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Commenti in materia di unioni civili, matrimonio, riforma del diritto di famiglia

di Felice Mill Colorni

Abrogazione delle discriminazioni in materia di matrimonio e introduzione di un nuovo istituto come le unioni civili (o pacs che dir si vogliano) non sono affatto due iniziative in contraddizione l’una con l’altra. La prima è doverosa per affermare l’uguaglianza formale e la pari dignità sociale dei cittadini. La seconda è più che opportuna per rendere disponibile a tutti, eterosessuali e omosessuali, e in alternativa al matrimonio, uno schema di negozio giuridico più leggero del matrimonio e capace di soddisfare le esigenze poste dal pluralismo ormai consolidato in tutte le società occidentali, che non consente più, se non con una forzatura, di imporre a tutti il matrimonio come solo ed unico modo di regolare i rapporti giuridici e patrimoniali di tutti i nuclei familiari (volendo mantenere, come credo sia opportuno per prevenire abusi a vantaggio del partner più forte, il principio della tipicità dei negozi di famiglia); e, come sola alternativa, il nulla. Purché le unioni civili o pacs (o addirittura gli oltraggiosi “dico”) non vengano gabellati come una dignitosa soluzione del problema della parità di diritti. Anzi, una riforma del diritto di famiglia, oltre alla fine delle discriminazioni in materia di matrimonio e all’introduzione delle unioni civili, dovrebbe prevedere anche una protezione minimale e molto limitata nel tempo della parte più debole, anche nel regolare lo scioglimento delle unioni di mero fatto (ovviamente sia eterosessuali che omosessuali) protrattesi molto a lungo nel tempo.

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A parte il fatto che i progetti di legge vertono essenzialmente sull’uguaglianza di trattamento in materia di rapporti giuridici e patrimoniali fra i due coniugi indipendentemente dal loro sesso, e non sulla filiazione, in una società particolarmente razzista, oppure antisemita, neri o ebrei dovrebbero essere esclusi dalla procreazione assistita perché poi i loro figli potrebbero sentirsi discriminati o diversi e subirne traumi? O magari, con la stessa logica, dovrebbero anche essere dissuasi dal procreare per via naturale?

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[Dopo l’annuncio di Rosi Bindi che il Pd appoggerebbe un progetto di regolamentazione delle convivenze gay sul modello tedesco] Visti i precedenti, io non credo che Bindi sapesse davvero di che cosa stava parlando. Se invece lo sapeva, la cosa sarebbe più sottile e insidiosa, e meno casuale, di quel che sembra: la legge federale tedesca stabilisce, appunto a livello federale, una sostanziale uguaglianza di trattamento – tranne che per la denominazione – fra coppie sposate e coppie legate da Lebenspartnerschaft per quel che riguarda i loro propri rapporti. Il che, ovviamente, è fondamentale. Però in Germania competenti per quel che riguarda il welfare sono i singoli Länder, non lo Stato federale. E infatti, da questo secondo punto di vista, in Germania c’è uguaglianza di trattamento solo dove il governo del Land locale è composto, in varia combinazione, da socialdemocratici, liberali e/o verdi; dove invece sono condizionanti i democristiani (specie quelli della Csu) questo in genere non accade. Trasposto in Italia, questo meccanismo obbligherebbe a dover rincorrere per altri decenni i politicanti locali in venti diversi consigli regionali, pur dopo l’approvazione - quando arrivasse - di una legge statale, per arrivare a una piena uguaglianza di diritti.

In realtà è così anche per le coppie eterosessuali sposate, semplicemente perché più o meno tutto quel che riguarda il welfare in Germania è di competenza dei Länder. Per conseguenza, anche l’estensione della normativa sul welfare familiare alle coppie gay richiede leggi ad hoc che devono essere votate da ciascun Land. Infatti la legge federale equipara largamente le coppie gay a quelle sposate, ma introducendo un istituto specifico e riservato alle sole coppie gay – Lebenspartnerschaft – analogo alle “unioni civili” riservate ai gay in alcuni altri paesi. Ma, a differenza di quel che accadeva per gli istituti scandinavi di registered partnership (che avevano fatto da battistrada fin dal 1989), l’equiparazione non avviene con un singolo rinvio “mobile” a tutta la normativa matrimoniale, bensì attraverso una farraginosissima e dettagliatissima normativa fatta tutta di rinvii puntuali, che richiede per essere compresa una approfondita conoscenza del diritto di famiglia tedesco (e che richiederebbe anche, a ogni modifica della normativa matrimoniale, un apposito provvedimento legislativo per la sua estensione al nuovo istituto). Aperta la corrida parlamentare, si potrebbero sbizzarrire a tagliare e segare di tutto e di più. Alla fine potrebbero millantare: “Abbiamo la stessa legge che hanno [ad oggi gennaio 2013, n.d.r.] in Germania”. Ma verificare la rispondenza dell’affermazione alla realtà sarebbe impresa titanica, alla portata solo di ferratissimi giuristi tedeschi o specializzati in diritto di famiglia tedesco.

Purtroppo questa idea di scaricare buona parte del problema sulle regioni gira, più o meno sotto traccia, da almeno dieci anni, e piace soprattutto a chi considera questa non una questione di diritti, ma un fatto “di costume”, da valutare in base ai sentimenti e ai costumi delle popolazioni locali (e piace a chi la vede come un modo elegante per togliere le castagne dal fuoco al minor prezzo). Dal loro punto di vista, sarebbe un bel modo di far finta di avere risolto il problema, tenendosi enormemente al di sotto dell’uguaglianza di diritti (e ancor più della “pari dignità sociale”) e potendosene vantare con la gerarchia ecclesiastica (“Eminenza, meno di così proprio non si poteva fare”). La legge tedesca è abbastanza complicata e impenetrabile dai profani per servire al meglio allo scopo.

Poi naturalmente è anche questione di fiducia. Io nel Pd, soprattutto su questi temi, non ne ho, al di là delle ottime intenzioni di alcuni suoi dirigenti, che però poi dovranno pure scendere a patti con Bindi e Fioroni. A me sembra che aspettative più ottimistiche siano nient’altro che wishful thinking. Io credo che la sola possibilità di successo nel campo dei diritti civili in Italia sarebbe ritornare a escludere queste questioni (gay, fine vita, staminali, ecc.) dagli accordi di governo, per lasciarli alla competenza esclusiva del Parlamento: come ai tempi del divorzio e dell’aborto, quando al governo stavano insieme i Dc da una parte e Psi, Pri, Psdi e Pli dall’altra. Se passi avanti ci saranno nella prossima legislatura, saranno a opera della maggioranza del Pd (la maggioranza soltanto, e sperabilmente, perché se i nostri amici dovessero mettersi d’accordo con Fioroni e Bindi sarebbe meglio che lasciassero perdere dall’inizio) e della (probabile) minoranza laica della lista Monti o di altri gruppi. Purtroppo un partito laico da votare in Italia oggi non c’è (salvo che si condividano le posizioni della sinistra onirica sulle questioni generali – e perfino lì, sulla loro coerenza laica non ci giurerei troppo).

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[A proposito dell’obiezione secondo cui l’estensione della facoltà di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali sarebbe superflua, perché sarebbe proprio l’istituto del matrimonio a essere irrimediabilmente sorpassato] La questione del “matrimonio gay” non ha nulla a che vedere con quel che si pensa del matrimonio. La questione riguarda esclusivamente una discriminazione giuridica basata su una componente dell’identità individuale ascritta (una «condizione personale» ex art. 3 primo comma Cost.). Il matrimonio è un negozio giuridico (un contratto in senso atecnico), e c’è una categoria di cittadini che non ha la possibilità di scegliere liberamente se avvalersene o meno, e quindi ha una libertà minore degli altri di scegliere quale assetto attribuire ai propri rapporti giuridici e patrimoniali con il partner;  e con conseguenze anche fiscali e sul piano del welfare e dei servizi. Del regolamento previsto per la disciplina del matrimonio si può pensare tutto il male o tutto il bene possibile, lo si può riformare, e, ancor più opportunamente, per venire incontro a un pluralismo esistente nelle nostre società, affiancarlo ad altri schemi pattizi tipizzati (tanto per eterosessuali che per omosessuali), come il pacs, più leggeri del matrimonio. Viceversa, dato che c’è molta gente che il regolamento previsto dal matrimonio ancora lo apprezza e lo desidera per sé, un’eventuale proposta di abolire il matrimonio per tutti non avrebbe alcun senso. Per inciso, non sarebbe neppure il caso di rinunciare al principio della tipicità dei negozi di famiglia, perché si aprirebbe la strada ad abusi verso le donne contrari a principi costituzionali fondamentali, anche e soprattutto su base comunitaristica (matrimoni fondati sulla sharia, per esempio).  Quel che a mio avviso è invece insostenibile, aberrante e intollerabile è che due gay non abbiano la stessa libertà di scelta di due eterosessuali nelle proprie opzioni di vita. Se il matrimonio fosse precluso ai neri o agli ebrei, credo che a nessuno verrebbe in mente di suggerire ai neri o agli ebrei che una battaglia per la parità di diritti è di retroguardia perché il matrimonio è un’istituzione obsoleta o da considerare non desiderabile. Dal punto di vista politico e giuridico (e secondo una tradizione di pensiero liberale che si può far risalire a Locke) il matrimonio va considerato nella sua realtà giuridica attuale, non nel suo significato storico o ancestrale. Tanto più che il collegamento tra matrimonio e filiazione negli ordinamenti giuridici occidentali contemporanei – quello italiano incluso – non c’è più, dato che non si considerano più nulli i matrimoni celebrati fra due coniugi uno dei quali, o entrambi, sterili; e si possono validamente celebrare matrimoni fra persone (per esempio, un vedovo e una vedova ultrasettantenni) che non possono avere figli neppure in linea di principio: né per via naturale, né per via artificiale, né tramite adozione (a quell’età non consentita dalla legge). D’altra parte è assolutamente ovvio che, in tutti i paesi occidentali, la questione – che è ormai una questione internazionale, e neppure questo può essere ignorato o messo fra parentesi – ha assunto un evidente, e forse ormai prevalente, significato assiologico. E infatti chi si oppone lo fa quasi sempre, e salvo rare eccezioni, in quanto si tratta dello strumento politico utile a negare pari dignità sociale agli omosessuali e a strizzare l’occhio all’elettorato razzista, cui si vuol far intendere che se ne condividono pregiudizi e stereotipi. Dopo di che, la decisione individuale se sposarsi o no è una decisione su cui, a mio avviso, la politica e ancor più il diritto devono soltanto tacere, perché i soli titolati a valutare se sia opportuno o no, conveniente o meno, sposarsi, o domani pacsarsi, dal punto di vista giuridico, economico, simbolico o estetico, sono i diretti interessati, eterosessuali o omosessuali che siano. In questo senso, dire che si è personalmente “contrari al matrimonio” è come dire che si è personalmente “contrari al divorzio” o “contrari all'aborto”: più che legittimo, ma solo finché non si intenda con ciò imporre per legge questa personale preferenza agli altri (peggio ancora, imporla, di fatto, solo a coloro cui oggi è precluso scegliere). La politica e il diritto possono e devono soltanto assicurare a tutti i cittadini pari libertà e pari diritti. Chi scrive – ininterrottamente single da sempre, di diritto e di fatto –  è la persona meno adatta per dare consigli o esprimere preferenze in materia.

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Caro X, l’orientamento sessuale non è una libera scelta culturale, è una condizione ascritta, oggetto non di scelta ma di constatazione da parte dell’individuo interessato, tanto quanto il colore della pelle, degli occhi o dei capelli. Far discendere da una condizione ascritta una qualunque diversità di diritti e doveri, o una qualunque diversità di trattamento giuridico, è atteggiamento non analogo, ma in sé identico, al razzismo biologico. Purtroppo in Italia questo non appare evidente, solo perché non c’è stata in precedenza la pratica di altri paesi in cui esistono da sempre minoranze etniche (e per i condizionamenti clericali sul sistema politico – ma questo non è ovviamente il tuo caso). La condizione di due gay che convivono è identica a quella di un uomo e una donna conviventi che intendano sposarsi dopo avere inequivocabilmente superato l’età riproduttiva. Limitare la libertà di scelta dei primi due di regolare come credono (e saranno pure fatti loro) i loro propri rapporti giuridici e patrimoniali è un’offesa sia all’uguaglianza giuridica dei cittadini di fronte alla legge, sia alla loro “pari dignità sociale” (art. 3 I comma Cost.). Poi uno – gay o straight che sia – può ovviamente scegliere liberamente il proprio stile di vita: individualista o comunitarista, conformista o anticonformista, sobrio o estroverso, tradizionalista o rivoluzionista. Ma in una società libera non è lo Stato che può imporgli uno stile di vita piuttosto che un altro. Se omologazione significa uguaglianza di diritti, per una società libera l’omologazione dei diritti è una via obbligatoria: poi ciascuno se ne servirà come vorrà. Ti deluderebbero gli ebrei che pretendessero parità di diritti, in uno Stato che imponesse loro un trattamento giuridico diverso da quello degli altri in nome di una loro pretesa diversità comunitaria da rendersi obbligatoria per legge?

[Replica dell’interlocutore: Felice, sul piano astratto del diritto con me sfondi una porta spalancata, te lo garantisco. Ma io ne sto facendo un fatto più personale, di atteggiamento. E' un po' come per la donna che vuole fare il soldato. Il soldato, bontà sua... Sul piano del diritto, ancora una volta, come darle torto? Però io mi trovo più a mio agio con quella che dice: "Grazie, ma al sacrosanto diritto di sbudellare il prossimo io rinuncio volentieri, vi lascio l'ineffabile privilegio". Lasciamo un attimo da parte i sacrosanti principi e le questioni di diritto e facciamone, per una volta, una questione di stile. C'è un punto in cui il diritto rasenta il ridicolo: io mi fermo un po' prima, così non corro rischi. Ma a ognuno la scelta, si capisce].

L’esempio è ben scelto: io credo che una donna che vuol fare il soldato vada considerata, sia giuridicamente sia dal punto di vista dell’atteggiamento personale e psicologico, esattamente come un uomo che vuole fare lo stesso mestiere. O era forse meglio quando c’era la coscrizione forzata di tutti i maschi, anche di quelli cui più ripugnava l’idea di essere militarizzati fino al punto di preferire il suicidio in casi estremi ma non rarissimi e si rifiutavano al tempo stesso le ragazze che si offrivano come volontarie perché, per ragioni loro, ritenevano che fosse quella la loro vocazione? E lo si faceva perché una cultura tradizionalista e autoritaria riteneva che la guerra fosse attività (obbligatoriamente) buona per i maschietti e “contro natura” per le donne? Quando si parla di matrimonio per i gay si parla di limitare o di non limitare la libertà di scelta degli individui (con conseguenze pratiche che possono essere rilevantissime sul piano patrimoniale e sul piano dei diritti). Altrimenti non ha senso porre il problema in relazione agli omosessuali più di quanto non ne abbia per gli eterosessuali. E infatti quarant’anni fa la contestazione del matrimonio e della “famiglia borghese” era moneta corrente. Ma nel frattempo il diritto di famiglia è cambiato ovunque, e oggi è per lo più improntato all’uguaglianza giuridica fra i coniugi. Quel che è profondamente sbagliato secondo me è mettere in relazione una condizione ascritta, che come tale non è oggetto di scelta, con orientamenti e scelte di vita che costituiscono invece libere scelte individuali. O crediamo che, pur essendo giuridicamente liberi di non farlo, i neri o gli asiatici debbano sentirsi moralmente obbligati ad adottare una cultura e stili di vita diversi da quelli degli europei indigeni?

Ma poi in che cosa consiste questa diversità culturale o esistenziale ordinatoria che dovrebbe accomunare tutti i gay? Per definirla, bisognerebbe prima stabilire quale sia l’omogeneità che caratterizza per converso tutti gli eterosessuali: e quale sarebbe? C’è una sola ed unica caratteristica che accomuna tutti gli omosessuali: quella di essere affettivamente e/o eroticamente attratti da individui del proprio sesso anziché dell’altro. Decisamente un po’ poco per appiccicarci sopra una qualunque omogeneità culturale o anche soltanto “di stile”. E per appiccicarla forzosamente anche a chi è refrattario a riconoscersi negli stereotipi elaborati nei secoli dalla fantasia popolare e dalle sue tradizioni autoritarie.

7 luglio 2012 - 23 gennaio 2013

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