Tentato suicidio
di
Felice Mill Colorni
Prigioniere di metodi
di lotta elettorale che, quanto più si imperniano su futili scontri di
personalità e di caratteri, tanto più sembrano impedire ogni emersione e ogni
esercizio di leadership, le classi politiche europee non osano ribellarsi alla dittatura
dei sondaggi, non osano mettere i cittadini elettori davanti alle loro
responsabilità storiche. Non osano e non vogliono – gli ripugna davvero, anche
quando sanno benissimo che l’alternativa è il suicidio collettivo – rinunciare
a esercitare la loro ormai patetica “sovranità” statale, per candidarsi piuttosto
a gestire una sovranità condivisa: la sola sovranità oggi ancora possibile per
gli europei del XXI secolo. Il risultato è che cittadini elettori e classi
politiche inette stanno impiccando l’Europa sull’altare delle sovranità statali,
stanno sacrificando la sua possibilità di autodeterminazione e la sua
prosperità, e l’influenza della sua cultura civile nel mondo, in nome di un
inservibile feticcio del passato.
Al più, i nostri governanti
sembrano per ora avaramente disposti a discutere in comune di più ampie
porzioni dei loro affari statali in riservate quanto ormai pletoriche assemblee
intergovernative, fingendo di poter ritrovare il filo di decisioni razionali
assemblando e amalgamando i pareri unanimi di 27 o 28 governi statali e di poterne
cavare qualcosa di sensato. Da far poi trangugiare ai Parlamenti statali,
all’ultimo minuto, ogni volta come la sola soluzione possibile pena la
catastrofe. O da sottoporre soltanto – è l’ultimo grido – a nuove assemblee non
direttamente elette come lo è il Parlamento Europeo, e meramente consultive.
Rinunciare a processi
decisionali europei democraticamente formati su base europea significa così
rinunciare a ogni possibile forma di decisione democratica efficace, con buona
pace delle piazze populiste che reclamano vincoli di mandato e dei compassati commentatori
che si mostrano preoccupati per la dissociazione delle democrazie dalle loro
culle nazionali. Culle da tempo inservibili e sfasciate, ma in cui si
vorrebbero costringere, in stato di rimbambinimento permanente, i cittadini
elettori europei disposti a farsi trasportare nel burrone da governanti
imbranati e pifferai populisti.
Fra due anni ricorrerà
il centenario del primo atto del suicidio. E la possibilità del colpo
definitivo alla civiltà liberale e democratica europea, e al suo ruolo
politico, economico, civile e culturale nel mondo globale già si profila come
uno scenario verosimile e forse perfino probabile, da prevedere approntando il
“piano B” (e C, e D). Dalla crisi dell’euro al suo crollo, dal crollo dell’euro
a quello delle istituzioni: ritorno alle guerre commerciali (da sempre preludio
di altre guerre), l’Occidente ridotto, nel mondo, agli Usa e a qualche loro
occasionale alleato. Ognuno per sé e Dio, ormai, per nessuno: gli europei
avranno già venduto definitivamente l’anima al diavolo della propria narcisistica
autodissoluzione statale, ottusamente incoraggiata dall’autolesionistica hybris delle bande bushiste di qualche
anno fa. Se finirà così, i paesi maggiori conteranno, e meritatamente, meno di
una provincia cinese.
Se il centenario sarà
celebrato con la nuova catastrofe – una catastrofe meno sanguinaria, ma
politicamente più definitiva e probabilmente irreversibile – proprio come nel
1914, non sarà stato per calcolo, per follia, per rischio calcolato. Sarà accaduto
perché, di nuovo, le classi politiche europee si saranno fatte trascinare, come
allora, sull’onda delle soluzioni più automatiche e rudimentali, più
rispondenti alla loro miopia, decisioni assunte ricercando soltanto la linea di
minore resistenza, o piegando il capo, come allora, davanti alla pressione
congiunta di forti interessi economici di brevissimo termine, ancor più miopi
della politica stessa, e di un’agenda dettata dallo stupidario di massa cui non
avranno saputo contrapporre uno straccio di ragionamento, di razionalità, di
richiamo ai fondamenti di una convivenza costituzionale comune faticosamente
edificata, che pure aveva saputo incarnare e rappresentare secoli di pensiero e
di lezioni duramente apprese. La banalità dell’inettitudine, più che del male.
Sembra incredibile che
si possa diventare così inconsapevoli solo perché chi oggi è al potere, a
differenza degli immediati predecessori, non ha sperimentato direttamente e
personalmente le tragedie cruente del Novecento. Sembra incredibile che
l’esperienza dell’autodistruzione venga dimenticata con tanta frivolezza e
fatuità, neppure dai nipoti, ma già dai figli dei direttamente colpiti. Non dovrebbe
essere lecito per classi dirigenti responsabili ignorare così allegramente le
lezioni della storia e quelle del presente. Il fatto è che di classi dirigenti
non si vede l’ombra.
Una lotta politica
basata solo sui capricciosi e momentanei desideri dei consumatori, che non si
propone più neppure di influire su quei desideri, ma di farne uso così come
sono, e neanche per “conquistare il potere”, ma ormai solo per “fare carriera”
e trovare una nicchia in cui salvarsi individualmente dal disastro comune:
forse è proprio la struttura della lotta politica democratica, che ormai
ricalca con minor fantasia il marketing commerciale, a impedire agli europei di
aprire gli occhi.
Per le civiltà come per
gli individui, suicidarsi è sempre una possibilità. Può anche essere una scelta
rispettabile. Suicidarsi senza averne la consapevolezza, solo per miopia, è
imperdonabile.
Per una politica che ha
perso ogni senso di responsabilità, l’economia politica torna ad essere, come
chiedono gli elettori e come era prima di Adam Smith, nient’altro che una
branca della filosofia morale, in cui si tratta, fanciullescamente, di premiare
i probi e di punire i discoli – l’ha rimarcato Monti in un’uscita stranamente
passata quasi inosservata. E nulla conta quanto gli elettori degli altri paesi possano
davvero ritenersi responsabili o consapevoli a loro volta delle stupidaggini o
degli imbrogli commessi da politicanti di infimo ordine, quanta e quale fosse
la libertà di scelta loro consentita dai sistemi elettorali, quante le opportunità
di formarsi un’opinione consapevole: come nel ’14, siamo ritornati alla logica
barbarica della responsabilità collettiva.
Non rischiare, a costo
della rovina, di premiare i reprobi, intimano le assemblee televisive e
digitali ai politici tedeschi; riprendiamoci la sovranità monetaria, pretendono
le orde populiste greche, francesi, spagnole, presto italiane, ignare di quel
che dicono e di quel che le aspetterebbe e forse le aspetta: e trovano pronti a
compiacerle non frange lunatiche di semisconosciuti apprendisti stregoni, ma ciarlatani
già assurti ai massimi vertici del potere statale, che prometterebbero anche di
sganciare un’atomica, se solo venisse loro richiesto, pur di riprendersi
l’osso. (Il rischio non c’è: a differenza di un secolo fa, la nuova catastrofe,
se ci sarà, farà strage in totale assenza di aspiranti martiri. La stoltezza è analoga,
la voglia di spargere sangue proprio e altrui, per fortuna, è sparita: l’aspettativa
di vita degli europei si accorcerà per effetto dell’avvitarsi della crisi, ma
sarà per conseguenza inintenzionale, non per seduzione della guerra
rigeneratrice).
Non è più l’ora dei
pannicelli caldi. Le soluzioni tampone fanno solo bruciare miliardi di euro e
nel giro ormai di poche ore ci si ritrova al punto di partenza perché quel che manca
radicalmente è la credibilità della politica e della sua volontà di agire. Se
si vogliono salvare, e se vogliono salvare la loro prosperità e la loro civiltà,
gli europei possono soltanto mettere in comune le risorse, darsi comuni
istituzioni democratiche, e politiche comuni a livello federale. Più tempo si
perde, più il conto sarà impossibile da saldare. E più ne sarà accelerata l’egemonia mondiale –
pacifica, certo: saremo stati noi a garantirgliela – di soggetti estranei alla
democrazia liberale, alle sue libertà e ai suoi diritti, ma capaci di guardare molto
più lontano di noi.
Bisogna trovare il coraggio di spiegarlo ai cittadini elettori. Se poi la maggioranza dovesse scegliere ugualmente il suicidio, si tratterebbe almeno una scelta volontaria.
Da Gli Stati Uniti
d’Europa, n.
29, maggio 2012
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