La
nuova Europa vista da Trieste
di
Felice Mill Colorni
L’allargamento ad Est dell’Unione
europea, visto da un’atipica città italiana come
Trieste, cade in un momento di
intensa rimeditazione delle vicende di questa frontiera
nell’ultimo secolo (una
frontiera che è stata per decenni anche il confine
dell’Ue e dello stesso
Occidente). A prima vista potrebbe non sembrare: il Comune, per
iniziativa del
deputato di An assessore alla cultura (lo stesso che aveva suscitato un
caso
l’anno scorso ottenendo che, al posto della Liberazione, il
25 aprile si
celebrasse nel lager della Risiera di San Sabba la Riconciliazione
nazionale),
organizza una mostra su “D’Annunzio e Trieste nel
centenario del primo volo
aereo”: una celebrazione del tutto acritica del
D’Annunzio politico, soldato,
aviatore e capopopolo, dall’irredentismo nazionalista
all’impresa di Fiume e
oltre, come la si sarebbe potuta tenere all’indomani della
sua morte nel ’38
(visita consigliata a chi ritiene esagerate le polemiche sulla
strisciante
rivalutazione del fascismo da parte della destra governativa: Palazzo
Gopcevich, fino al 19 ottobre). Il Sindaco forzista non se ne cura
né se ne
intende molto e lascia fare per evitare altre grane con
l’alleato, ma sarebbe
sbagliato dedurne che la città sia tuttora in maggioranza
preda delle
ossessioni che per decenni l’avevano lasciata un
po’ tramortita e isolata,
nella sua incapacità di collocare in una prospettiva storica
le vicende del
dopoguerra, vittima di esperienze troppo complesse e troppo traumatiche
per
consentire qualunque distacco critico. La stessa polemica sulla
questione delle
“foibe”, e più in generale sugli eventi
del dopoguerra, che era stata
colpevolmente rimossa per mezzo secolo dalla coscienza civile italiana,
comincia ad essere anche oggetto di qualche riflessione più
distaccata, non più
confinata soltanto a ristrettissimi ambienti accademici; proprio mentre
rischia, all’opposto, di essere ora enfatizzata oltre ogni
misura nel resto del
paese e di essere magari letta come chiave interpretativa fondamentale
della
storia dell’Italia del Novecento e della seconda guerra
mondiale.
Forse è stata proprio, paradossalmente,
la lunga guerra nella ex Jugoslavia a costringere ad allargare lo
sguardo e a
far riacquistare agli inquieti abitanti del confine la consapevolezza
del
proprio ruolo economico e strategico nei confronti
dell’Europa centrorientale.
Chi fosse capitato da queste parti durante la guerra in Bosnia avrebbe
potuto
ricevere un’impressione opposta: salvo eccezioni, i triestini
hanno vissuto la
guerra come un evento che si svolgeva a distanza di migliaia di
chilometri, in
un altro continente, anziché alla stessa distanza di
Venezia, meno di 150
chilometri in linea d’aria (tale la distanza fra la frontiera
di Trieste e
quella della sacca di Bihać; anche se la distanza
“reale” è probabilmente
quella determinata dalla qualità di strade e ferrovie). Ma
quella distanza
mentale - e quell’apparente indifferenza perfino umana per la
sorte di quei
popoli vicini - si accompagnava per la prima volta ad una nuova
consapevolezza
della complessità e delle profonde differenze fra le
realtà esistenti oltre il
confine: un confine che, nonostante la retorica sul “confine
più aperto
d’Europa” (in realtà solo il
più aperto fra i confini che avevano diviso
l’Europa democratica e capitalistica da quella comunista),
era stato realmente
percepito dai più come il confine fra due mondi non solo
contrapposti
politicamente per effetto dei contingenti eventi della storia del
Novecento, ma
reciprocamente alieni.
Lo sgretolamento di muri vecchi di
decenni era iniziato con il duplice mandato del Sindaco Illy, alleato e
leader
“esterno” del centrosinistra nel passato decennio,
designato a guidare la
coalizione da una leadership della sinistra triestina ben consapevole
che
rompere nettamente con il passato e con le scelte effettuate dal Pci
nell’immediato dopoguerra, con l’appoggio alla
politica annessionista
jugoslava, era la condizione necessaria per recuperare
credibilità nella
competizione elettorale maggioritaria. E basti dire, per sottolineare
l’importanza di quella vittoria, che solo in quel periodo si
ebbe il primo
incontro ufficiale in assoluto fra il Sindaco di Trieste e quello di
Capodistria
(Koper), città confinarie distanti fra loro una decina di
chilometri. E suscitò
qualche scandalo nella destra il ringraziamento del neo-eletto, rivolto
anche
nella loro lingua (peraltro piuttosto stentatamente) agli elettori
sloveni.
Nonostante la successiva riconquista del Comune da parte della destra,
la nuova
recentissima vittoria della coalizione di centrosinistra, guidata dallo
stesso
Illy, alle regionali del Friuli-Venezia Giulia non è stata
significativa solo
perché sintomo di un generale indebolimento della
maggioranza berlusconiana sul
piano nazionale, ma anche per gli importanti risvolti che
potrà avere sul piano
internazionale, contribuendo a prevenire nuove potenziali derive
populiste e
contrapposizioni etnico-nazionalistiche. Ed è stato sventato
anche l’altro
rischio che era pure presente, quello che una regione a guida leghista
friulana
si ponesse come polo di riferimento per i malmostosi sentimenti
etnicisti e
antieuropei che sono ben presenti nelle valli alpine confinanti, nella
Carinzia
già di Haider come negli ambienti nazionalcattolici della
Slovenia rurale.
Non si sentono più concioni sui
“sette
fusi orari di slavismo, da Opicina [periferia tradizionalmente slovena
di
Trieste, n.d.r.] a Vladivostok” che incombono su questo
baluardo della
minacciata civiltà occidentale o latina (in
realtà i fusi sono una decina, ma
la formula è passata agli annali così: udita
dalle labbra di un primo cittadino
alla fine degli anni settanta e poi ripetuta infinite volte). La larga
maggioranza dei triestini ha lentamente compreso che
l’espressione dialettale “s’ciavi”
(con cui si indicavano tutti gli abitanti della ex Jugoslavia
più che tutti i
popoli slavi) non solo suona alquanto screanzata e offensiva, ma si
riferisce a
realtà fra loro molto diverse, per storia, radici culturali,
gradi di sviluppo
economico, civile, tradizioni democratiche. Le stesse continue
geremiadi sulle
passate tragedie (più che comprensibili, da parte di chi le
aveva patite e
viste poi rimuovere per decenni dalla coscienza nazionale
dell’Italia, quasi
che il pagamento del conto per la guerra fascista fosse stato imputato
giustamente in quella misura proprio a istriani e giuliani) cominciano
a
perdere il loro carattere immediatamente politico, su cui avevano
lucrato per
decenni non solo la destra nostalgica ma anche la Democrazia cristiana,
almeno
fino al trattato di Osimo del 1975, e poi il
“Melone” (il precursore di tutti i
movimenti populisti successivi, che retrospettivamente appare ora ben
più
presentabile e dignitoso) e la destra berlusconiana.
La città - e la regione - sembrano
ormai complessivamente consapevoli che l’allargamento
dell’Ue a una parte della
vecchia Europa comunista e la liberalizzazione di traffici e commerci
con
l’intero retroterra est-europeo possono comportare un
recupero del ruolo
storico svolto dalla Trieste moderna, a partire dal Settecento centro
emporiale
e finanziario di uno dei più importanti Stati
dell’Europa di allora. Chi non ne
sembra per nulla consapevole è invece lo Stato, e
soprattutto l’attuale
maggioranza governativa, che ha omesso di investire risorse economiche,
politiche e diplomatiche in quella che è, non solo per il
confine orientale, la
partita cruciale: il “Corridoio 5”,
l’asse di comunicazione ad alta velocità destinato
a collegare Barcellona e Lione a Budapest e a Kiev, attraversando la
pianura
padana. L’inerzia italiana ha favorito il dirottamento di
risorse e
investimenti comunitari su altre direttrici, a Nord delle Alpi: chi da
ormai
più di un decennio suona di continuo l’allarme
contro un presunto ruolo
egemonico della Germania nella politica e nell’economia
comunitarie preferisce
baloccarsi con progetti faraonici di “grandi opere”
probabilmente destinati
all’insuccesso, anziché operare in modo
più fattivo e prosaico per
un’infrastruttura fondamentale, che determinerà
irreversibilmente le direttrici
dello sviluppo europeo nei prossimi decenni.
Il tramonto dello stereotipo
“slavocomunista”, la scoperta cioè che
non solo la ex Jugoslavia, ma l’intero
Est europeo ex comunista non è il tutto omogeneo che era
stato immaginato ha
forse qualcosa da dire anche al resto del paese: non è detto
che le logiche dei
traffici economici e commerciali e quelle dell’integrazione
politica e
strategica debbano sempre e provvidenzialmente coincidere.
Se ai
triestini, nei passati decenni, il loro
confine era sempre sembrato un confine “pesante”,
non solo fra Stati ma anche
fra sistemi, ciò era dovuto essenzialmente a due ragioni. Da
un lato la città,
sola in Italia, aveva vissuto, sia pure per un periodo brevissimo di
soli
quaranta giorni, ma intensamente traumatico, l’esperienza del
comunismo reale
al potere: un comunismo, quello jugoslavo, che, non va dimenticato, era
considerato allora il più dogmatico e oppressivo
d’Europa, perfino più di
quello staliniano (il revisionismo jugoslavo ebbe inizio solo qualche
anno dopo
la rottura con l’Urss del 1948) e che per di più
giunse a Trieste al termine di
una guerra ferocissima, e intenzionato a vendicare sanguinosamente
vent’anni di
oppressione fascista delle minoranze slave della Venezia Giulia, e tre
anni di
occupazione italiana della Slovenia e della Dalmazia segnata da
indiscriminate
repressioni e da episodi, in Italia ancora oggetto di sistematica
rimozione, di
inaudita ferocia [va segnalata a questo proposito la recente
pubblicazione,
tanto più coraggiosa e meritoria in quanto effettuata a cura
dell’Ufficio
Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, del
volume di Marco Cuzzi,
L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943),
Roma 1998, che avrebbe
meritato maggiore attenzione anche da parte dei non specialisti].
D’altra parte, anche nei decenni
successivi, nonostante l’apertura dei confini, nonostante
l’ampia
frequentazione dei servizi turistici a buon mercato, nonostante i
benefici
arrecati dal piccolo commercio di confine, proprio la consuetudine con
la
realtà quotidiana del regime jugoslavo negli anni stessi del
revisionismo
titoista - che ostentava ormai un volto ruvidamente bonario con tutti
tranne
che con i dissidenti politici - aveva convinto i triestini della
profonda
alterità di quel sistema di potere. Anche tralasciando i
casi estremi (come
l’uso sistematico delle armi da fuoco contro gli
sconfinamenti di pescherecci
nel golfo di Trieste, con conseguenze talvolta letali), era del tutto
evidente
fin dal primo incontro con le guardie di frontiera, per quanto
vincolate alla
consegna di trattare con relativo riguardo gli ospiti stranieri, il
diverso
rapporto fra autorità e cittadini, anche rispetto a quello,
pure discretamente
borbonico, proprio dell’Italia.
Anche per questa esperienza diretta del
comunismo reale oggi si è qui forse, mediamente,
più pronti a giudicare
obbligato l’accoglimento nell’Unione dei paesi che
l’occupazione sovietica
aveva sottratto ai naturali legami con l’Europa occidentale,
cioè le vecchie
nazioni ricomprese, come a suo tempo Trieste e gli italiani
“adriatici”, nella
compagine dell’Impero Austro-ungarico, o comunque gravitanti
in quel contesto
culturale, che l’Occidente non aveva saputo, voluto o potuto
difendere nel ’38,
nel ’48, nel ’53, nel ’56, nel
’68, nell’81. Praga, Budapest, Varsavia non
potevano essere tenute ai margini di un mondo del quale gran parte
della loro
cultura si era considerata, nonostante le difficoltà,
naturale parte integrante.
Ma
è maturata anche la capacità di distinguere, fra
le stesse nazioni della
vecchia Jugoslavia, differenti storie, tradizioni civili e prospettive
politiche. Storicamente, il contenzioso politico e territoriale aveva
contrapposto all’Italia proprio le due Repubbliche vicine e
più sviluppate, la
Slovenia e la Croazia, cui erano andate le terre perdute con il
trattato di
pace, mentre migliore era stato il rapporto con la Serbia, cui non a
caso
andavano le simpatie prevalenti della destra triestina: ancora allo
scoppio
della guerra jugoslava, il Msi prestava ostentatamente orecchio alle
temerarie
profferte di ambienti vicini al regime di Milošević, che
ipotizzavano
spartizioni dell’Istria e della Dalmazia a spese della
Croazia e a vantaggio
dell’Italia; e venivano sistematicamente valorizzate la
memoria del ruolo di
protezione svolto durante la guerra dalle truppe di occupazione
italiane nei
confronti dei serbi di Knin contro le pulizie etniche perseguite dagli
alleati ustaša
croati, quella del salvataggio dell’esercito serbo da parte
della Marina
italiana durante la prima guerra mondiale (mentre sloveni e croati
combattevano
con convinzione dalla parte dell’Austria), perfino quella dei
legami dinastici
fra i Savoia e i principi montenegrini.
Dieci anni dopo, pur con un contenzioso diplomatico ancora aperto con Slovenia e Croazia sull’annosa questione dei beni abbandonati dai profughi istriani e fiumani (in realtà risolta già dal trattato di Osimo e dalla sua conferma nei confronti degli Stati successori espressa dal governo italiano dell’epoca), non sembrano più messe in dubbio quasi da nessuno le credenziali europee della Slovenia e le prospettive della Croazia. La Slovenia è un paese cui è stata spesso a torto rinfacciata la responsabilità per la sanguinosa dissoluzione della vecchia Jugoslavia, che però al momento della secessione slovena si stava con ogni evidenza avviando a divenire una sorta di manicomio criminale, uscire dal quale era questione di mera sopravvivenza; ma non va dimenticato neppure che il movimento per l’indipendenza aveva le sue radici soprattutto nei movimenti giovanili antimilitaristi e per i diritti civili degli anni ’80, piuttosto che in atteggiamenti etnonazionalistici - che pure tuttora episodicamente emergono, anche ad alto livello. E la stessa Croazia, dopo il tramonto del regime nazionalista di Franjo Tuđman seguito alla sua morte, alleggerita dal peso dell’arretrata Erzegovina, che quel regime intendeva inglobare sottraendola alla federazione con la Bosnia e da cui aveva tratto buona parte dei suoi esponenti più bellicisti e corrotti, sembra avviata verso una progressiva normalizzazione e verso un faticoso adeguamento a standard e parametri europei; anche la sua situazione economica la rende, unica fra gli Stati balcanici, possibile candidata ad allargamenti ulteriori a quello già in corso.
(...)
Da Lettera Internazionale, edizione italiana, n. 77/2003.
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