Garanzie
e legge elettorale
di Felice Mill Colorni
Se
l’Italia del
dopoguerra è stata, bene o male (e sia pure più
male che bene), una democrazia
liberale, non lo si è dovuto certo al prevalente
orientamento liberale e
democratico delle forze politiche rappresentate
nell’Assemblea costituente. Lo
si è dovuto in maggiore misura a tre fattori abbastanza
contingenti.
Innanzitutto
alla
volontà di capovolgere i principi autoritari su cui si era
fondata la dittatura
fascista che aveva sovvertito e ucciso in fasce la nascente democrazia
di massa.
I partiti maggiori del 1946, per forza di cose, non disponevano di una
cultura
costituzionale molto aggiornata, anche se un’intensa
attività pubblicistica e di
studio, anche fortemente comparatistica, svolse in quei mesi il ruolo
di un
corso accelerato e intensivo di apprendistato collettivo. Tanto meno le
principali culture politiche dei partiti di massa, quella cattolica
preconciliare, quella socialista ancora largamente massimalista, e
quella comunista,
li avrebbero condotti spontaneamente verso approdi liberali o
democratici. Ma
buona parte dei costituenti aveva vissuto sulla propria pelle, molto
più
intensamente della generalità degli italiani, le conseguenze
della dittatura ed
era decisa a non consentire che quell’esperienza potesse
ripetersi, tanto più
che sapeva di non poter fare troppo affidamento su gran parte
dell’apparato
dello Stato che, nei suoi quadri dirigenti, intermedi e di base si era
formato al
riparo di qualunque barlume di cultura politica democratica. Se
l’orizzonte del
liberalismo era largamente estraneo a buona parte di quella classe
politica,
molti dei suoi componenti sapevano però molto bene, per
averlo sperimentato di
persona, che cosa significasse il venir meno della libertà
personale, della
libertà di espressione, della libertà di stampa,
della libertà di
organizzazione politica.
Un
altro
elemento determinante fu una ben giustificata diffidenza reciproca. Non
vi era
solo il pericolo di colpi di coda da parte dei fascisti, sulla cui
definitiva
scomparsa politica era difficile scommettere in quei mesi. A
quell’epoca tutti
i democratici avevano ottime ragioni anche per temere possibili colpi
di mano
da parte di un Pci ancora pienamente stalinista, che, nonostante la
“doppiezza”
togliattiana, sosteneva apertamente e plaudiva alla progressiva
instaurazione
con la violenza di regimi dittatoriali nei paesi satelliti
dell’Urss. E d’altra
parte i liberali, i democratici e l’intera sinistra avevano
anche buone ragioni
per poter temere avventure autoritarie non solo da parte dei nostalgici
espliciti
del fascismo, ma anche di possibili coalizioni molto più
ampie, che avrebbero potuto
vedere nell’instaurazione di un ordine non democratico un
male minore rispetto
all’eventualità anche remota di un possibile colpo
di mano comunista. Quanto
tutti quei timori potessero essere fondati lo hanno dimostrato, dopo la
fine
della guerra fredda e il crollo dell’Urss, le rivelazioni
sulla guerra civile italiana
virtuale che per decenni avrebbe potuto divenire reale da un momento
all’altro,
sulla “gladio” e sulla “gladio
rossa”, e anche la storia della “strategia della
tensione”, che si potrà davvero scrivere solo
quando tutti gli archivi saranno
accessibili, probabilmente solo fra qualche decennio. Un patto
costituzionale
reciproco, che garantisse a tutti, anche ai non democratici, piena
integrazione
nella vita civile del dopoguerra e che fondasse almeno un accordo di
non
aggressione e una garanzia contro una nuova guerra civile, era
nell’interesse
di tutti.
Infine,
il terzo
elemento decisivo per dare all’Italia istituzioni
democratiche e liberali, fu
la situazione internazionale che venne consolidandosi proprio durante i
due
anni di lavoro dell’Assemblea costituente. L’Italia
era parte riconosciuta del
blocco occidentale e, se voleva evitare la sorte della Grecia devastata
dalla guerra
civile, la sinistra comunista e filocomunista non aveva altra via che
quella
della lunga marcia attraverso le istituzioni. Una lunga marcia che,
alla fine, più
che mutare la natura delle istituzioni costituzionali, avrebbe cambiato
in
meglio la sinistra italiana, definitivamente dopo il ’56 per
quel che riguarda
i socialisti, e già fra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni
Settanta per quel che riguarda il Pci (non senza residue
ambiguità estintesi
solo con il definitivo seppellimento dell’esperienza
comunista).
Senza
questi tre
fattori, è improbabile che avremmo avuto, bene o male, una
democrazia
costituzionale liberale. I cattolici avrebbero preferito uno Stato
corporativo
alla Fanfani, i comunisti una democrazia
“progressiva”, in progressiva
trasformazione verso una “democrazia popolare”, i
socialisti nenniani qualche
fumisteria più avventurosa di quelle, teorizzate ancora
intorno al ’68 dai loro
cugini francesi, appena un po’ più sobri, che non
disdegnavano di disquisire
della “conquista dei poteri” non solo per la via
costituzionale ortodossa.
In
particolare,
l’idea liberale della divisione dei poteri, dei freni e
contrappesi come limite
vitale di tutti i poteri, compreso il potere sovrano del popolo,
sarebbe stata
probabilmente un’idea largamente estranea a buona parte di
quella classe
politica senza il benefico influsso coercitivo di quei tre fattori
contingenti:
estranea quanto lo è oggi al berlusconismo. Fino ad allora,
e in particolare
nella teorizzazione dei comunisti, si trattava all’opposto di
costruire un
sistema «che non ponga barriere alla manifestazione e al
trionfo della
sovranità popolare». Sembra proprio di ascoltare
Berlusconi. Scomparsa la
corona, scriveva Togliatti, «non abbiamo più nulla
da bilanciare e da
equilibrare in Italia». Se l’indipendenza della
magistratura ordinaria non
veniva messa in discussione in conseguenza dell’esperienza
fascista, non così
il controllo sulla costituzionalità delle leggi, cardine
delle garanzie
costituzionali liberali: non solo i comunisti, ma lo stesso Nenni era
reciso: «Sulla
costituzionalità delle leggi non può deliberare
che l’Assemblea nazionale, il
Parlamento non potendo accettare altro controllo che quello del
popolo»;
giudici costituzionali non eletti dal popolo «non hanno
diritto a giudicare gli
atti del Parlamento».
Fu
dunque
soprattutto grazie a contingenze esterne e occasionali se il
liberalismo
costituzionale, che non ne era stato il punto di partenza, fu il punto
di
arrivo del compromesso costituente.
Con
queste
premesse c’è poco da stupirsi che lo svolgimento
sia stato spesso al di sotto
delle aspettative dei liberali italiani più ottimisti ed
esigenti. C’è semmai
da rallegrarsi che le cose non siano andate molto peggio.
La
catastrofe
non solo della vita civile e dell’etica pubblica,
l’imbarbarimento dei costumi
politici, l’azzeramento di una cultura costituzionale
così faticosamente
conquistata negli ultimi sessant’anni, provocati specialmente
nell’ultimo
quindicennio dal trionfo della ciarlataneria populista di una destra
extraeuropea,
rischiano ora di farci tornare al punto di partenza. In
sessant’anni,
evidentemente, la Repubblica non è stata capace di dotarsi
di un establishment
degno del nome.
La cultura politica liberale è stata assimilata solo da una
parte minoritaria e
largamente ininfluente della classe dirigente italiana, non solo di
quella politica.
Sono
venuti meno
i potenti e provvidenziali condizionamenti esterni di cui si
è detto. Almeno
nella loro forma feroce e orgogliosamente autoritaria, sono scomparse
le minacce
totalitarie novecentesche del fascismo e del comunismo. Sono
conseguentemente
anche venuti largamente meno gli interessi internazionali a limitare le
scelte
di campo dell’Italia anche nell’ambito della
politica interna e costituzionale.
Soprattutto, all’interno della classe politica,
sessant’anni di democrazia
consociativa, di legittimazioni reciproche sempre più
indulgenti e reciprocamente
omertose, di “bipartitismo imperfetto”, di larghe
intese e di solidarietà
nazionali, di più prosaiche e ancor più efficaci
spartizioni consensuali delle
risorse pubbliche, hanno fatto venir meno quella salutare diffidenza
reciproca
che aveva finito per rendere tutte le forze politiche consapevoli delle
ragioni
e della necessità della limitazione costituzionale dei
poteri, creando garanzie
giuridiche non sempre precarie, a tutela non solo dei settori volta a
volta
minoritari del ceto politico, ma soprattutto delle libertà
liberali di tutti i
cittadini.
Per
fortuna, a
fare da argine esterno all’analfabetismo civile prevalente
nel ceto politico e
nella classe dirigente, vi è oggi un elemento, uno solo ma
abbastanza robusto,
che non esisteva ancora all’epoca della Costituente: il
vincolo europeo, orizzonte
ideale dei liberali italiani fin dal tempo del Risorgimento e non a
caso
oggetto principale degli strali della ciarlataneria populista.
È
comunque su
questo sfondo, tanto preoccupante per le sorti della democrazia
liberale quanto
persino inavvertito come problematico da gran parte della
società civile e
dell’establishment,
che si sono esercitati nella vivisezione costituzionale i politicanti
prevalentemente
espressi dall’attuale stagione politica: apprendisti
stregoni, piccoli chimici,
confezionatori di “porcate”, per lo più
incapaci perfino di capire che cosa
stessero facendo.
Come
“Critica
liberale” ha più volte ricordato in questi anni, e
come opportunamente hanno
ribadito Rino Formica ed Emanuele Macaluso in un appello ai Presidenti
della
Repubblica e delle Camere pubblicato dal “Corriere della
Sera” lo scorso 8
settembre, tutti i quorum di garanzia previsti dalla Costituzione
vigente
furono stabiliti sulla base del presupposto tacito, ma
all’epoca universalmente
dato per scontato, che le leggi elettorali per la formazione della
Camera e del
Senato sarebbero state proporzionali: i quorum previsti per la modifica
della
Costituzione, per quelle dei regolamenti parlamentari, per
l’elezione del
Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali di nomina
parlamentare
e, aggiungiamo noi, dei membri laici del Csm. Invece, dopo
l’abbandono della
proporzionale con il referendum del 1993, i quorum sono rimasti
inalterati e si
sono così fortemente indebolite le garanzie costituzionali e
la rigidità stessa
della Costituzione, senza che neppure se ne sia mai seriamente
dibattuto, e
proprio in contemporanea con l’irrompere della demagogia
populista più
irresponsabile come protagonista principale della politica italiana. Di
qui
l’appello di Formica e Macaluso: prima
dell’eventuale scioglimento delle
Camere, si ponga all’ordine del giorno del Parlamento
«o una modifica in senso
proporzionalista della legge elettorale, o una modifica dei quorum di
garanzia
costituzionale».
Ci
associamo con
la massima convinzione a questo appello, ma ci sembra perfino
ottimistica la
spiegazione del mancato adeguamento da parte dei due firmatari
dell’appello,
secondo i quali sarebbe «prevalsa la convinzione che
l’attenuarsi delle
garanzie costituzionali può essere giocata come arma
politica da una parte
politica contro l’altra». Purtroppo, il senso
comune acquisito, la comune
convinzione della larga maggioranza della classe politica italiana
è
semplicemente che le garanzie costituzionali siano irrilevanti, inutili
impicci
fra i piedi dei “decisori”, roba da parrucconi
ottocenteschi incapaci di
cogliere la vera natura ferina e sostanziale della politica:
esattamente le stesse
convinzioni dei fascisti, dei comunisti e di tanti ingenui Realpolitiker
del Novecento,
ingenui quanto finiscono sempre per esserlo – chi scrive lo
dice da realista
convinto – gli estremisti del realismo politico. In un mondo
che va sempre più
giuridicizzandosi, i politici italiani di entrambi gli schieramenti si
credono astutissimi
e modernissimi perché, proprio come il Pci nel corso di
tutta la sua storia
comunista, sono nuovamente arrivati alla conclusione che la garanzia
reale
costituita dall’avere “le mani in pasta”
sia migliore, per loro e per il paese,
di ogni garanzia di carattere giuridico e formale. I vecchi comunisti
giustificavano quella convinzione con il ritenersi rappresentanti della
classe
destinata a “farsi Stato” senza residui e senza
più fisime borghesi; oggi politicanti
di destra e di sinistra si credono semplicemente padroni delle
istituzioni in
nome di una “sovranità popolare” che,
esattamente come i socialcomunisti del
’48, ritengono debba potersi dispiegare senza freni e
contrappesi e che stia a
loro soltanto di interpretare senza intralci.
Purtroppo,
questa deriva verso l’attenuazione delle garanzie
costituzionali viene da
lontano. Per ricercarne i precedenti si deve risalire almeno al 1967,
quando
una sconsiderata riforma “tecnica” soppresse la prorogatio in carica dei giudici
costituzionali fino all’elezione
dei successori, che impediva la possibilità per la politica
di provocare la
paralisi del controllo di costituzionalità; e al 1970,
quando una legge di
attuazione del referendum abrogativo, ritardata da più di
vent’anni e approvata
con il solo scopo di consentire alla Chiesa cattolica di richiedere un
referendum sulla legge sul divorzio come condizione per
l’approvazione
successiva di quest’ultima, regolamentando anche il
referendum costituzionale,
rese per la prima volta possibili modifiche della Costituzione
approvate con la
sola maggioranza assoluta dei membri delle Camere, salva
l’eventualità di un
referendum, il cui esito però dipende
com’è ovvio più dal clima politico che
da
contenuti inevitabilmente ostici ai più.
Così,
solo
grazie a una momentanea saturazione per la ciarlataneria populista di
una non
enorme maggioranza di nostri concittadini, non abbiamo oggi una
costituzione da
repubblica delle banane come quella sconfitta nel referendum
costituzionale del
2005.
Fosse
per noi,
dato che si dice che il nostro è ormai uno Stato federale,
saremmo ben lieti
che venisse adeguato a tale modello anche il procedimento di revisione
costituzionale. Come negli Usa: maggioranza necessaria dei due terzi
dei
componenti sia della Camera che del Senato, e approvazione necessaria,
sempre a
maggioranza dei due terzi, da parte dei tre quarti dei Consigli
regionali.
Una
classe politica
minimamente avvertita delle implicazioni costituzionali della materia
non
dovrebbe comunque mai mettere le mani sulle leggi elettorali senza
considerarne
le conseguenze anche sulla Costituzione e sulla garanzia delle
libertà liberali.
Invece si persevera.
Già
nel 1993, se
lo scopo fosse stato soltanto quello di operare una semplificazione del
sistema
politico, sarebbe stato sufficiente, a legge vigente, diminuire
l’estensione
territoriale delle circoscrizioni e dei collegi. Si volle invece
rispondere
alla volontà di palingenesi nata dalle inchieste di
“mani pulite” e dall’ira
causata dalla scoperta dell’estensione della corruzione
politica.
In
realtà
venivano anche all’incasso anni di discussioni spericolate
sull’opportunità di
superare la sclerotizzazione della politica italiana attraverso
l’introduzione
di elementi di democrazia plebiscitaria. Discussioni anche di alto e
rispettabile livello, in una stagione in cui la politica italiana riteneva ancora opportuno ragionare
sui classici anziché
confezionare “porcate”; anche se la riproposizione
delle riflessioni di Max
Weber nella Germania del primo dopoguerra veniva spesso presentata in
forma
edulcorata e ne venivano sapientemente occultate le ragioni e le
motivazioni storiche
più inquietanti.
Oggi
la politica italiana si trova di fronte a una legge elettorale
vergognosamente
imposta a colpi di maggioranza da una maggioranza che l’ha
scritta a sua
propria misura e nel suo proprio ed esclusivo interesse di bottega, e
definita dal
suo stesso autore, consapevole dell’impunità
offerta da un’opinione pubblica e
da un paese la cui già carente civiltà politica
è stata annichilita da un quindicennio
di ciarlataneria imperante, una “porcata” di cui
andare orgogliosi. Caso, anche
questo, assolutamente unico al mondo, ma neppure questo capace di far
sollevare
una società civile ormai in agonia.
Affrontare
probabili elezioni anticipate con questa legge elettorale truffaldina
significa
verosimilmente consegnare alla ciarlataneria imperante non solo
un’altra
legislatura di disastri e di vergogna, ma al suo capo anche la
Presidenza della
Repubblica, e con essa la nomina di cinque giudici costituzionali
– ennesimo
prevedibile e massimo fringe benefit
per
gli avvocati che gli hanno permesso fin qui di farla franca grazie a
prescrizioni a raffica per delitti infamanti, cui nessun politicante
occidentale
sarebbe mai potuto sopravvivere. A quel punto, nessun bisogno
più neppure di
cambiare la Costituzione, dato che i suoi fidi, unendosi ai tre giudici
di
nomina parlamentare spettanti alla maggioranza, disporrebbero della
maggioranza
assoluta nella Corte e si renderebbero certamente disponibili ad
avallare anche
la più inverosimile delle “porcate”
future.
Che
quindi il cambiamento della legge elettorale sia una
priorità per chiunque non
voglia rischiare di assistere al definitivo trionfo
dell’inciviltà italiana dovrebbe
essere evidente.
Abbiamo
già esposto a suo tempo la nostra opinione. Come le garanzie
costituzionali,
anche le leggi elettorali non dovrebbero poter essere modificate a
colpi di
maggioranza: in una democrazia liberale le regole del gioco vanno
sottratte
alle maggioranze politiche contingenti e, a differenza
dell’ordinaria attività
legislativa e di governo, devono essere sempre il frutto di un patto il
più
condiviso possibile. Solo l’assoluta incultura politica e
costituzionale della
classe politica italiana può far confondere lo statuto delle
regole con quello
delle decisioni assunte sulla base di tali regole e tacciare di
consociativismo
l’esigenza della loro maggiore rigidità.
Purtroppo, la proposta di Antonio
Giolitti di costituzionalizzare i principi fondamentali della legge
elettorale
fu lasciata cadere dall’Assemblea costituente e trasformata
in un ordine del
giorno non vincolante.
Come
contemperare l’esigenza di negare la legittimità e
la correttezza di modifiche
a colpi di maggioranza delle leggi elettorali e al tempo stesso
cancellare la
“porcata”, frutto proprio di un tale arbitrio? A
nostro avviso non c’è che un
modo: abrogare la “porcata” e richiamare in vigore
la legge elettorale
previgente tale e quale.
Non
perché il “mattarellum” fosse una buona
legge – non lo era affatto – ma perché
si tratta del solo modo possibile per cancellare un misfatto e
ritornare
all’ultima legge elettorale in ordine di tempo che sia stata
approvata, come
sempre dovrebbe accadere, a larga maggioranza. Rimandando
l’approvazione di
un’eventuale legge migliore a quando vi sarà un
largo consenso parlamentare su
una nuova proposta.
Qualunque
altra soluzione, che non fosse il frutto di un accordo davvero
generale,
rafforzerebbe il precedente che ha legittimato il principio della
modificabilità a maggioranza di una cruciale regola del
gioco come la legge
elettorale per le elezioni politiche, addirittura alla vigilia delle
elezioni e
a giochi praticamente già aperti.
Quanto
al futuro, se fosse per noi proporremmo non solo che si stabilissero in
Costituzione
i principi generali regolanti le leggi elettorali, ma che vi si
affermasse anche
il principio che nessuna nuova legge elettorale possa entrare in vigore
prima
che sia passato il tempo ordinariamente previsto della durata di una
legislatura, in modo da evitare che, anche in caso di scioglimento
delle
Camere, e anche con una larga maggioranza, si possano mai fissare nuove
regole
del gioco sulla base dei concreti risultati elettorali auspicati e
previsti dai
proponenti.
Intanto,
promosso dai radicali, un appello richiede invece, nuovamente,
l’introduzione
dell’uninominale secca (sistema che Pannella continua a
definire, con un
significativo francesismo, “anglosassone”, quando
in inglese tale termine si riferisce,
in modo sostanzialmente esclusivo, alle popolazioni residenti in
Inghilterra
prima dell’invasione normanna dell’XI secolo e alla
loro lingua). Ci sfuggono
le ragioni di questa ostinazione.
Innanzitutto,
verrebbe confermato il precedente della accettabilità della
modifica delle
regole del gioco a colpi di maggioranza. Qui i radicali potrebbero
effettivamente
vantare una non invidiabile coerenza, dato che anche il loro statuto
è tradizionalmente
modificabile a maggioranza semplice. Porre le regole del gioco alla
mercé di
una maggioranza semplice è però proprio della
democrazia giacobina, non della
democrazia liberale. Se i liberali inglesi non si stancano da decenni
di
richiedere finalmente anche per la Gran Bretagna una costituzione
rigida lo
fanno a ragion veduta: proprio nella patria delle libertà
liberali, è stato
possibile dopo l’11 settembre al governo laburista introdurre
le più draconiane
limitazioni alla libertà personale di tutto
l’Occidente, proprio per l’assenza
di una costituzione rigida e di qualunque controllo, quindi, sulla
costituzionalità della legislazione ordinaria.
Per
di più, l’uninominale secca, se non preceduta
dall’adeguamento dei quorum
costituzionali, metterebbe verosimilmente anch’essa il paese
nelle mani di una
maggioranza relativa anche molto modesta, con conseguenze molto simili
e
potenzialmente identiche a quelle della “porcata”
di Calderoli, oggetto anche
per questo delle giuste critiche degli stessi radicali.
In
terzo
luogo, l’uninominale secca non funziona neppure come
strumento di stabilità
politica, in presenza di forti partiti a base regionale, come
è il caso,
nell’Italia di questi anni, della Lega Nord. Se la Scozia
fosse popolosa quanto
l’Inghilterra, anziché essere pari a un suo un
decimo, anche lì la stabilità
dei governi dipenderebbe interamente dagli umori dei nazionalisti
scozzesi, che
potrebbero trattare con gli uni e con gli altri fino a strappare il
prezzo più
alto, alla fine verosimilmente quello di una secessione che la
maggioranza
degli scozzesi non desidera, anche se i nazionalisti scozzesi sono
partito di
maggioranza relativa in Scozia. In Italia, le sorti della maggioranza
– ma alla
fine quelle dell’Italia stessa – dipenderebbero
interamente dalla Lega Nord,
partito egemone in un’area del paese che pesa
proporzionalmente sull’intero
enormemente più di quanto la Scozia non pesi nel Regno
Unito. E l’esito finale di
una grottesca secessione “padana” sarebbe ben
più probabile che in Scozia.
Dal
punto
di vista delle conseguenze politiche dirette, introdurre
l’uninominale secca in
Italia non comporterebbe affatto un rafforzamento di liberali,
liberalradicali,
liberalsocialisti, laici, laicisti, azionisti in senso lato, e neppure
dei
radicali stessi, come sognano questi ultimi, già
immaginandosi nei panni dei king
makers:
al contrario, è verosimile che tutti costoro sparirebbero
definitivamente. A torto o a ragione – sicuramente a torto,
ma la nostra
minoritaria consapevolezza non conta – i media e la classe
politica italiana sono
convinti, per atavica quanto inestirpabile credenza, e dal 1974 in poi
sono
anche indifferenti a ogni smentita empirica, che l’elettorato
strategico da
conquistare per vincere le elezioni non sia quello
“laico” ma quello “cattolico”,
che ottusamente continuano a identificare con un loro immaginario
baricentro mentale
del sistema politico (quando invece, nella cosiddetta “Prima
Repubblica”, la Dc
poteva definirsi “centro” pur avendo alla sua
destra solo il 5-6 % del Msi e
alla sua sinistra circa il 60 %, solo perché in quegli anni
“destra” in Italia era
sinonimo di neofascismo). Non conta che da anni ogni indagine dimostri
come gli
elettori cattolici, anche praticanti, siano spalmati quasi
uniformemente
sull’intero arco del continuum
destra
/ sinistra, che pochissimi di loro seguano pedissequamente le
indicazioni politiche
della gerarchia, ecc. ecc. È convinzione conficcata
nell’immaginario della
classe politica e dei media che sia vero il contrario. La lotta per la
“conquista degli incerti” o del
“centro” avrebbe quindi certamente per posta il
“voto cattolico”, con una conseguente, ormai
perfino ridicola ma ulteriore,
clericalizzazione senza fine della politica italiana.
Peggio
ancora, i due partiti maggiori attualmente esistenti, quello
berlusconiano e il
Pd, verrebbero cementificati a tempo indeterminato come i protagonisti
insostituibili e pressoché esclusivi della politica italiana
e godrebbero di
una rendita di posizione sostanzialmente inattaccabile. Lo dimostra
proprio la storia
costituzionale dei sistemi cosiddetti
“anglosassoni”: in
duecento anni
di storia costituzionale della Gran Bretagna e degli Usa, è
accaduto solo una
volta in duecento anni negli Usa che uno dei due partiti fosse
sostituito da un
terzo emergente, e solo una volta in duecento anni in Gran Bretagna (e
c’è
voluto un evento delle dimensioni della nascita del movimento operaio;
anzi,
perfino quell'evento ha prodotto effetti sul bipartitismo britannico
solo dopo
qualche decennio – e
non per il meglio, se ciò
ha comportato un’eclisse liberale durata almeno un secolo).
Francamente, è
arduo pensare a qualcosa di peggio del consolidamento degli attuali
principali
attori della politica italiana.
Non
è vero che sia il numero dei partiti a creare di per
sé instabilità o pericoli
per la vita democratica. Nel corso della storia della cosiddetta
“Prima
Repubblica”, non vi è mai stata
instabilità quando due delle tre forze
politiche maggiori sono state decise a mantenere in vita una
maggioranza. Causa
di instabilità erano piuttosto le correnti interne ai
partiti maggiori. In un
solo caso, formalmente, una crisi di governo si aprì per
l’uscita dal governo
di un partito minore (lo Psdi), ma non fu un mistero per nessuno che la
mossa fosse
stata concordata con i capi di una corrente Dc. In molti paesi dove si
vota con
la proporzionale più o meno corretta, come ad esempio in
Spagna, si è andati
molto vicini in qualche caso ad un bipartitismo di fatto: ma proprio
allora
hanno acquistato una forza dirompente i partiti dei nazionalismi
periferici,
più o meno separatisti. Al contrario, può ben
capitare che un partito populista
e xenofobo riesca a raggiungere una consistenza tale da diventare
l’ago della
bilancia anche in sistemi sostanzialmente bipolari o bipartitici (come,
esagerando
l’accaduto, i media italiani hanno immaginato possa accadere
oggi in Svezia).
L’apologia
dell’uninominale secca nell’interpretazione dei
radicali ne ha fatto in questi
anni quasi un sinonimo di democrazia “vera”,
stabile e affidabile, contro la
sua inevitabile degenerazione che si anniderebbe in modo quasi
costitutivo in
ogni genere di sistema larvatamente o parzialmente proporzionale. Ma
è
un’interpretazione priva di addentellati con la
realtà: Regno Unito e Paesi
Bassi, che si situano agli estremi opposti dal punto di vista dei
rispettivi
sistemi elettorali, sono molto simili nel loro sviluppo storico, nella
loro
cultura politica, nelle vicende sociali attraversate negli ultimi
decenni, così
come nella crescita negli ultimi anni del comunitarismo a base
etnico-religiosa. Il caso della Repubblica di Weimar non prova nulla se
non per
chi, piuttosto puerilmente, mette in relazione il suo crollo e
l’avvento del
nazismo soltanto con il sistema elettorale vigente e gli attribuisce la
responsabilità di tutti gli sviluppi politici. Il fatto
è che nella Germania
del primo dopoguerra non vi era, semplicemente, un consenso solido e
generalizzato
per la nascita di una repubblica democratica: una larghissima parte
della
società non si capacitava della sconfitta e avrebbe
preferito da subito un
regime militare e revanscista, impossibile per lo stato in cui la
Germania si
trovava nel 1919; e una considerevole minoranza avrebbe voluto invece
che la
Germania diventasse socialista, facendo “come in
Russia”, oppure usando metodi
più democratici, ma per arrivare a un socialismo in senso
forte, e non a una
società poliarchica e liberale. Gli uni e gli altri si
adattarono, per qualche
anno, in mancanza di meglio, a vivere in una Repubblica democratica, ma
a
titolo di compromesso inevitabile, considerandolo entrambi come un male
minore.
Nessun sistema elettorale, da solo, è in grado di far
funzionare una democrazia
o di darle vita. E se in Germania ci fosse stata
l’uninominale secca, Hitler
avrebbe probabilmente stravinto lo stesso, ma con un anno di anticipo,
avendo
raggiunto un’ampia maggioranza relativa già nelle
elezioni del 1932.
Neppure
ci sembra necessariamente una buona idea quella di legare fortemente
l’eletto
al sangue e al suolo della sua circoscrizione. In un’epoca in
cui una delle
caratteristiche più perniciose della politica democratica
è costituita dalla
sua “vista corta”, sarebbe semmai opportuno porre
gli eletti nella condizione
di operare, se necessario, anche le scelte impopolari che spesso si
rendono
necessarie e che non sempre giovano nel breve periodo e in modo
uniforme a
tutte le aree geografiche di un paese.
Ma
forse la principale ragione per cui i radicali propugnano
l’uninominale secca è
proprio quella per cui a noi piace di meno: la centralità
che attribuisce alla
personalità dei politici, a discapito della
razionalità delle scelte e del
dibattito su proposte, principi, interessi, progetti e valori
contrapposti. La
politica ridotta, weberianamente, alla scelta di
“capi” riduce implicitamente i
cittadini a gregge. “Capi”, poi, o aspiranti tali,
cui si vorrebbe appiccicare
addosso un artificioso carisma con espedienti pubblicitari tanto
più evidentemente
patetici e inadeguati quanto più si passa dal centro alla
periferia, dalle
televisioni nazionali a quelle di paese; ma il meccanismo è
lo stesso. Ometti e
donnine, nella realtà, la cui qualità media
inevitabilmente decresce nel corso
degli anni, perché ormai la selezione principale della
classe politica passa
attraverso la disponibilità a esibirsi su piani e argomenti
che con le scelte
della politica non c’entrano nulla; non a discutere quanto
più razionalmente
possibile dei fatti della politica, ma a vantare qualità
personali esemplari e
rappresentative, oppure doti straordinarie che pochi politici possono
avere nel
corso di un secolo, ma che ogni elezione incentrata sulla
personalità dei
candidati richiede da parte di tutti gli aspiranti. Ometti
e donnine
che da qualche lustro ingombrano e occupano per intero, con fattezze
fisiche
che si vorrebbero rendere da sé eloquenti, schermi
televisivi e manifesti
murali nelle nostre campagne elettorali e cui si richiede in
realtà, per prima
cosa, di non curarsi troppo della propria reputazione oppure di
cambiare
mestiere, perché, se alla fine è solo o
soprattutto di personalità che si
discute, la lotta politica si riduce inevitabilmente prima o poi alle
palate di
fango o al dossieraggio. Non stupisce il discredito che colpisce ormai
tutta la
politica in tutto l’Occidente, non stupisce che il terreno di
reclutamento
della politica coincida ormai con quello dell’industria dello
spettacolo e che
i giovani ancora disposti a impegnarvicisi siano molto spesso quelli
più
segnati da un sempre più diffuso cinismo precocemente senile
e servile. Le
eccezioni sono purtroppo tanto più luminose quanto
più si fanno rare.
Torneremo
su
questi problemi in un prossimo numero di Critica, perché
crediamo che la
personalizzazione estrema della politica sia un elemento fondamentale
della
crisi della democrazia in tutto l’Occidente e della sua
degenerazione
ciarlatanesca e populistico-autoritaria. Non ci nascondiamo nessuno dei
limiti
e dei difetti dei partiti tradizionali, della burocratizzazione, del
professionismo ad essi legato, ma il rimedio plebiscitario ci sembra
assai
peggiore del male, e più minaccioso per le
libertà individuali. E ci sembra,
dal nostro scomodo angolo visuale italiano, di poter vedere meglio che
da altre
parti del mondo il nesso fra la personalizzazione estrema della
politica, la sua
penosa assimilazione crescente al tifo calcistico e al gossip
e la sua
crescente degenerazione e inefficacia.
Ma
a chi fra i
nostri amici nutrisse nonostante tutto qualche fascinazione per una
politica
ridotta a scontro fra aspiranti “capi”, e agli
entusiasti della democrazia incongruamente
definita “anglosassone”, vorremmo solo chiedere se
sembra loro un caso normale o
fortunato che un paese ricco e sviluppato in ogni campo come gli Stati
Uniti
si sia potuto far governare, per otto anni di fila, da un tipo come
George Bush
Jr., e che gli abbia potuto conferire il potere di distruggere la
reputazione
dell’intero Occidente e della democrazia liberale in mezzo
mondo per qualche
generazione a venire.
Da Critica liberale, n. 177-178, luglio -
agosto 2010.
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