoca
e nella parte del mondo che sembrava avere digerito fino in fondo la confluenza
della democrazia nel parlamentarismo, nel government by discussion
rappresentativo,
nel costituzionalismo dei freni e dei contrappesi. Che senso poteva avere, se
non per studiosi del pensiero antico, interrogarsi sulle critiche di Platone
alla “democrazia”? Che senso poteva avere, se non in una prospettiva storica o
accademica, confrontarsi con Rousseau? Non era mica quella la democrazia in
discussione da noi, occidentali tardo-novecenteschi.
Chi più consapevolmente
e chi meno, coltivavamo tutti un’idea molto più sobria e realistica della
democrazia. Bobbio aveva insegnato a noi liberali progressisti, ma anche a
quella larga parte della sinistra italiana cui era capace di fare scuola, a far
buon uso democratico della teoria delle élites – e con quella, e attraverso
quella e attraverso Sartori e Matteucci, della scienza politica d’Oltreoceano,
quanto e più che della progenitrice italiana di fine Ottocento, quest’ultima del
resto irrimediabilmente filtrata dalla cruda Realpolitik
del Croce dei primi anni Venti. Ci avevano edotti che la democrazia che era utile
e possibile perseguire era quella in cui il demos
ha il potere, ben reale anche se circoscritto, di conferire il kratos e di condizionarlo e arginarlo –
e farsene arginare e condizionare. E Juan Linz, introducendoci a Michels, ci
aveva perfino convinti che la “democrazia in piccolo”, all’interno dei partiti,
non avrebbe comunque mai potuto ambire a emulare davvero la “democrazia in
grande”, ma che questo non significava necessariamente che la democrazia in
grande fosse una menzogna.
Questo era il quadro,
tutto sommato relativamente rassicurante per noi cittadini dell’Occidente,
entro cui ci muovevamo, costellazione dei gruppuscoli rivoluzionisti a parte, più
o meno tutti, chi più chi meno consapevolmente. Un quadro che ci appariva tutto
sommato abbastanza stabile: la divisione dei blocchi sembrava destinata a non
poter essere superata se non per effetto di una guerra, che però, potendo
risolversi soltanto nella distruzione reciproca, dopo la lezione della crisi di
Cuba, non avrebbe potuto verosimilmente scoppiare più, neppure per un azzardo
sconsiderato, ma solo per un errore umano o tecnologico, improbabile anche se
sempre possibile. Intanto, il totalitarismo sovietico era, assieme alle
superstiti dittature fasciste del Mediterraneo e dell’America latina, il
miglior fornitore di senso delle democrazie occidentali, quasi la garanzia che
sarebbero rimaste abbastanza liberali da non rischiare di finire per
assomigliargli.
A vent’anni dalla fine
del Grande Altro sovietico, le democrazie occidentali sembrano enormemente meno
gelose del loro carattere liberale. Ma non pare affatto questa una delle
ragioni principali della disaffezione, ovunque enorme e crescente, dei
cittadini elettori.
Vinta la Grande Contesa
nel 1989, sono venuti progressivamente al pettine nodi che si stavano già
preparando da più di un decennio.
Con il mutare dei
paradigmi economici fino ad allora prevalenti, l’Occidente ha abbandonato, a
partire dalla fine degli anni Settanta, la spinta verso una sempre maggiore
inclusione nei diritti di cittadinanza e verso una sempre maggiore
accessibilità all’esercizio effettivo delle libertà individuali da parte di
ogni cittadino, che aveva cominciato a mettere lentamente in pratica sul
continente europeo buona parte delle riflessioni dei migliori liberali inglesi
dell’età vittoriana: idee e riflessioni fatte largamente proprie, dopo la
Grande Depressione, dall’America rooseveltiana, ormai, dal ’45, leader riconosciuta
del mondo occidentale. Era quella la democrazia del nostro patriottismo europeo
e occidentale. È vero che le grandi burocrazie statali e le classi politiche si
stavano mangiando esse stesse buona parte della ricchezza alla cui
redistribuzione avrebbero dovuto sovraintendere e che sempre più si dedicavano,
soprattutto in paesi come il nostro, a farne uso discrezionale per poterne
lucrare clientele elettorali. Ma la reazione andò ben oltre, travolgendo il
paradigma liberale che era stato largamente condiviso per decenni, sulle due
sponde dell’Atlantico, anche da conservatori e socialdemocratici (sotto tutte
le etichette che gli uni e gli altri si davano nei diversi contesti nazionali).
Il Washington consensus si costruì su
una base diversa da quella su cui la democrazia liberale aveva battuto i due
totalitarismi novecenteschi, e fu su quella diversa base che la democrazia fu
esportata nei paesi che le si aprivano, uscendo dal comunismo in Europa o dalle
dittature militari in America latina.
È questa la miscela che
sembra non funzionare più, che ha probabilmente innescato la Grande Crisi –
crisi non solo economica, ma forse già crisi di civiltà. I cittadini
dell’Occidente sono diventati più esigenti, e, grazie alle tecnologie diffusesi
negli ultimi vent’anni, molto più capaci di far valere le loro esigenze,
proprio quando soddisfarle è diventato sempre più difficile, se non
impossibile. Gli strumenti a disposizione per far sentire la propria voce sono
diventati più potenti, ma sono nelle mani di cittadini elettori che ormai,
anche nei ceti maggiormente privilegiati, sono in media ancor più ignari che
nel passato dei meccanismi della società in cui vivono, delle sue regole
costituzionali e del loro significato, del funzionamento e dei condizionamenti dell’economia
globale, delle vicende storiche che ci hanno portato fin qui, dei tentativi falliti
e degli errori già sperimentati, degli esperimenti già finiti nel passato in
insuccessi o in tragedie. Ne sono per lo più ignari, perché i processi
educativi predisposti dalla politica sono sempre meno adatti a porre i
cittadini nella condizione di esercitare consapevolmente il potere di cui oggi
dispongono, ma anzi tendono sempre più a trascurare la formazione del
cittadino, per privilegiare piuttosto conoscenze ritenute di maggiore
importanza pratica nella futura vita lavorativa individuale – e che invece, quanto
più si tratta di conoscenze tecniche, tanto più finiscono per risultare inutili
e obsolete poco dopo il conseguimento dei relativi titoli di studio. Il
risultato è, per i più acculturati, il trionfo di quella “barbarie dello
specialismo” di cui Ortega y Gasset era sorprendentemente riuscito a
intravedere la nascita già nell’Europa del 1930. Per gli altri, è lo
smarrimento totale, paragonabile a quello degli europei usciti sbigottiti dalla
Grande Guerra, che non riconoscevano più il paesaggio dell’Europa di inizio
secolo, alla deriva nella grande Crisi del ’29, e si rendevano disponibili a
ogni genere di avventure proposte dagli imprenditori politici dell’odio e
dell’intolleranza mascherati da riscatto nazionale.
Eppure nessuna utopia
novecentesca ha patito così profondamente delle dure repliche della storia
quanto quella che voleva la cuoca di Lenin capace di condurre gli affari di
Stato in un futuro di progressiva automazione e semplificazione di tutte le
scelte politiche e sociali. Al contrario, nessuno oggi sembra più possedere il
bandolo della matassa. A cominciare dalle classi politiche democratiche.
Altrove nel mondo, la
globalizzazione ha prodotto uno sviluppo senza precedenti di intere aree del
pianeta che vivevano nel sottosviluppo e nella miseria fino a pochi anni fa. E
ha prodotto, parallelamente, un gigantesco trasferimento di ricchezza e di
potere dal Nord a una parte almeno del Sud del mondo, che nessun piano di
assistenza allo sviluppo avrebbe potuto nemmeno concepire.
La globalizzazione, creando
una forte interdipendenza, ha anche reso pressoché impossibile, almeno nel
futuro prevedibile, lo scoppio di quella terza guerra mondiale nucleare che era
stata una minaccia verosimile per tutta la durata della guerra fredda, almeno
da quando, nel 1949, l’Urss era diventata anch’essa una potenza nucleare. Oggi
non sembra neppure concepibile una guerra nucleare mondiale, come quella
evitata per un soffio al tempo della crisi di Cuba – e di nuovo rischiata da
vicino, neppure più per consapevole azzardo ma per puro errore, almeno in
un’altra occasione nel 1983. L’interdipendenza economica creata dalla libertà
dei commerci costituisce la migliore salvaguardia della pace nel mondo, come la
cultura liberale aveva affermato con forza sin dai tempi in cui Spinoza prima e
poi Voltaire avevano contrapposto alle guerre e alle contese religiose il
carattere virtuoso e cooperativo della borsa di Amsterdam e degli altri grandi mercati
internazionali, considerazioni sviluppate sistematicamente dall’illuminismo
liberale di Kant. Ma oggi la globalizzazione dei mercati e del commercio
internazionale non vale solo ad escludere la guerra fra grandi potenze: pone soprattutto
l’umanità al riparo dal rischio novecentesco, che si era protratto per
quarant’anni, di un annientamento totale per effetto di un possibile conflitto
armato fra grandi potenze nucleari. È sorprendente che nessuno opponga mai
questo ai cittadini elettori, per ridimensionare la diffusa deprecazione dello
spossessamento di autonomia politica che la globalizzazione ha comportato per i
vecchi Stati-nazione.
Al tempo stesso, la
mancanza di regole globali, e di modelli sociali condivisi almeno nelle grandi
linee, ha posto le società occidentali, e soprattutto gli europei occidentali,
nella condizione di dover ridurre il livello di protezione sociale e di vedere
aumentare le disuguaglianze interne, per non dover soccombere nella
competizione globale. Si è salvato solo chi è riuscito a esportare merci ad
alto o altissimo valore aggiunto: ma non è possibile che tutti esportino, e
comunque ciò sarà sempre meno possibile a tutti gli europei e gli occidentali,
man mano che matureranno gli effetti degli enormi investimenti sull’istruzione
in corso già da anni nelle principali economie emergenti. Se la crisi
occidentale è soprattutto una crisi della domanda, non si vede come potrà
essere superata se non si rimetteranno in discussione le regole globalmente
accettate a partire dagli ultimi trent’anni, tornando a praticare politiche
redistributive. Politiche, necessariamente, più efficienti di quelle
ingloriosamente troncate negli anni Settanta, più rispettose della libertà di
iniziativa, e meno ripiegate sugli interessi di burocrazie statali e classi
politiche, per effetto dalla lezione del passato. Ma la globalizzazione economica
si è finora affermata senza un governo dell’economia globale, con un’Europa
inesistente come soggetto politico e quindi priva di ogni influenza sul resto
del mondo, e con l’unica superpotenza emersa dalla fine della guerra fredda
travolta da una crisi economica, e da una crisi da superestensione degli
obblighi imperiali, che si preparava da anni, e che solo il credito facile e
una rivoluzione tecnologica di entità paragonabile alle due rivoluzioni
industriali ha potuto a lungo mascherare e rinviare: una superpotenza di cui
gli otto disastrosi anni della Presidenza di Bush Jr. hanno fatto precipitare il
declino che si stava comunque preparando, tarpato le ali e distrutto, con la
reputazione, il soft power accumulato nel secolo
breve da tutto l’Occidente liberale.
Chi in Occidente potrebbe
essere oggi in grado di proporre nuove regole globali?
Il crollo della qualità
della leadership democratica, ben visibile ovunque nei nostri paesi, e che la
crisi ha messo impietosamente a nudo, non è avvenuto per caso o per
coincidenza. Oggi le qualità richieste per essere eletti a cariche politiche
sono sempre più qualità diverse da quelle necessarie all’esercizio della
leadership democratica.
Il crollo del sistema
che si proponeva come esplicita alternativa di civiltà rispetto alla democrazia
liberale ha fatto credere, contro ogni verosimiglianza e contro ogni evidenza,
e contro la stessa lezione della storia dei paesi occidentali precedente
l’avvento dei totalitarismi novecenteschi, che la contesa democratica anche
all’interno dei nostri paesi non dovesse più vertere davvero su interessi,
principi, programmi e valori contrapposti, e che tanto valesse, quindi,
risolverla in uno scontro fra contrapposte personalità e contrapposti caratteri.
Si è prodotto un rimbambinimento generalizzato della contesa politica e una
riduzione dello scontro politico alla pura e semplice selezione di “capi”, e
sottocapi, cui affidare per un certo periodo la gestione della cosa pubblica.
Una sterminata pubblicistica del più svariato livello ha finito per accreditare
la tesi che questa irruzione di semplificazioni primitive e quasi tribali nei
sistemi politici democratici fosse l’esito obbligato di una modernizzazione che
avrebbe accresciuto l’efficienza decisionale delle democrazie, sfrondandole di
inutili orpelli ottocenteschi.
Il solo nucleo di
verità di questa tesi è che nella società liquida, abitata da individui dalla
personalità sempre più liquida ed evanescente, è divenuto molto più difficile
organizzare le offerte politiche in pacchetti di proposte dall’apparenza
coerente, come quelli che erano prodotti in Europa dai partiti novecenteschi. E
ancor più difficile è diventato organizzare le offerte politiche lungo il
tradizionale continuum destra /
sinistra, che ha segnato per più di due secoli la politica occidentale. I siti
Internet che si offrono di misurare l’orientamento politico dei loro utenti devono
utilizzare almeno due parametri combinati, uno fondato sulle scelte di politica
economica, più o meno dirigiste e solidariste ovvero liberiste e
antistataliste, e l’altro sull’atteggiamento etico-politico, più o meno
tradizionalista-autoritario ovvero liberale-libertario in materia di libertà e
diritti individuali. A questi oggi ne andrebbero forse aggiunti almeno altri
due, uno sull’asse crescita indiscriminata / tutela dell’ambiente, e l’altro
sull’asse cosmopolitismo / etnoregionalismo.
Aggregare le domande
politiche è quindi certamente più difficile di un tempo. Ma le conseguenze
della progressiva riduzione dello scontro politico a scontro di personalità si
sono rivelate ovunque drammatiche. Che cosa significa ridurre la selezione
della classe politica a una questione di carattere e personalità, se non
scivolare inevitabilmente verso campagne elettorali fondate essenzialmente
sulle palate di fango e sul dossieraggio? Se le campagne negative sono sempre
più frequenti, è perché funzionano: non certo per sollevare la politica dal
discredito generalizzato, dato che generano un crescente disprezzo da parte
degli elettori, ma per danneggiare irrimediabilmente le vittime e per far
vincere, magari in modo meno trionfale ma più sicuro, chi se ne avvale (cioè l’avversario,
che sempre più spesso non si palesa neppure come il mandante diretto degli
attacchi diffamatori). Alla fine è al risultato che quasi tutti puntano. E la
tecnica della diffamazione dell’avversario funziona quasi sempre. Ma che cosa comporta
a sua volta questa torsione della contesa politica, se non circoscrivere sempre
più la competizione a candidati tutti relativamente poco interessati alla
propria reputazione? E a sua volta, a che cosa conduce questa selezione
preliminare, se non a un discredito ulteriore, a un disprezzo sempre più
diffuso, pervasivo e generale, nei confronti della politica democratica?
Così la moneta cattiva
scaccia quella buona. La qualità media, intellettuale ed etica, della classe
politica, scende e si deteriora di elezione in elezione. Almeno dalla rovinosa
caduta di Gary Hart
per una banale questione privata (1988), poter vantare una vita sessuale non
movimentata è diventato un requisito più importante delle idee, delle proposte,
dei progetti, della capacità di leadership. Kennedy e Eisenhower, Cavour e
Mitterrand, Mirabeau e Jefferson, Garibaldi e Brandt avrebbero oggi tutti buone
probabilità di essere scartati prima di cominciare, secondo i criteri ormai invalsi,
per far posto a candidati molto più modesti e molto più a modino.
Nelle contese che si
giocano solo fra personalità, condotte a colpi di attacchi contro la moralità
personale dell’avversario – che si tratti di moralità pubblica o di moralità
privata – a vincere non è nemmeno il più rispettabile, ma chi riesce a
schierare la maggiore potenza di fuoco mediatico e a fare il miglior uso della
comunicazione pubblicitaria. Prendiamo il caso italiano – caso limite, certo,
ma proprio per questo illuminante. Si ha un bel dire che le campagne negative
finiscono per danneggiare tutti e per screditare la democrazia. Ma se è
essenzialmente sulla personalità e sul carattere del candidato “capo” che verte
la contesa elettorale – perché scegliere la “persona”, si dice, sarebbe molto
più moderno che scegliere politicamente – che cosa si dovrebbe fare, avendo
ormai da diciotto anni di fronte come avversario un tale che si è avvalso della
facoltà di non rispondere in un processo di mafia, che, potendolo rifiutare, si
lascia prosciogliere per mera prescrizione da imputazioni gravissime e
infamanti (e se ne può pure vantare impunemente, grazie alla potenza di fuoco
mediatica che gli consente di equivocare fra prescrizione e assoluzione presso
la grande maggioranza del pubblico ignaro); un tale i cui due principali amici
e collaboratori politici e professionali sono condannati l’uno, con sentenza
definitiva, per avere corrotto dei giudici in suo esclusivo favore e interesse,
l’altro, già in primo e in secondo grado, per concorso esterno in associazione
mafiosa? Far finta di niente? Non si può. O meglio, non si può ancora, almeno
per ora, nei paesi civili, e non si dovrebbe potere neppure in Italia. Ma in
genere in Italia si fa proprio così: si fa finta di niente e si sceglie di
legittimare un tale avversario, lo si tratta come uno di cui non si condividono
le rispettabili opinioni. Perché, se non si fa finta di niente, si viene
sottoposti al “trattamento Boffo”, invocato perfino pubblicamente, testualmente
e senza il minimo imbarazzo da qualche parlamentare berlusconiano – che neppure
dopo aver detto questo viene considerato infrequentabile – per tacitare qualche
voce critica appena meno ossequiosa delle altre.
Che cosa ne ricava il
cittadino elettore? Come fa a capire chi è che dice la verità e chi mente? La
triste realtà è che, il più delle volte, farà fiducia al candidato e allo
schieramento più vicino ai propri pre-giudizi e alle proprie pre-comprensioni,
alle affinità antropologiche più che culturali suggerite dalle campagne
pubblicitarie dell’uno e dell’altro, e su quella base voterà. Almeno fino a
quando la massa degli indizi a carico del candidato prediletto, o comunque
considerato meno inattendibile degli oppositori, non si sarà fatta così
imponente da imporre un ripensamento. O forse neppure allora, ma solo quando
una crisi economica internazionale si abbatterà direttamente anche sul capo di
quell’elettore, impedendogli di continuare a difendere il Big
Brother che ha eletto, e spingendolo piuttosto a cominciare
a interrogarsi sulle sue eventuali corresponsabilità. Ma gli ci vorrà una
fatica tremenda a riconoscere davanti a se stesso di avere votato per diciotto
anni della sua vita per uno che, per usare un eufemismo, da diciotto anni lo
stava prendendo allegramente per i fondelli.
Ma qui si capisce che
siamo slittati dalla contesa propriamente politica, e da decidere sulla base di
argomentazioni politiche, a qualcosa che ha molto più a che fare con la
psicologia sociale, e, più ancora che con la psicologia sociale di base, con le
sue applicazioni al campo della persuasione pubblicitaria.
È andata così a farsi
friggere un’altra delle utopie della politica contemporanea (contemporanea in
senso accademico: cioè quella degli ultimi due secoli). È andato a farsi
friggere l’ideale del cittadino a tempo pieno, o almeno del cittadino capace di
dedicare alla politica un’attenzione costante, e quindi una fetta consistente
del proprio tempo. Informarsi richiede una cultura politica di base, e costa,
costa tempo, impegno, sforzo, e in definitiva anche denaro. Fuori dai momenti e
dai giorni di grande eccitazione per eventi straordinari, i bravi cittadini
delle nostre democrazie gettano sulla politica niente più che un’occhiata
distratta, un’attenzione intermittente, che al massimo porta la minoranza che
si informa, su carta o su schermo non importa, a scorrere superficialmente i
titoli delle notizie di un’informazione che poi è quella che è. Per il resto,
quando c’è spazio per un resto, giornalisti e intrattenitori zelanti lo
riempiono di infotainment. E qui si ricerca
soprattutto la vivacità, cioè la rissa, una rissa in cui ha la meglio chi urla
meglio e la spara più grossa. Un pubblico poco informato, quasi tutto privo di
una qualunque cultura politica, viziato da un sistema “informativo” che gli fa
credere di sapere tutto quel che serve per potersi orientare, non può che
essere preda del “buon senso” sprovveduto, cioè di un contesto cognitivo in cui
non c’è spazio per nessuna realtà o verità controintuitiva. Per il dibattito
politico contemporaneo “è evidente” che il sole gira intorno alla terra: lo
possono vedere tutti. Solo a qualche intellettualino un po’ sfigato e
antipatico, che pensa di saperla più lunga degli altri, può venire in mente di
sostenere il contrario. A prevalere sarà sempre non chi “parla come mangia”,
perché dopo tutto i nostri concittadini per lo più non si nutrono sbranando
cinghiali vivi, ma certamente chi “le canta chiare”, cioè chi strepita banalità
condivise. Una replica che richieda sforzo e attenzione spinge i più a cambiare
canale, in cerca di qualcosa di più rilassante. E anche così la moneta cattiva
scaccia quella buona.
Ma come può
sopravvivere una democrazia liberale, se non esiste più alcun establishment capace di fare da filtro
fra progetti politici sensati e sciocchezze sparate per consentire a una
consorteria di avventurieri di impadronirsi della cosa pubblica e per compiacere
non già cittadini in grado di capirci qualcosa, ma un pubblico che al massimo è
disposto ad assistere a uno spettacolo, purché non sia noioso? Non sopravvive,
infatti. Si trasforma in democrazia plebiscitaria. E i cittadini si trasformano
in plebe. Come confessava candidamente il grande Max, una leadership
carismatica richiede la “proletarizzazione spirituale” dei cittadini-seguaci,
preludio, si direbbe stando alla cronaca di queste settimane, alla
proletarizzazione anche materiale.
Non c’è da stupirsi
che, una volta imboccata la strada della personalizzazione totale o quasi della
politica, vada a finire così. Se perfino i risultati conseguiti da chi si
dedica professionalmente alla selezione del personale nelle aziende sono spesso
scadenti, quali criteri e quali caratteristiche personali la generalità degli
elettori è in grado di selezionare nei candidati a cariche politiche di
rilievo? La risposta, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti: classi politiche
occidentali tutte di qualità progressivamente decrescente, proprio quando la
gravità delle sfide richiederebbe leader particolarmente capaci di scelte
lungimiranti. C’è qualcuno convinto che i dirigenti politici occidentali siano
oggi, mediamente, di qualità migliore di quelli di trenta o sessant’anni fa,
quando la selezione delle classi politiche passava attraverso le
deprecabilissime e burocratizzate strutture dei partiti?
Il problema non è
dimenticarsi delle critiche, che abbiamo assimilato da più di un secolo, sui
limiti della “democrazia dei partiti”. Il punto è chiedersi se, per
sbarazzarcene, non siamo andati a cercare qualcosa di molto peggio e di molto
più pericoloso e inefficiente: in Europa e soprattutto in Italia, dove il
processo è molto più spinto che altrove, e dove infatti si è prodotta la
peggior classe politica e la peggior leadership di governo in Europa dalla fine
della seconda guerra mondiale ad oggi.
Soprattutto fra i più
giovani, che hanno conosciuto nella loro vita adulta quasi soltanto questo tipo
di lotta politica, quasi del tutto svincolata dalle culture politiche e
largamente assorbita da scontri di personalità, i pochi ancora disposti a
dedicarsi all’attività politica sembrano dividersi in due ben distinguibili
categorie: una minoritaria, di persone ancora capaci di appassionarsi alla
politica e spesso nettamente più colte della media, e una, purtroppo
apparentemente maggioritaria, di sprovveduti che vedono nella politica
l’opportunità di dedicarsi a una carriera che promette lauti guadagli illegali
e che non richiede alcuna qualificazione specifica. Il “ricambio generazionale”
da tante parti auspicato nell’Italia di questi anni come la sola possibile
panacea, se non come una palingenesi, avrà probabilmente effetti simili,
piuttosto, all’ultimo ricambio generazionale che abbiamo sperimentato in ordine
di tempo: quello del 1994.
Molti degli europei –
e, ancora, come sempre, soprattutto degli italiani, e dei giornalisti italiani
– che hanno oggi fra i cinquanta e i settant’anni sembrano invece nutrire
grandi speranze nella novità comparsa negli ultimissimi mesi: i giovani
“indignati” capaci di grandi mobilitazioni di massa grazie all’uso di Internet.
È bene, certo, che il
paziente urli i suoi sintomi, perché altrimenti, come è evidente da almeno
vent’anni per quel che riguarda il welfare giovanile, il paziente non se lo
fila nessuno, tanto meno la politica. Ma urlare i sintomi non ha nulla a che
fare con la terapia, e nemmeno con la diagnosi. E purtroppo, al di là
dell’indubbia efficacia dell’uso della tecnologia, la capacità di elaborazione
di nuove proposte ci sembra finora prossima allo zero. Oppure ripercorre, e senza
nessuna consapevolezza di starlo ripercorrendo, lo stesso sogno regressivo dei
loro coetanei di quarant’anni fa e più: una qualche forma di “democrazia
diretta”, che oggi le tecnologie renderebbero certamente tecnicamente più
praticabile, ma dai prevedibili esiti non meno totalitari di ogni passato
tentativo di dar vita a forme di democrazia “consiliare” o “assembleare”,
asseritamente più avanzate della democrazia rappresentativa. Tutte le proposte
sull’introduzione di forme di “mandato imperativo”, non solo denunciano la
totale ignoranza dei dibattiti del passato su questi argomenti, ma, non a caso,
sono in perfetta sintonia con le estemporanee pensate del Berlusconi di qualche
anno fa, che pensava di risolvere i problemi azzerando il Parlamento.
Perché i nostri giovani
concittadini sembrano la versione, appena un po’ più fantasiosa nelle forme,
dello stesso genere letterario che si sta affermando in questi mesi nella
pubblicistica politica degli adulti, soprattutto in Italia: paese ancora e
sempre condannato a fare da battistrada a ogni genere di avventura populista.
Il mandato imperativo serve
a rendere impossibile il government by discussion,
a rendere tutte le domande “non negoziabili”, fino alla “stasi” – nel suo
significato greco di guerra civile. Il suo presupposto è il candore della
società – della “nostra” società, naturalmente, l’unica degna del nome: si
tratti delle partite Iva, della classe operaia, dei “lumbard” o dei giovani – contrapposto
al Parlamento, dove «siede negra Politica reina»: di nuovo, come ai tempi di
Foscolo, ritorna la puerile concezione negativa della politica in generale, e
del conflitto politico fra parti contrapposte in particolare, che lo stesso de
Ruggiero ricordato all’inizio considerava segno dell’immaturità della
riflessione politica italiana alla fine del Settecento.
E, in attesa della
catarsi – o della catastrofe – l’esito prevedibile delle multiformi
manifestazioni di indignazione telematica giovanile sarà un rafforzamento dei
movimenti populisti alla Grillo o un aumento dell’astensione. L’uno e l’altro a
vantaggio dei peggiori, in Italia come in Spagna, come altrove.
Anche le polemiche italiane
sulla “casta” – sacrosante, è ovvio, quando riguardano i tanti casi di
saccheggio e di illecito, e anche i micragnosi privilegi feudali e le
grottesche manifestazioni di avidità e di boriosa esibizione di arroganza di
cui danno prova così tanti esponenti della politica italiana – tendono
inavvertitamente a slittare verso una messa in discussione della democrazia, considerata
un “costo”, a richiederne da più e diverse parti, come novant’anni fa, un
restringimento. Torneremo su questo in un prossimo numero, perché la materia è
grave, delicata, e si presta a fraintendimenti ed equivoci. Ma, sempre più, e
sempre più inavvertitamente, più che i privilegi, e molto più che i delitti dei
singoli o la diffusa inclinazione a delinquere dei molti, a essere attaccata in
questi mesi, dopo diciotto anni di logoramento e di svuotamento sistematici, è proprio
la democrazia. La democrazia liberale, perché a essere messa in discussione non
è la democrazia plebiscitaria, non è la democrazia assolutistica, ma proprio la
democrazia liberale: la sola che, con tutti i noti limiti, potrebbe ancora azzardare
qualche risposta razionale alle sfide del presente europeo e globale; la sola
ad essere ancora, nonostante tutto, la peggior forma di governo escluse tutte
le altre.
Almeno secondo noi. Ma
quando un’intera civiltà declina e non trova più in se stessa le risorse per
rispondere alle sfide che ha di fronte, in genere comincia a disfarsi proprio
di quel che ancora ha di meglio. E quel che vi è di più importante e di più
fragile nella vita delle democrazie è, oggi come novant’anni fa, il Parlamento,
con i suoi rituali necessariamente lenti, freno non solo alla speditezza delle
decisioni, ma anche ai peggiori soprusi dei governanti. Ragion di più per
considerare intollerabili le smodatezze e i delitti di molti indegni
“rappresentanti della nazione”. Ma non per indulgere a una nuova ondata di
reazione antiparlamentare.
Anche perché, se l’avversario
di vent’anni fa prometteva visibilmente solo dispotismo e miseria
generalizzata, la proposta alternativa alla democrazia liberale che ha oggi di
fronte il mondo globale non appare più minacciosa. È quella, essa sì capace di
“vista lunga”, dell’“armonia”, della prosperità senza libertà, accreditata da
una cultura millenaria e un tempo lontana, rinvigorita e ringiovanita dal
capitalismo globale.
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