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Le “lezioni” di Einaudi e le sfide dell’Europa

di Felice Mill Colorni

Nella lettera inviata a Reset pensando alle sfide del presente, il Presidente della Repubblica ha proposto una rilettura del contributo liberale, e in particolare di quello del suo predecessore Luigi Einaudi, alla ricostruzione della democrazia costituzionale nell’immediato dopoguerra, alla nascita dei processi di integrazione dell’Europa occidentale e al rapporto che si instaurò fra questi due elementi fondativi della nostra storia repubblicana.

Si chiede Napolitano «come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia repubblicana». La risposta non è difficile: la «sinistra legata al mondo del lavoro», in quegli anni, era tutt’altro che convintamente “riformista”. Quella stessa parola aveva allora un significato pregnante, che oggi ha perso quasi del tutto, proprio perché all’epoca non era usata a vanvera, per indicare cumulativamente cambiamenti di qualunque segno o valore, ma stava a indicare quella parte della sinistra che rifiutava esplicitamente per sé la qualifica di “rivoluzionaria”. Anche questo termine era destinato ad assumere nel corso dei successivi decenni un significato sempre più stemperato e sempre meno univoco, ma all’epoca della Costituente la maggior parte della sinistra «legata al mondo del lavoro» era rappresentata da una classe politica che o si rifaceva esplicitamente all’esempio dell’Ottobre sovietico o non intendeva comunque combattere apertamente quel tipo di “socialismo” (come il Pietro Nenni dell’epoca, che accettava – per restituirlo intatto pochi anni più tardi – il premio Stalin).

La sinistra era stata riformista anche in Italia, e altrettanto legata, nel suo nascente movimento socialista, al liberalismo progressista (lo stesso che così a lungo l’avrebbe ancora rappresentata in Inghilterra), solo ai tempi del “Patto di Roma”, il “programma della Democrazia italiana” approvato dal Congresso Democratico del 1890, convocato da Felice Cavallotti con la partecipazione di radicali, socialisti e repubblicani; ma poi la «sinistra legata al mondo del lavoro» se ne era distaccata, sulla base di una piattaforma fortemente economicista e incentrata sul protagonismo sociale della classe operaia. Massimalisti (più a parole che altro, si dirà, ma è il destino di tutti i massimalismi) e comunisti sopravvissero molto meglio dei socialisti riformisti alla nazionalizzazione delle masse operata dall’interventismo prima, dalla Grande Guerra, dal biennio rosso e dall’avvento del fascismo poi, per ricomparire infine decisamente egemoni nella sinistra alla fine della seconda guerra mondiale e della Resistenza.

Quella sinistra, come abbiamo cercato di argomentare tempo fa su Critica (n. 177-178), se si accordò con i democristiani per una costituzione politica garantista e sostanzialmente liberale, lo fece per una sana, quanto ben fondata, mutua diffidenza, che la spinse, e spinse i democristiani, ad accordarsi per stabilire forti garanzie reciproche contro il rischio di nuove avventure autoritarie, e per costruire un ordine costituzionale antitotalitario che fosse per quanto possibile l’opposto di quel che era stata la dittatura fascista.

Come riconosce Napolitano citando Guido Carli, la costituzione economica per lo più prefigurata dalle culture politiche all’epoca dominanti era invece basata su un sostanziale «disconoscimento del mercato», o almeno su una forte diffidenza per un alto grado di libertà di iniziativa economica e su un’altrettanto grande fiducia nel ruolo direttivo della politica (cioè, alla fine, del ceto politico, ma di questa ineluttabile conseguenza la cultura dell’epoca era ben poco preoccupata e avvertita, e lo sarebbe rimasta ancora molto a lungo). Lo si legge ancor oggi in molte formule costituzionali, per gran parte, peraltro, prive di immediata efficacia o di immediate conseguenze normative.

Nota però, ancora con Carli, Napolitano, che «tra il 1946 e il 1947, “De Gasperi ed Einaudi avevano costruito in pochi mesi una sorta di ‘Costituzione economica’ che avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente”. Si trattò di una strategia “nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo”, mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di “Stato minimo”, e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali». Così, «l’azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell’autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea».

Oltre che effetto delle scelte generali di politica internazionale, a consolidare quella strategia fu la scelta europea, a partire dai trattati di Roma,  con cui «vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei “Rapporti economici” nella Costituzione repubblicana».

Se quella stagione italiana ed europea poté avvalersi di decisori politici di vertice complessivamente di alta levatura intellettuale e politica, probabilmente Napolitano dà un giudizio eccessivamente indulgente sui successori che dovettero fare i conti con le nuove sfide poste dopo il 1989 dalla fine dell’equilibrio bipolare, e che risposero con quel trattato di Maastricht che, se fu coraggioso nella scelta della moneta unica, pose però anche le premesse per l’attuale paralisi, con l’accantonamento del metodo comunitario (e della prospettiva federale) a favore di un ripiegamento autolesionista verso una governance interstatale, inevitabilmente inefficace e inadeguata, della nuova Europa in via di allargamento molto più che di approfondimento.

È invece purtroppo ben fondato il giudizio negativo sulle classi dirigenti europee di oggi, di fronte al «terzo appuntamento con la storia», quello posto dalla globalizzazione e dalla crisi economica internazionale.

Sembra purtroppo un po’ tardi perché il Pd italiano – è questo, alla fine, il vero convitato di pietra dell’intervento presidenziale – si possa emendare dei «dogmatismi e schematismi che ebbero il sopravvento su ispirazioni di cultura liberale» ai tempi di Einaudi (e ancora ben presenti nelle due componenti ideologiche sopravvissute al naufragio che da sole controllano oggi il Pd): perché possa superare la «sordità» allora dimostrata e riprendere il filo di un discorso interrotto.

Ma è importante che il Presidente abbia indicato nell’Einaudi delle “Lezioni di politica sociale” una pietra miliare da riscoprire nella difficile ricostruzione di un equilibrio «tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato» e quel che può e deve essere preservato del modello sociale europeo.

 Da Gli Stati Uniti d’Europa, n. 27, gennaio 2012

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