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Garanzie e legge elettorale

di Felice Mill Colorni

Se l’Italia del dopoguerra è stata, bene o male (e sia pure più male che bene), una democrazia liberale, non lo si è dovuto certo al prevalente orientamento liberale e democratico delle forze politiche rappresentate nell’Assemblea costituente. Lo si è dovuto in maggiore misura a tre fattori abbastanza contingenti.

 

Innanzitutto alla volontà di capovolgere i principi autoritari su cui si era fondata la dittatura fascista che aveva sovvertito e ucciso in fasce la nascente democrazia di massa. I partiti maggiori del 1946, per forza di cose, non disponevano di una cultura costituzionale molto aggiornata, anche se un’intensa attività pubblicistica e di studio, anche fortemente comparatistica, svolse in quei mesi il ruolo di un corso accelerato e intensivo di apprendistato collettivo. Tanto meno le principali culture politiche dei partiti di massa, quella cattolica preconciliare, quella socialista ancora largamente massimalista, e quella comunista, li avrebbero condotti spontaneamente verso approdi liberali o democratici. Ma buona parte dei costituenti aveva vissuto sulla propria pelle, molto più intensamente della generalità degli italiani, le conseguenze della dittatura ed era decisa a non consentire che quell’esperienza potesse ripetersi, tanto più che sapeva di non poter fare troppo affidamento su gran parte dell’apparato dello Stato che, nei suoi quadri dirigenti, intermedi e di base si era formato al riparo di qualunque barlume di cultura politica democratica. Se l’orizzonte del liberalismo era largamente estraneo a buona parte di quella classe politica, molti dei suoi componenti sapevano però molto bene, per averlo sperimentato di persona, che cosa significasse il venir meno della libertà personale, della libertà di espressione, della libertà di stampa, della libertà di organizzazione politica.

 

Un altro elemento determinante fu una ben giustificata diffidenza reciproca. Non vi era solo il pericolo di colpi di coda da parte dei fascisti, sulla cui definitiva scomparsa politica era difficile scommettere in quei mesi. A quell’epoca tutti i democratici avevano ottime ragioni anche per temere possibili colpi di mano da parte di un Pci ancora pienamente stalinista, che, nonostante la “doppiezza” togliattiana, sosteneva apertamente e plaudiva alla progressiva instaurazione con la violenza di regimi dittatoriali nei paesi satelliti dell’Urss. E d’altra parte i liberali, i democratici e l’intera sinistra avevano anche buone ragioni per poter temere avventure autoritarie non solo da parte dei nostalgici espliciti del fascismo, ma anche di possibili coalizioni molto più ampie, che avrebbero potuto vedere nell’instaurazione di un ordine non democratico un male minore rispetto all’eventualità anche remota di un possibile colpo di mano comunista. Quanto tutti quei timori potessero essere fondati lo hanno dimostrato, dopo la fine della guerra fredda e il crollo dell’Urss, le rivelazioni sulla guerra civile italiana virtuale che per decenni avrebbe potuto divenire reale da un momento all’altro, sulla “gladio” e sulla “gladio rossa”, e anche la storia della “strategia della tensione”, che si potrà davvero scrivere solo quando tutti gli archivi saranno accessibili, probabilmente solo fra qualche decennio. Un patto costituzionale reciproco, che garantisse a tutti, anche ai non democratici, piena integrazione nella vita civile del dopoguerra e che fondasse almeno un accordo di non aggressione e una garanzia contro una nuova guerra civile, era nell’interesse di tutti.

 

Infine, il terzo elemento decisivo per dare all’Italia istituzioni democratiche e liberali, fu la situazione internazionale che venne consolidandosi proprio durante i due anni di lavoro dell’Assemblea costituente. L’Italia era parte riconosciuta del blocco occidentale e, se voleva evitare la sorte della Grecia devastata dalla guerra civile, la sinistra comunista e filocomunista non aveva altra via che quella della lunga marcia attraverso le istituzioni. Una lunga marcia che, alla fine, più che mutare la natura delle istituzioni costituzionali, avrebbe cambiato in meglio la sinistra italiana, definitivamente dopo il ’56 per quel che riguarda i socialisti, e già fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta per quel che riguarda il Pci (non senza residue ambiguità estintesi solo con il definitivo seppellimento dell’esperienza comunista).

 

Senza questi tre fattori, è improbabile che avremmo avuto, bene o male, una democrazia costituzionale liberale. I cattolici avrebbero preferito uno Stato corporativo alla Fanfani, i comunisti una democrazia “progressiva”, in progressiva trasformazione verso una “democrazia popolare”, i socialisti nenniani qualche fumisteria più avventurosa di quelle, teorizzate ancora intorno al ’68 dai loro cugini francesi, appena un po’ più sobri, che non disdegnavano di disquisire della “conquista dei poteri” non solo per la via costituzionale ortodossa.

 

In particolare, l’idea liberale della divisione dei poteri, dei freni e contrappesi come limite vitale di tutti i poteri, compreso il potere sovrano del popolo, sarebbe stata probabilmente un’idea largamente estranea a buona parte di quella classe politica senza il benefico influsso coercitivo di quei tre fattori contingenti: estranea quanto lo è oggi al berlusconismo. Fino ad allora, e in particolare nella teorizzazione dei comunisti, si trattava all’opposto di costruire un sistema «che non ponga barriere alla manifestazione e al trionfo della sovranità popolare». Sembra proprio di ascoltare Berlusconi. Scomparsa la corona, scriveva Togliatti, «non abbiamo più nulla da bilanciare e da equilibrare in Italia». Se l’indipendenza della magistratura ordinaria non veniva messa in discussione in conseguenza dell’esperienza fascista, non così il controllo sulla costituzionalità delle leggi, cardine delle garanzie costituzionali liberali: non solo i comunisti, ma lo stesso Nenni era reciso: «Sulla costituzionalità delle leggi non può deliberare che l’Assemblea nazionale, il Parlamento non potendo accettare altro controllo che quello del popolo»; giudici costituzionali non eletti dal popolo «non hanno diritto a giudicare gli atti del Parlamento».

 

Fu dunque soprattutto grazie a contingenze esterne e occasionali se il liberalismo costituzionale, che non ne era stato il punto di partenza, fu il punto di arrivo del compromesso costituente.

 

Con queste premesse c’è poco da stupirsi che lo svolgimento sia stato spesso al di sotto delle aspettative dei liberali italiani più ottimisti ed esigenti. C’è semmai da rallegrarsi che le cose non siano andate molto peggio.

 

La catastrofe non solo della vita civile e dell’etica pubblica, l’imbarbarimento dei costumi politici, l’azzeramento di una cultura costituzionale così faticosamente conquistata negli ultimi sessant’anni, provocati specialmente nell’ultimo quindicennio dal trionfo della ciarlataneria populista di una destra extraeuropea, rischiano ora di farci tornare al punto di partenza. In sessant’anni, evidentemente, la Repubblica non è stata capace di dotarsi di un establishment degno del nome. La cultura politica liberale è stata assimilata solo da una parte minoritaria e largamente ininfluente della classe dirigente italiana, non solo di quella politica.

 

Sono venuti meno i potenti e provvidenziali condizionamenti esterni di cui si è detto. Almeno nella loro forma feroce e orgogliosamente autoritaria, sono scomparse le minacce totalitarie novecentesche del fascismo e del comunismo. Sono conseguentemente anche venuti largamente meno gli interessi internazionali a limitare le scelte di campo dell’Italia anche nell’ambito della politica interna e costituzionale. Soprattutto, all’interno della classe politica, sessant’anni di democrazia consociativa, di legittimazioni reciproche sempre più indulgenti e reciprocamente omertose, di “bipartitismo imperfetto”, di larghe intese e di solidarietà nazionali, di più prosaiche e ancor più efficaci spartizioni consensuali delle risorse pubbliche, hanno fatto venir meno quella salutare diffidenza reciproca che aveva finito per rendere tutte le forze politiche consapevoli delle ragioni e della necessità della limitazione costituzionale dei poteri, creando garanzie giuridiche non sempre precarie, a tutela non solo dei settori volta a volta minoritari del ceto politico, ma soprattutto delle libertà liberali di tutti i cittadini.

 

Per fortuna, a fare da argine esterno all’analfabetismo civile prevalente nel ceto politico e nella classe dirigente, vi è oggi un elemento, uno solo ma abbastanza robusto, che non esisteva ancora all’epoca della Costituente: il vincolo europeo, orizzonte ideale dei liberali italiani fin dal tempo del Risorgimento e non a caso oggetto principale degli strali della ciarlataneria populista.

 

È comunque su questo sfondo, tanto preoccupante per le sorti della democrazia liberale quanto persino inavvertito come problematico da gran parte della società civile e dell’establishment, che si sono esercitati nella vivisezione costituzionale i politicanti prevalentemente espressi dall’attuale stagione politica: apprendisti stregoni, piccoli chimici, confezionatori di “porcate”, per lo più incapaci perfino di capire che cosa stessero facendo.

 

Come “Critica liberale” ha più volte ricordato in questi anni, e come opportunamente hanno ribadito Rino Formica ed Emanuele Macaluso in un appello ai Presidenti della Repubblica e delle Camere pubblicato dal “Corriere della Sera” lo scorso 8 settembre, tutti i quorum di garanzia previsti dalla Costituzione vigente furono stabiliti sulla base del presupposto tacito, ma all’epoca universalmente dato per scontato, che le leggi elettorali per la formazione della Camera e del Senato sarebbero state proporzionali: i quorum previsti per la modifica della Costituzione, per quelle dei regolamenti parlamentari, per l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali di nomina parlamentare e, aggiungiamo noi, dei membri laici del Csm. Invece, dopo l’abbandono della proporzionale con il referendum del 1993, i quorum sono rimasti inalterati e si sono così fortemente indebolite le garanzie costituzionali e la rigidità stessa della Costituzione, senza che neppure se ne sia mai seriamente dibattuto, e proprio in contemporanea con l’irrompere della demagogia populista più irresponsabile come protagonista principale della politica italiana. Di qui l’appello di Formica e Macaluso: prima dell’eventuale scioglimento delle Camere, si ponga all’ordine del giorno del Parlamento «o una modifica in senso proporzionalista della legge elettorale, o una modifica dei quorum di garanzia costituzionale».

 

Ci associamo con la massima convinzione a questo appello, ma ci sembra perfino ottimistica la spiegazione del mancato adeguamento da parte dei due firmatari dell’appello, secondo i quali sarebbe «prevalsa la convinzione che l’attenuarsi delle garanzie costituzionali può essere giocata come arma politica da una parte politica contro l’altra». Purtroppo, il senso comune acquisito, la comune convinzione della larga maggioranza della classe politica italiana è semplicemente che le garanzie costituzionali siano irrilevanti, inutili impicci fra i piedi dei “decisori”, roba da parrucconi ottocenteschi incapaci di cogliere la vera natura ferina e sostanziale della politica: esattamente le stesse convinzioni dei fascisti, dei comunisti e di tanti ingenui Realpolitiker del Novecento, ingenui quanto finiscono sempre per esserlo – chi scrive lo dice da realista convinto – gli estremisti del realismo politico. In un mondo che va sempre più giuridicizzandosi, i politici italiani di entrambi gli schieramenti si credono astutissimi e modernissimi perché, proprio come il Pci nel corso di tutta la sua storia comunista, sono nuovamente arrivati alla conclusione che la garanzia reale costituita dall’avere “le mani in pasta” sia migliore, per loro e per il paese, di ogni garanzia di carattere giuridico e formale. I vecchi comunisti giustificavano quella convinzione con il ritenersi rappresentanti della classe destinata a “farsi Stato” senza residui e senza più fisime borghesi; oggi politicanti di destra e di sinistra si credono semplicemente padroni delle istituzioni in nome di una “sovranità popolare” che, esattamente come i socialcomunisti del ’48, ritengono debba potersi dispiegare senza freni e contrappesi e che stia a loro soltanto di interpretare senza intralci.

 

Purtroppo, questa deriva verso l’attenuazione delle garanzie costituzionali viene da lontano. Per ricercarne i precedenti si deve risalire almeno al 1967, quando una sconsiderata riforma “tecnica” soppresse la prorogatio in carica dei giudici costituzionali fino all’elezione dei successori, che impediva la possibilità per la politica di provocare la paralisi del controllo di costituzionalità; e al 1970, quando una legge di attuazione del referendum abrogativo, ritardata da più di vent’anni e approvata con il solo scopo di consentire alla Chiesa cattolica di richiedere un referendum sulla legge sul divorzio come condizione per l’approvazione successiva di quest’ultima, regolamentando anche il referendum costituzionale, rese per la prima volta possibili modifiche della Costituzione approvate con la sola maggioranza assoluta dei membri delle Camere, salva l’eventualità di un referendum, il cui esito però dipende com’è ovvio più dal clima politico che da contenuti inevitabilmente ostici ai più.

 

Così, solo grazie a una momentanea saturazione per la ciarlataneria populista di una non enorme maggioranza di nostri concittadini, non abbiamo oggi una costituzione da repubblica delle banane come quella sconfitta nel referendum costituzionale del 2005.

 

Fosse per noi, dato che si dice che il nostro è ormai uno Stato federale, saremmo ben lieti che venisse adeguato a tale modello anche il procedimento di revisione costituzionale. Come negli Usa: maggioranza necessaria dei due terzi dei componenti sia della Camera che del Senato, e approvazione necessaria, sempre a maggioranza dei due terzi, da parte dei tre quarti dei Consigli regionali.

 

Una classe politica minimamente avvertita delle implicazioni costituzionali della materia non dovrebbe comunque mai mettere le mani sulle leggi elettorali senza considerarne le conseguenze anche sulla Costituzione e sulla garanzia delle libertà liberali. Invece si persevera.

 

Già nel 1993, se lo scopo fosse stato soltanto quello di operare una semplificazione del sistema politico, sarebbe stato sufficiente, a legge vigente, diminuire l’estensione territoriale delle circoscrizioni e dei collegi. Si volle invece rispondere alla volontà di palingenesi nata dalle inchieste di “mani pulite” e dall’ira causata dalla scoperta dell’estensione della corruzione politica.

 

In realtà venivano anche all’incasso anni di discussioni spericolate sull’opportunità di superare la sclerotizzazione della politica italiana attraverso l’introduzione di elementi di democrazia plebiscitaria. Discussioni anche di alto e rispettabile livello, in una stagione in cui la politica italiana riteneva ancora opportuno ragionare sui classici anziché confezionare “porcate”; anche se la riproposizione delle riflessioni di Max Weber nella Germania del primo dopoguerra veniva spesso presentata in forma edulcorata e ne venivano sapientemente occultate le ragioni e le motivazioni storiche più inquietanti.

 

Oggi la politica italiana si trova di fronte a una legge elettorale vergognosamente imposta a colpi di maggioranza da una maggioranza che l’ha scritta a sua propria misura e nel suo proprio ed esclusivo interesse di bottega, e definita dal suo stesso autore, consapevole dell’impunità offerta da un’opinione pubblica e da un paese la cui già carente civiltà politica è stata annichilita da un quindicennio di ciarlataneria imperante, una “porcata” di cui andare orgogliosi. Caso, anche questo, assolutamente unico al mondo, ma neppure questo capace di far sollevare una società civile ormai in agonia.

 

Affrontare probabili elezioni anticipate con questa legge elettorale truffaldina significa verosimilmente consegnare alla ciarlataneria imperante non solo un’altra legislatura di disastri e di vergogna, ma al suo capo anche la Presidenza della Repubblica, e con essa la nomina di cinque giudici costituzionali – ennesimo prevedibile e massimo fringe benefit per gli avvocati che gli hanno permesso fin qui di farla franca grazie a prescrizioni a raffica per delitti infamanti, cui nessun politicante occidentale sarebbe mai potuto sopravvivere. A quel punto, nessun bisogno più neppure di cambiare la Costituzione, dato che i suoi fidi, unendosi ai tre giudici di nomina parlamentare spettanti alla maggioranza, disporrebbero della maggioranza assoluta nella Corte e si renderebbero certamente disponibili ad avallare anche la più inverosimile delle “porcate” future.

 

Che quindi il cambiamento della legge elettorale sia una priorità per chiunque non voglia rischiare di assistere al definitivo trionfo dell’inciviltà italiana dovrebbe essere evidente.

 

Abbiamo già esposto a suo tempo la nostra opinione. Come le garanzie costituzionali, anche le leggi elettorali non dovrebbero poter essere modificate a colpi di maggioranza: in una democrazia liberale le regole del gioco vanno sottratte alle maggioranze politiche contingenti e, a differenza dell’ordinaria attività legislativa e di governo, devono essere sempre il frutto di un patto il più condiviso possibile. Solo l’assoluta incultura politica e costituzionale della classe politica italiana può far confondere lo statuto delle regole con quello delle decisioni assunte sulla base di tali regole e tacciare di consociativismo l’esigenza della loro maggiore rigidità. Purtroppo, la proposta di Antonio Giolitti di costituzionalizzare i principi fondamentali della legge elettorale fu lasciata cadere dall’Assemblea costituente e trasformata in un ordine del giorno non vincolante.

 

Come contemperare l’esigenza di negare la legittimità e la correttezza di modifiche a colpi di maggioranza delle leggi elettorali e al tempo stesso cancellare la “porcata”, frutto proprio di un tale arbitrio? A nostro avviso non c’è che un modo: abrogare la “porcata” e richiamare in vigore la legge elettorale previgente tale e quale.

 

Non perché il “mattarellum” fosse una buona legge – non lo era affatto – ma perché si tratta del solo modo possibile per cancellare un misfatto e ritornare all’ultima legge elettorale in ordine di tempo che sia stata approvata, come sempre dovrebbe accadere, a larga maggioranza. Rimandando l’approvazione di un’eventuale legge migliore a quando vi sarà un largo consenso parlamentare su una nuova proposta.

 

Qualunque altra soluzione, che non fosse il frutto di un accordo davvero generale, rafforzerebbe il precedente che ha legittimato il principio della modificabilità a maggioranza di una cruciale regola del gioco come la legge elettorale per le elezioni politiche, addirittura alla vigilia delle elezioni e a giochi praticamente già aperti.

 

Quanto al futuro, se fosse per noi proporremmo non solo che si stabilissero in Costituzione i principi generali regolanti le leggi elettorali, ma che vi si affermasse anche il principio che nessuna nuova legge elettorale possa entrare in vigore prima che sia passato il tempo ordinariamente previsto della durata di una legislatura, in modo da evitare che, anche in caso di scioglimento delle Camere, e anche con una larga maggioranza, si possano mai fissare nuove regole del gioco sulla base dei concreti risultati elettorali auspicati e previsti dai proponenti.

 

Intanto, promosso dai radicali, un appello richiede invece, nuovamente, l’introduzione dell’uninominale secca (sistema che Pannella continua a definire, con un significativo francesismo, “anglosassone”, quando in inglese tale termine si riferisce, in modo sostanzialmente esclusivo, alle popolazioni residenti in Inghilterra prima dell’invasione normanna dell’XI secolo e alla loro lingua). Ci sfuggono le ragioni di questa ostinazione.

 

Innanzitutto, verrebbe confermato il precedente della accettabilità della modifica delle regole del gioco a colpi di maggioranza. Qui i radicali potrebbero effettivamente vantare una non invidiabile coerenza, dato che anche il loro statuto è tradizionalmente modificabile a maggioranza semplice. Porre le regole del gioco alla mercé di una maggioranza semplice è però proprio della democrazia giacobina, non della democrazia liberale. Se i liberali inglesi non si stancano da decenni di richiedere finalmente anche per la Gran Bretagna una costituzione rigida lo fanno a ragion veduta: proprio nella patria delle libertà liberali, è stato possibile dopo l’11 settembre al governo laburista introdurre le più draconiane limitazioni alla libertà personale di tutto l’Occidente, proprio per l’assenza di una costituzione rigida e di qualunque controllo, quindi, sulla costituzionalità della legislazione ordinaria.

 

Per di più, l’uninominale secca, se non preceduta dall’adeguamento dei quorum costituzionali, metterebbe verosimilmente anch’essa il paese nelle mani di una maggioranza relativa anche molto modesta, con conseguenze molto simili e potenzialmente identiche a quelle della “porcata” di Calderoli, oggetto anche per questo delle giuste critiche degli stessi radicali.

 

In terzo luogo, l’uninominale secca non funziona neppure come strumento di stabilità politica, in presenza di forti partiti a base regionale, come è il caso, nell’Italia di questi anni, della Lega Nord. Se la Scozia fosse popolosa quanto l’Inghilterra, anziché essere pari a un suo un decimo, anche lì la stabilità dei governi dipenderebbe interamente dagli umori dei nazionalisti scozzesi, che potrebbero trattare con gli uni e con gli altri fino a strappare il prezzo più alto, alla fine verosimilmente quello di una secessione che la maggioranza degli scozzesi non desidera, anche se i nazionalisti scozzesi sono partito di maggioranza relativa in Scozia. In Italia, le sorti della maggioranza – ma alla fine quelle dell’Italia stessa – dipenderebbero interamente dalla Lega Nord, partito egemone in un’area del paese che pesa proporzionalmente sull’intero enormemente più di quanto la Scozia non pesi nel Regno Unito. E l’esito finale di una grottesca secessione “padana” sarebbe ben più probabile che in Scozia.

 

Dal punto di vista delle conseguenze politiche dirette, introdurre l’uninominale secca in Italia non comporterebbe affatto un rafforzamento di liberali, liberalradicali, liberalsocialisti, laici, laicisti, azionisti in senso lato, e neppure dei radicali stessi, come sognano questi ultimi, già immaginandosi nei panni dei king makers: al contrario, è verosimile che tutti costoro sparirebbero definitivamente. A torto o a ragione – sicuramente a torto, ma la nostra minoritaria consapevolezza non conta – i media e la classe politica italiana sono convinti, per atavica quanto inestirpabile credenza, e dal 1974 in poi sono anche indifferenti a ogni smentita empirica, che l’elettorato strategico da conquistare per vincere le elezioni non sia quello “laico” ma quello “cattolico”, che ottusamente continuano a identificare con un loro immaginario baricentro mentale del sistema politico (quando invece, nella cosiddetta “Prima Repubblica”, la Dc poteva definirsi “centro” pur avendo alla sua destra solo il 5-6 % del Msi e alla sua sinistra circa il 60 %, solo perché in quegli anni “destra” in Italia era sinonimo di neofascismo). Non conta che da anni ogni indagine dimostri come gli elettori cattolici, anche praticanti, siano spalmati quasi uniformemente sull’intero arco del continuum destra / sinistra, che pochissimi di loro seguano pedissequamente le indicazioni politiche della gerarchia, ecc. ecc. È convinzione conficcata nell’immaginario della classe politica e dei media che sia vero il contrario. La lotta per la “conquista degli incerti” o del “centro” avrebbe quindi certamente per posta il “voto cattolico”, con una conseguente, ormai perfino ridicola ma ulteriore, clericalizzazione senza fine della politica italiana.

 

Peggio ancora, i due partiti maggiori attualmente esistenti, quello berlusconiano e il Pd, verrebbero cementificati a tempo indeterminato come i protagonisti insostituibili e pressoché esclusivi della politica italiana e godrebbero di una rendita di posizione sostanzialmente inattaccabile. Lo dimostra proprio la storia costituzionale dei sistemi cosiddetti “anglosassoni”: in duecento anni di storia costituzionale della Gran Bretagna e degli Usa, è accaduto solo una volta in duecento anni negli Usa che uno dei due partiti fosse sostituito da un terzo emergente, e solo una volta in duecento anni in Gran Bretagna (e c’è voluto un evento delle dimensioni della nascita del movimento operaio; anzi, perfino quell'evento ha prodotto effetti sul bipartitismo britannico solo dopo qualche decennio e non per il meglio, se ciò ha comportato un’eclisse liberale durata almeno un secolo). Francamente, è arduo pensare a qualcosa di peggio del consolidamento degli attuali principali attori della politica italiana.

 

Non è vero che sia il numero dei partiti a creare di per sé instabilità o pericoli per la vita democratica. Nel corso della storia della cosiddetta “Prima Repubblica”, non vi è mai stata instabilità quando due delle tre forze politiche maggiori sono state decise a mantenere in vita una maggioranza. Causa di instabilità erano piuttosto le correnti interne ai partiti maggiori. In un solo caso, formalmente, una crisi di governo si aprì per l’uscita dal governo di un partito minore (lo Psdi), ma non fu un mistero per nessuno che la mossa fosse stata concordata con i capi di una corrente Dc. In molti paesi dove si vota con la proporzionale più o meno corretta, come ad esempio in Spagna, si è andati molto vicini in qualche caso ad un bipartitismo di fatto: ma proprio allora hanno acquistato una forza dirompente i partiti dei nazionalismi periferici, più o meno separatisti. Al contrario, può ben capitare che un partito populista e xenofobo riesca a raggiungere una consistenza tale da diventare l’ago della bilancia anche in sistemi sostanzialmente bipolari o bipartitici (come, esagerando l’accaduto, i media italiani hanno immaginato possa accadere oggi in Svezia).

 

L’apologia dell’uninominale secca nell’interpretazione dei radicali ne ha fatto in questi anni quasi un sinonimo di democrazia “vera”, stabile e affidabile, contro la sua inevitabile degenerazione che si anniderebbe in modo quasi costitutivo in ogni genere di sistema larvatamente o parzialmente proporzionale. Ma è un’interpretazione priva di addentellati con la realtà: Regno Unito e Paesi Bassi, che si situano agli estremi opposti dal punto di vista dei rispettivi sistemi elettorali, sono molto simili nel loro sviluppo storico, nella loro cultura politica, nelle vicende sociali attraversate negli ultimi decenni, così come nella crescita negli ultimi anni del comunitarismo a base etnico-religiosa. Il caso della Repubblica di Weimar non prova nulla se non per chi, piuttosto puerilmente, mette in relazione il suo crollo e l’avvento del nazismo soltanto con il sistema elettorale vigente e gli attribuisce la responsabilità di tutti gli sviluppi politici. Il fatto è che nella Germania del primo dopoguerra non vi era, semplicemente, un consenso solido e generalizzato per la nascita di una repubblica democratica: una larghissima parte della società non si capacitava della sconfitta e avrebbe preferito da subito un regime militare e revanscista, impossibile per lo stato in cui la Germania si trovava nel 1919; e una considerevole minoranza avrebbe voluto invece che la Germania diventasse socialista, facendo “come in Russia”, oppure usando metodi più democratici, ma per arrivare a un socialismo in senso forte, e non a una società poliarchica e liberale. Gli uni e gli altri si adattarono, per qualche anno, in mancanza di meglio, a vivere in una Repubblica democratica, ma a titolo di compromesso inevitabile, considerandolo entrambi come un male minore. Nessun sistema elettorale, da solo, è in grado di far funzionare una democrazia o di darle vita. E se in Germania ci fosse stata l’uninominale secca, Hitler avrebbe probabilmente stravinto lo stesso, ma con un anno di anticipo, avendo raggiunto un’ampia maggioranza relativa già nelle elezioni del 1932.

 

Neppure ci sembra necessariamente una buona idea quella di legare fortemente l’eletto al sangue e al suolo della sua circoscrizione. In un’epoca in cui una delle caratteristiche più perniciose della politica democratica è costituita dalla sua “vista corta”, sarebbe semmai opportuno porre gli eletti nella condizione di operare, se necessario, anche le scelte impopolari che spesso si rendono necessarie e che non sempre giovano nel breve periodo e in modo uniforme a tutte le aree geografiche di un paese.

 

Ma forse la principale ragione per cui i radicali propugnano l’uninominale secca è proprio quella per cui a noi piace di meno: la centralità che attribuisce alla personalità dei politici, a discapito della razionalità delle scelte e del dibattito su proposte, principi, interessi, progetti e valori contrapposti. La politica ridotta, weberianamente, alla scelta di “capi” riduce implicitamente i cittadini a gregge. “Capi”, poi, o aspiranti tali, cui si vorrebbe appiccicare addosso un artificioso carisma con espedienti pubblicitari tanto più evidentemente patetici e inadeguati quanto più si passa dal centro alla periferia, dalle televisioni nazionali a quelle di paese; ma il meccanismo è lo stesso. Ometti e donnine, nella realtà, la cui qualità media inevitabilmente decresce nel corso degli anni, perché ormai la selezione principale della classe politica passa attraverso la disponibilità a esibirsi su piani e argomenti che con le scelte della politica non c’entrano nulla; non a discutere quanto più razionalmente possibile dei fatti della politica, ma a vantare qualità personali esemplari e rappresentative, oppure doti straordinarie che pochi politici possono avere nel corso di un secolo, ma che ogni elezione incentrata sulla personalità dei candidati richiede da parte di tutti gli aspiranti. Ometti e donnine che da qualche lustro ingombrano e occupano per intero, con fattezze fisiche che si vorrebbero rendere da sé eloquenti, schermi televisivi e manifesti murali nelle nostre campagne elettorali e cui si richiede in realtà, per prima cosa, di non curarsi troppo della propria reputazione oppure di cambiare mestiere, perché, se alla fine è solo o soprattutto di personalità che si discute, la lotta politica si riduce inevitabilmente prima o poi alle palate di fango o al dossieraggio. Non stupisce il discredito che colpisce ormai tutta la politica in tutto l’Occidente, non stupisce che il terreno di reclutamento della politica coincida ormai con quello dell’industria dello spettacolo e che i giovani ancora disposti a impegnarvicisi siano molto spesso quelli più segnati da un sempre più diffuso cinismo precocemente senile e servile. Le eccezioni sono purtroppo tanto più luminose quanto più si fanno rare.

 

Torneremo su questi problemi in un prossimo numero di Critica, perché crediamo che la personalizzazione estrema della politica sia un elemento fondamentale della crisi della democrazia in tutto l’Occidente e della sua degenerazione ciarlatanesca e populistico-autoritaria. Non ci nascondiamo nessuno dei limiti e dei difetti dei partiti tradizionali, della burocratizzazione, del professionismo ad essi legato, ma il rimedio plebiscitario ci sembra assai peggiore del male, e più minaccioso per le libertà individuali. E ci sembra, dal nostro scomodo angolo visuale italiano, di poter vedere meglio che da altre parti del mondo il nesso fra la personalizzazione estrema della politica, la sua penosa assimilazione crescente al tifo calcistico e al gossip e la sua crescente degenerazione e inefficacia.

 

Ma a chi fra i nostri amici nutrisse nonostante tutto qualche fascinazione per una politica ridotta a scontro fra aspiranti “capi”, e agli entusiasti della democrazia incongruamente definita “anglosassone”, vorremmo solo chiedere se sembra loro un caso normale o fortunato che un paese ricco e sviluppato in ogni campo come gli Stati Uniti si sia potuto far governare, per otto anni di fila, da un tipo come George Bush Jr., e che gli abbia potuto conferire il potere di distruggere la reputazione dell’intero Occidente e della democrazia liberale in mezzo mondo per qualche generazione a venire.


Da Critica liberale, n. 177-178,  luglio - agosto 2010.

 

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