In Tv straripare, monopolizzare, colonizzare. I dossier su confessioni religiose e Tv
di
Felice Mill Colorni
Accanto
all’ormai tradizionale rapporto annuale sulla secolarizzazione della società
italiana curato assieme al Settore Nuovi Diritti della Cgil nazionale, che
copre ormai un periodo di diciannove anni, la fondazione Critica liberale
presenta quest’anno la seconda edizione del dossier sui tempi di notizia e di
parola del Papa Benedetto XVI e dei diversi soggetti confessionali, che copre
gli ultimi tre anni e il primo trimestre dell’anno in corso, nonché, per la
prima volta, un dossier completo sulla presenza delle confessioni religiose nei
media televisivi: talkshow, fiction,
cerimonie religiose, che è stato reso possibile grazie al contributo
finanziario dell’otto per mille della Chiesa Valdese, che ha voluto registrare
i dati effettivi della sperequazione televisiva. Le due ricerche sono state
effettuate dall’Osservatorio Isimm Ricerche.
Grazie a una più
precisa organizzazione dei dati, la ricerca di quest’anno sulla presenza delle
diverse confessioni religiose nelle reti televisive italiane consente di
verificare quel che l’anno scorso, nell’indagine limitata ai tempi di notizia e
di parola, era ancora necessariamente un’ipotesi. I dati della sola ricerca sui
tempi di notizia e di parola allora a disposizione, e che sono stati comunque aggiornati
e resi comparabili nella prosecuzione che presentiamo qui di quella ricerca, raggruppavano
sotto la generica etichetta “altri soggetti confessionali” tutto quel che non
era cattolico, ebraico o musulmano; e per di più i dati disponibili si
limitavano a una valutazione meramente quantitativa dello spazio televisivo
attribuito ai diversi soggetti. Oggi, sulla scorta del secondo e più completo dossier
sui tempi di presenza complessivi che è alla sua prima edizione, possiamo
definitivamente concludere che non solo la presenza della Chiesa cattolica ha
dimensioni quasi totalitarie nell’offerta televisiva italiana, ma anche che le
altre confessioni religiose rilevano pressoché soltanto in quanto soggetti
della geopolitica contemporanea o della storia, e non anche come soggetti del
pluralismo religioso esistente e radicato all’interno della società italiana.
E il dato più
straordinario, che appare in tutta la sua evidenza nella ricerca di quest’anno,
è la sostanziale cancellazione in radice dell’esistenza stessa nella società
italiana di una delle due confessioni autoctone diverse dal cattolicesimo,
quella protestante. Una componente certamente minoritaria della società
italiana, quella protestante, ma che, come quella ebraica (che è addirittura attestata
in Italia fin da prima ancora della nascita del cristianesimo), è presente sul
territorio italiano fin dai primi anni della Riforma, all’inizio del
Cinquecento. Anzi, vi era presente in un certo senso già prima, dato che come è
noto i valdesi esistevano come movimento cristiano dissidente, e considerato
ereticale dalla Chiesa cattolica, già da almeno tre secoli prima di aderire
alla Riforma quando questa aveva cominciato ad affermarsi in altre parti
d’Europa. Quel che non era riuscito ai duchi di Savoia sembra essere ora
riuscito alla televisione, “pubblica” e non. Certo, non si tratta più di uno
scopo consapevolmente perseguito, ma forse è proprio per questo che il fatto è
ancor più significativo. Il punto meriterà qualche approfondimento.
La situazione non è comunque
sostenibile, e certamente ne sono consapevoli anche le gerarchie cattoliche.
Che però, finché possono, non trovano sconveniente lucrare in questo modo sulla
disponibilità della politica a far loro mantenere una posizione di privilegio
che non si giustifica. Non si giustifica non solo per la sua evidente iniquità,
ma anche perché la disponibilità della classe politica a privilegiare e a
discriminare è inversamente proporzionale all’avanzare irresistibile della
secolarizzazione della società italiana nei comportamenti e atteggiamenti
concreti, nella sua vita effettiva, al di là delle vuote rassicurazioni offerte
dalla politica.
Perché non è possibile fingere
che si tratti soltanto di inerzia, di un generale assopimento della politica
italiana quasi tutta intera su abitudini dure a morire. Si tratta di scelte
politiche consapevoli, di cui del resto non si fa mistero. Da un lato è la
politica che determina questa soppressione televisiva del pluralismo e della
pluralità delle voci, che in materia di opinioni e sensibilità religiose è
ancor più evidente che in altri campi, perché, come si vede, è possibile
misurarla. È la politica che, in Italia più che in qualunque altro paese
occidentale e sviluppato, determina l’offerta politico-culturale televisiva:
semplicemente perché in Italia la politica è la padrona assoluta della
televisione, in ragione del controllo che esercita sulla Rai e in ragione del
mostruoso conflitto di interessi impersonato da Silvio Berlusconi.
E d’altra parte è quasi
tutta la politica italiana, da decenni, e tanto più quanto più si indebolisce
la Chiesa cattolica, che si sente investita della missione di sostenerne la
potenza, e di sostenere la finzione della pretesa, perdurante, intrinseca e
compatta identità cattolica di un’Italia che è invece un paese sempre più
secolarizzato e sempre più religiosamente plurale. Quella del
“cattolicesimo-di-chiesa” che resta «docile alla guida dei propri pastori»,
come ebbe a definirlo il predecessore dell’attuale Pontefice, con un linguaggio
davvero rivelatore e che non cessa di sorprenderci per la sua sincerità, quella
del cattolicesimo che si tiene saldamente al di qua dell’argine che lo separa
dal dilagante “scisma sommerso” è solo, forse ancora, la maggiore delle
minoranze che compongono la società italiana contemporanea dal punto di vista
dei suoi orientamenti in materia di fedi religiose.
La finzione politico-mediatica
di un’Italia sostanzialmente rimasta identitariamente cattolica, più o meno
come lo era ancora agli albori della storia repubblicana, nell’Italia
prevalentemente contadina del 1948, è forte solo di un’atavica propensione
nazionale al servilismo e all’ossequio formale nei confronti di chi detiene
posizioni dominanti. In materia di religione la cifra dell’atteggiamento
italiano, oggi come nel Cinquecento, ma senza più le poderose attenuanti che
certamente avevano gli italiani del Cinquecento, è il nicodemismo. In Italia
non si dicono affatto cattolici soltanto coloro che seguono la fede cattolica e
i pochi che sanno ancora in che cosa consista.
Si dice
sistematicamente cattolico, senza troppe esitazioni e senza troppi patemi, un
numero di italiani superiore a quello di chi, richiesto di risposte più
circostanziate, afferma di credere in Dio: un comportamento che accomuna gli
italiani a quei paesi dell’Europa centrorientale in cui l’orientamento
religioso è un mero indice di appartenenza etnica. Si dicono senza esitazioni
cattolici molti di coloro che del cattolicesimo ignorano anche i rudimenti, e
che non mettono mai piede in un luogo di culto se non per assistere a matrimoni
o funerali, per prendere parte ad attività ricreative o per compiere visite a
luoghi di interesse turistico. Si dicono con convinzione cattolici gli atei
devoti e i miscredenti clericali che si ancorano alla Chiesa cattolica nella
speranza di servirsene come di una riserva di munizioni contro diritti individuali
all’autodeterminazione che appaiono loro eccessivi, oppure contro “la sinistra”
(qualunque cosa identifichino con la sinistra), oppure, e spesso molto esplicitamente,
contro gli immigrati, e soprattutto contro quelli che non sono bianchi. Si
dicono cattolici anche molti che vogliono soltanto usare il crocifisso come una
clava con cui tenere alla larga i nuovi venuti. Si dicono cattolici molti che
semplicemente trovano comodo delegare ai sacerdoti cattolici il disbrigo di
incombenze complicate o sgradevoli e di cui i sacerdoti sono pratici, come
celebrare matrimoni e soprattutto funerali, battesimi intesi come cerimonie per
l’imposizione del nome al neonato, o prime comunioni e cresime dei figli intese
come meri riti di passaggio verso l’adolescenza o l’età adulta. Si dicono
cattolici quasi tutti coloro che semplicemente non si sentono atei, agnostici o
razionalisti, che interrogati nei sondaggi bofonchiano che «qualcosa però dev’esserci»,
che nutrono credenze vaghissime e affievolite e che spesso rasentano o si
identificano con superstizioni totalmente pagane, del resto sempre ben
presenti, e tollerate – anzi, ben accette e perfino vellicate dalle gerarchie –
almeno quando sono incardinate nelle pratiche di una religiosità popolare arcaica
e tradizionale, che sopravvive soprattutto nelle regioni in cui la
Controriforma non aveva dispiegato la sua potenza, perché erano al riparo dalla
ben più temuta minaccia luterana. Si dicono senza esitazione cattolici anche quegli
italiani che frequentano maghi e fattucchiere quanto e più delle parrocchie, e che,
diffidenti della scienza, tradussero le loro propensioni in un astensionismo
che si sommò a quello fisiologico nei referendum, e furono per questo a suo
tempo ascritti senza complessi a un’asserita riscossa cattolica che, si disse,
sarebbe stata evidenziata dal fallimento del referendum sulla fecondazione
assistita di sei anni fa, che avrebbe anzi segnato un epocale punto di svolta
rispetto alle consultazioni su divorzio e aborto di trent’anni prima.
Quel che stupisce un
non credente che si ostina a supporre che Parigi non dovrebbe valere una messa,
o almeno non così regolarmente e sistematicamente, è che non solo la gerarchia
cattolica non disdegni di farsi forte di fronte alla politica – e di fronte a
quale politica – di queste improbabili adesioni per ottenerne favori, denaro e
privilegi, ma che la “religione dello scenario”, o meglio la religione ridotta
a scenario, certo ancora fortissima in questa sua ridimensionata funzione, e
però sempre più sintomo della “debolezza della fede”, sia gradita come foriera
o segno di non si sa quale persistente vitalità che starebbe a testimoniare,
anziché come sintomo ineluttabile di un avvenuto e galoppante svuotamento.
La soverchiante
presenza televisiva del cattolicesimo ufficiale è certamente parte integrante e
decisiva di questo scenario largamente svuotato di sostanza come i finti
rivestimenti marmorei dei piani alti di tanti edifici barocchi.
È questo il secondo
anno che la ricerca sulla presenza della Chiesa cattolica nei media, in questa
edizione estesa alla massiccia offerta di intrattenimento e infotainment
(forse
perfino più significativa dei tempi di notizia e di parola), esce in
contemporanea con il rapporto annuale sulla secolarizzazione della società
italiana che la fondazione Critica liberale cura assieme al settore Nuovi
Diritti della Cgil nazionale, e che copre ormai quasi vent’anni di storia della
società italiana. La coincidenza non è casuale ed è certamente istruttiva. Il
confronto fra queste due ricerche rivela, meglio di qualunque perorazione di
principio in favore della pari dignità sociale dei cittadini credenti e no, la
finzione su cui si regge l’intera fabbrica politico-mediatica della perdurante
e indiscutibile “identità” cattolica e papalina dell’Italia. Il confronto
dimostra, in modo, ci pare, davvero incontrovertibile, che – all’opposto di
quel che pretende la vulgata politico-mediatica quando vaneggia di un’avvenuta
inversione di tendenza – il processo di secolarizzazione procede, inesorabile e
perfino regolare nella sua progressione, anche rispetto agli anni dei referendum
degli anni Settanta. Non vi sono sbalzi, non vi sono
quasi mai sorprese eclatanti, dati che da soli saltino agli occhi, solo un
processo incessante, persistente, continuo e inesorabile: e proprio per questo
più profondo e significativo. Non sono valsi a invertire la tendenza, nei diciannove
anni coperti dallo studio, né i mutamenti politici, né l’atteggiamento corrivo
dei media, della politica e della cultura. E neppure la moltiplicazione degli
spazi televisivi di informazione e propaganda confessionale. La tendenza non ha
subito alcuna inversione neppure nell’anno del Giubileo cattolico o in quello
segnato dalla grande emozione popolare per l’agonia e la morte di Giovanni
Paolo II. I comportamenti concreti degli italiani che sono oggetto di
necessaria e formale registrazione statistica contraddicono in modo manifesto
la vulgata e contraddicono in modo altrettanto netto l’opposta propensione
della grande maggioranza della classe politica a sostenere con sempre nuove
concessioni legislative e sostegni materiali le pretese del cattolicesimo
ufficiale.
È un peccato che, a
differenza di quella sulla secolarizzazione, la ricerca sulla presenza
cattolica nei media copra soltanto gli ultimi due anni, e con tanta completezza
solo l’ultimo. Ed è un peccato che non siano neppure possibili ricostruzioni a
posteriori dei dati relativi agli anni precedenti, dato che questa ricerca, a
differenza dell’altra che si basa sulla ricognizione di dati già rilevati e
disponibili, richiede un monitoraggio costante delle trasmissioni. Sarebbe
infatti estremamente istruttivo poter ricostruire quale fosse la situazione nel
recente passato italiano, e, in particolare, nel passaggio fra l’epoca
dell’egemonia (anche televisiva) democristiana e la repubblica bipolare
dell’“età berlusconiana”. Ci sembra però più che ragionevole avanzare l’ipotesi
che la presenza televisiva cattolica sia dilagata soprattutto negli ultimi
anni, e che ancor più si sia fatta sempre più ossequiosa e “di regime” la
qualità dell’atteggiamento giornalistico e narrativo nei confronti del
cattolicesimo ufficiale, e semplicemente apologetica la fiction. Le non rare
riproposizioni da parte di Rai Storia di programmi informativi di quaranta o
trent’anni fa sembrano confermare come all’epoca esistessero, accanto a
trasmissioni di mera propaganda confessionale, anche spazi di informazione e di
dibattito molto più liberi degli attuali. Sarebbe anche interessante verificare
come l’improvviso profluvio di trasmissioni religiose cattoliche che dilagò nel
2000, anno del Giubileo cattolico, si sia poi consolidato come realtà
strutturale, trasformando in stabile reconquista clerical-cattolica quel
che si era voluto inizialmente giustificare con l’asserita eccezionalità del
momento.
La classe
politica si è creata un mito per giustificare tutto questo. Mito cui ha
probabilmente finito per credere davvero. Si tratta della convinzione che, dopo
gli anni dell’ondata libertaria e dell’ampliamento dei diritti civili e delle
libertà individuali, si sia formata una contro-ondata, che abbia segnato l’ora
del ritorno all’ordine, alla tradizione, all’obbedienza all’autorità, al sacro,
alla gerarchia. Nel rozzo dibattito italiano degli ultimi anni si sono voluti amalgamare
fenomeni disparati come la fine del comunismo, il tramonto delle ideologie (mai
che si specificasse quali), l’esaurimento del “lungo ‘68”, la revanche de Dieu, il ritorno del sacro.
Tutto per giustificare le elucubrazioni di una destra primitiva e unica in
Europa, agli occhi della quale non c’è intruglio reazionario che non possa
essere propinato come espressione di vera e suprema modernità, contro la
modernità storica: dal ripudio della Costituzione italiana, dell’integrazione
europea e della Resistenza alla rivalutazione del fascismo storico, dal rifiuto
del Risorgimento a quello dell’intera tradizione illuministica, e non solo di
tutto il socialismo ma anche del liberalismo e dell’intera modernità politica
europea. Non resterebbe che “tornare alle radici”, cioè alla Cristianità
medievale o almeno al cattolicesimo controriformista e proporli, con ostinata
quanto vana petulanza, come soluzione dei problemi di identità comunitaria a
un’Europa che non prende nemmeno sul serio, né si cura più di riferire o di
assistere, a questo penoso e autistico dibattito italiano. E il nostro
liquidissimo “centrosinistra”, che, soprattutto nelle componenti che hanno dato
vita al suo partito relativamente più grosso, in materia di laicità è sempre
stato a dir poco timidissimo, si è sostanzialmente accodato, more solito, pur con qualche altrettanto
solita precisazione, attenuazione, sottolineatura: illudendosi di poter davvero
inseguire e contrastare su questo piano un avversario che, essendo privo di
principi, potrà sempre offrire di più, molto di più, sempre e comunque.
Dal punto di vista di
una classe politica sempre più screditata e ormai perfino largamente detestata,
questo atteggiamento illimitatamente disponibile è perfino comprensibile. Dopo
tutto, se paragonato all’avvenuto sprofondamento della reputazione della
politica, il progressivo indebolimento storico della Chiesa cattolica è perfino
poca cosa. Se paragonato allo sgretolamento di tutte le vecchie agenzie di
organizzazione del consenso che la politica aveva a disposizione, in Italia perfino
più che altrove, ai tempi della società industriale e della cosiddetta “Prima
Repubblica”, il deperimento storico e progressivo della forza della Chiesa
cattolica può anche apparire un malessere passeggero. E irresistibile la
tentazione del moribondo di provare ad appoggiarsi al vecchio malato cronico
per trascinarsi ancora un po’ in attesa di un improbabile miracolo, o, più
prosaicamente, di prolungare la sopravvivenza. La politica è irresistibilmente
attratta dai gruppi organizzati, perché è più facile corteggiare gruppi di
elettori piuttosto che rincorrerli uno per uno.
Si tratta però di wishful
thinking.
Da un lato non si tiene
conto della disaffezione che l’ossessivo privilegiamento del cattolicesimo
ufficiale finisce per avere fra gli elettori laici, non credenti o diversamente
credenti, che, per il solo fatto di non costituire forti gruppi organizzati,
non cessano di esistere, e per i quali questo privilegiamento costituisce un
ulteriore tassello del generale disgusto per la politica, che concorre ad
accrescere l’area dell’astensione.
Vi è poi un abbaglio
che riguarda la pretesa identificazione dell’elettorato cattolico con
l’elettorato “di centro”. I media e la classe
politica italiana sono convinti, per ormai atavica quanto inestirpabile
credenza, e dal 1974 in poi sono anche indifferenti a ogni smentita empirica,
che l’elettorato strategico da conquistare per vincere le elezioni sia quello
“cattolico”, che ottusamente continuano a identificare con un loro immaginario
baricentro mentale del sistema politico (quando invece, nella cosiddetta “Prima
Repubblica”, la Dc poteva definirsi “centro” pur avendo alla sua destra solo il
5-6 % del Msi e alla sua sinistra circa il 60 %, solo perché in quegli anni
“destra” in Italia era sinonimo di neofascismo). Da anni ogni indagine dimostra
come gli elettori cattolici, anche praticanti, siano spalmati quasi
uniformemente sull’intero arco del continuum
destra / sinistra, che pochissimi di loro seguano pedissequamente le
indicazioni politiche della gerarchia. Ma è convinzione conficcata
nell’immaginario della classe politica e dei media che sia vero il contrario,
tanto che sono perfino capaci di proiettare questa loro convinzione su altri
paesi, come la Spagna, in cui questa credenza è assente. La lotta per la
“conquista degli incerti” o del “centro” ha quindi per posta il “voto
cattolico”, con una conseguente, ormai perfino ridicola ma ulteriore,
clericalizzazione senza fine della politica italiana.
Non a caso
abbiamo già più volte utilizzato l’espressione “cattolicesimo ufficiale”.
L’ossessiva rincorsa della politica e dei media ad essa infeudati, a cominciare
dalla televisione, a ingraziarsi le gerarchie, non tiene minimamente conto di
quella che è poi, da decenni, la realtà del cattolicesimo italiano. Che neppure
nelle sue vaste componenti “adulte” più radicate nella fede e perfino nel senso
di appartenenza ecclesiale si identifica “docilmente” e senza riserve
nell’interpretazione che di quella fede e di quel senso di appartenenza dà la
gerarchia; e ciò almeno dall’epoca del referendum sul divorzio, cioè da ormai
quasi quarant’anni. Non è solo la secolarizzazione intesa come progressiva
perdita di rilevanza del religioso nella vita concreta e quotidiana degli
individui che determina il declino dell’identità cattolica tradizionale, sono
anche sviluppi interni al mondo e alla cultura cattolica, alla stessa teologia
cattolica, che nella nostra contemporaneità non può più sopravvivere come un
corpo ermeticamente chiuso, se mai lo è stato, o isolabile dagli stimoli che
provengono dalla ricerca teologica cristiana libera da controlli gerarchici,
cioè, in buona misura, dal mondo protestante. E che, da tempo, anche a livello
di massa, si traducono in quella separazione abbastanza “tranquilla” dalla
rigidità della dottrina così come interpretata dalla gerarchia, in quel senso
di distacco, spesso pieno di rammarico per la sordità dei vertici, ma ormai
anche più rassegnato che sdegnato o esasperato: quello che Pietro Prini ha
chiamato “scisma sommerso” e che ha sì stemperato, ma anche smisuratamente
esteso il dissenso che un tempo veniva gridato dai tetti.
Un po’ come
il finanziamento pubblico elargito alle segreterie nazionali dei partiti è ben
lontano dal favorire la libertà del confronto politico, così le risorse
elargite dalla politica al cattolicesimo ufficiale, a cominciare dal quasi
monopolio dell’accesso televisivo, vanno a detrimento non solo della pari
dignità sociale dei cittadini, e delle loro opinioni in materia di religione,
ma anche della libertà di dibattito e confronto all’interno stesso del mondo
cattolico. Così l’enorme spazio riservato dalla televisione italiana al mondo
cattolico, se non è minimamente valso ad arginare la secolarizzazione né lo
“scisma sommerso”, che sono tranquillamente cresciuti per loro conto, da
decenni ormai indifferenti ad ogni richiamo, ha espletato soprattutto la
funzione di silenziatore, o di narcotico.
Di
trasmissioni capaci di suscitare una riflessione problematica, informata e non
meramente di supporto al ruolo dirigente della gerarchia, ce ne viene in mente
una sola, e non televisiva ma radiofonica: “Uomini e profeti” in onda da anni
il sabato e la domenica mattina per il più sofisticato e culturalmente elitario
pubblico di Radio 3.
Per il
resto, e con poche eccezioni (fra cui, abbastanza sorprendentemente, “Le
frontiere dello spirito” di Canale 5, certo mai eterodossa, e tuttavia di apprezzabile
livello intellettuale, soprattutto in relazione agli standard della televisione
italiana), la qualità dell’offerta televisiva in fatto di religione è
sostanzialmente quella di un sostegno passivo alla diffusione del messaggio della
gerarchia, e più spesso di propaganda “piaciona”, di apologia, o di infotainment – per sfociare infine nella propaganda
veicolata dal profluvio di fiction apertamente promozionale. Insomma, una
versione appena meno sbracata – anche perché mai segnata da dialettica o
controversie – di quella tipica da anni dell’informazione politica. Benché più
compunta, l’offerta televisiva religiosa è in genere altrettanto e più servile
di quella politica prevalente.
Fa
ovviamente eccezione la minuscola presenza, inalterata ormai da anni, delle due
trasmissioni televisive dei protestanti e degli ebrei, che da anni si alternano
ogni settimana, sistematicamente sospinte verso il cuore della notte la
domenica e il lunedì e replicate dopo una settimana il lunedì mattina. Ebrei e
protestanti hanno, tra l’altro, le loro rappresentanze democraticamente elette,
ben capaci di essere interlocutori affidabili tanto delle istituzioni quanto
del mondo dell’informazione, a cominciare dalla Rai. Sarebbe certamente
interessante, tanto per i cattolici quanto per i non credenti, avere
l’opportunità di conoscerne l’esperienza, la cultura teologica e l’impronta che
ne riceve la loro vita civile. Si tratta, dopo tutto, di due componenti
autoctone e ben radicate da secoli nella società italiana, cui hanno dato,
soprattutto nei momenti cruciali, dal Risorgimento alla Resistenza, un
contributo assolutamente sproporzionato alle loro piccole dimensioni. E si
tratta di due componenti fondamentali e costitutive della cultura europea, che
è perfino incomprensibile senza conoscerne l’apporto. Si comportano bene, non
fanno neppure proselitismo (che non si capisce tra l’altro perché sia
considerato così spesso sconveniente, trattandosi di un aspetto essenziale
della libertà di pensiero, oltre che di religione). Perché disturbano così
tanto? Solo perché, se fossero richiesti di esprimere il loro parere sulle
“questioni etiche controverse”, dimostrerebbero che la pretesa della gerarchia
cattolica di professare verità morali autoevidenti è così poco fondata da non
coinvolgere affatto neppure tutti i credenti nello stesso Dio, e neppure, nel
caso dei protestanti, tutti i cristiani?
Non si
tratta soltanto di questo, probabilmente. Esiste nei confronti di queste due
minoranze, nella cultura italiana, o almeno nelle sue componenti dominanti, un
pregiudizio negativo largamente diffuso che accomuna la tradizione cattolica,
quella marxista, quella fascista e un comune sentire ancora diffuso. C’è,
ovviamente, e persiste, un pregiudizio antiebraico, il cui carattere razzista
gran parte della cultura cattolica spesso imputa oggi alquanto arditamente alla
modernità illuministica e positivistica, attribuendo alla propria tradizione
culturale e teologica un’ostilità di carattere meramente religioso – il
cattolicesimo sarebbe stato bensì antigiudaico ma mai antisemita. Come se
l’idea della limpieza de sangre (letteralmente: purità del sangue) quale garanzia di buona fede e
buoni costumi non fosse nata nella cattolicissima Spagna degli anni successivi
alla cacciata del 1492, e come se a smentire la tesi non fossero le stesse annate
della Civiltà Cattolica almeno fino agli anni Quaranta del Novecento. E c’è poi
un diffuso e gridatissimo antisionismo che è spesso ben lungi dal limitarsi a criticare
soltanto Israele come Stato, o la politica dei suoi governi, ma costituisce la
maschera frequente di un antisemitismo “che non osa dire il suo nome”.
Ma esiste
anche una robusta tradizione di pensiero, e di atteggiamenti e riflessi e
associazioni mentali e culturali, che accomuna (non del tutto a torto)
protestantesimo ed ebraismo come matrici fondamentali, assieme ad altre, della
modernità politica individualistica, illuministica e liberale europea (e che in
una sua versione caricaturale, più rozzamente, li identifica con le “forze
oscure” dei “poteri forti” che tirano le fila del capitalismo mondiale e di
tutte le sue più oscure trame). Non si tratta soltanto della tradizione
reazionaria nata successivamente alla Rivoluzione francese. C’è anche quella
del “socialismo degli imbecilli” antisemiti, di cui studi recenti hanno molto
rivalutato la consistenza, e che ha certamente lasciato qualche traccia, magari
poco consapevole, non solo fra i più sprovveduti.
E c’è, ancor
più diffusa, una diffidenza “di sinistra” molto radicata nei confronti
dell’algido e freddo rigore protestante e calvinista, ritenuto del tutto a
torto meno permeabile del cattolicesimo alle ragioni dell’equità sociale o più
in generale ai buoni sentimenti, e, anche per questo – e molto schematicamente
– identificato tout court con
un’interpretazione caricaturale e talvolta macchiettistica, ma ben diffusa in
Italia anche nell’alta cultura, dell’etica capitalista di Max Weber e relative
asprezze da “liberismo selvaggio”. Così, “puritano” è in Italia sinonimo
corrente di bigotto e sessuofobo per qualificare qualcuno rispetto a un
cattolico della medesima epoca storica. E così il radicato pregiudizio
filocattolico e antiprotestante induce il sistema politico-mediatico a definire
“protestanti” soprattutto i letteralisti neoevangelicali – che per lo più
rifiutano la qualifica di protestanti pretendendo quella di “cristiani” –
spesso inglobandovi per ignoranza anche l’ala cattolica della “destra
religiosa” americana, mentre chiama genericamente “cristiani” i protestanti di
cui non si può che dir bene, dal dott. Schweitzer a Dietrich Bonhoeffer, dalla gran parte della Rosa bianca
tedesca (spesso addirittura qualificata come movimento cattolico
tout court) a Martin
Luther King. Tempo fa – è un peccato non essere in grado di citare con
esattezza titolo e data di trasmissione del programma e con maggior precisione
le parole utilizzate – perfino su Rai News, cioè sulla più insospettabile delle
reti televisive italiane, in un programma dedicato proprio alla figura di
Martin
Luther King si argomentava che il reverendo era così buono, ma così
buono, che lo si sarebbe potuto dire un cattolico piuttosto che un protestante.
E pesa, e probabilmente peserà ancora a lungo, il fascino che la “cultura della
Controriforma” – più di recente addirittura il tomismo – e la sua capacità
egemonica continuano ad esercitare su tanta parte degli intellettuali di
formazione comunista o provenienti dall’area culturale cattolica che era stata
più vicina al Pci, che ne ricavano ulteriori argomenti per la loro pluridecennale
politica di intesa con la gerarchia cattolica. Capita a proposito, proprio in
questi giorni, un intervento sull’Avvenire di Carlo Cardia – già stratega
concordatario del Pci e ora membro della commissione paritetica che dovrebbe
vigilare sulla congruità del gettito dell’otto per mille – secondo cui i
tardivi tentativi di promuovere la Riforma nell’Italia del Risorgimento
fallirono perché «nulla è più alieno dalla sensibilità
popolare dell’individualismo nato in Paesi lontani (sic) che cancella dalla
religione i segni esteriori, la consuetudine con il divino, i legami che
uniscono la Chiesa alla vita quotidiana, familiare, personale; così come la
venatura pessimistica protestante collide con l’ottimismo cattolico che scende
nell’intimo, e rassicura la coscienza con gioiosa serenità» (sic).
Per non
parlare delle altre minoranze religiose, quelle non autoctone, dagli ortodossi
(che peraltro sono presenti in Italia con gruppi e comunità anche antiche,
almeno in città come Venezia e Trieste) ai musulmani, agli induisti e ai
buddhisti (questi ultimi ormai ben presenti anche fra gli italiani convertiti
che ne costituiscono la gran parte), che non si capisce proprio perché non
possano avere neppure quegli spazi minimali e circoscritti che l’informazione
televisiva avarissimamente concede a protestanti ed ebrei, e che, emerge dalla
ricerca, vengono interpellati essenzialmente su questioni geopolitiche o come
referenti per i problemi legati all’immigrazione. E qui il discorso si fa
ancora più complesso, perché, come abbiamo più volte argomentato su Critica, è
indecente e irrispettoso della libertà di pensiero e di religione ascrivere
autoritativamente a un culto religioso tutti gli immigrati che provengono da un
paese in cui esiste una tradizione religiosa dominante. Per restare al caso paradigmatico
dei musulmani, ce ne sono certamente molti che si mimetizzano nel grande flusso
migratorio non solo in cerca di migliori condizioni di vita, ma anche perché in
cerca di società improntate a valori civili, etico-politici, e magari anche religiosi,
diversi da quelli della società di provenienza, dei quali non si vuol mai
accettare neppure la remota possibilità che possano essere insoddisfatti, sulla
base di considerazioni e scelte culturali e di vita individuali critiche nei
confronti di quei contesti quanto quelle di molti di noi. Abbiamo già
sottolineato altre volte che razzisti e multiculturalisti ingenui hanno almeno
un punto in comune: entrambi vogliono gli immigrati il più possibile esotici e
diversi, gli uni per meglio detestarli, gli altri per amore della società
variopinta. Ma la libertà degli immigrati come individui è largamente assente anche
dalla prospettiva benintenzionata dei secondi, oltre che da quella incivile dei
primi.
E perché poi
dell’etica non confessionale, del punto di vista laico (ormai pressoché
scomparso nella televisione italiana anche in materia di bioetica e di
“questioni etiche controverse”), e neppure di quell’“esperanto morale” di cui
vi è vitale necessità per convivere fra diversi, si ritiene che sia lecito non
dar neppure conto?
E infine, è
mai possibile che l’informazione in materia di religione non prenda sul serio,
anzi non prenda neppure in considerazione, la critica delle religioni? Non è
forse anch’essa parte della nostra storia e della nostra contemporaneità? Non
si tratta – almeno certo non da parte di convinti separatisti come noi – di
chiedere uno spazio televisivo per atei e agnostici, come è prassi in Belgio
(dove alle associazioni degli atei sono riconosciuti gli stessi diritti, e gli
stessi finanziamenti, delle confessioni religiose) e in minor misura anche in
Francia e altrove. Ma perché si ritiene che si possano o si debbano cancellare
il punto di vista secolare, la critica anche radicale delle religioni, del
teismo e di ogni deismo? Voltaire e i Lumi sono forse materia estranea alla
costruzione della storia e della civiltà occidentale?
Eppure –
bisognerà che qualcuno ne informi prima o poi la politica e i media italiani –
viviamo in un’Italia secolarizzata e religiosamente plurale, che, piaccia o non
piaccia, sembra destinata a diventarlo sempre di più. E viviamo in un’Europa che
religiosamente plurale lo è da sempre, e che oggi, senza possibili confronti, non
è il continente più cattolico, e neppure il più cristiano, ma il più
secolarizzato e il più laico del mondo.
Se
l’informazione – e prima dell’informazione fornita dai media quella scolastica
– deve servire a metterci in grado di orientarci e di compiere scelte
individuali e collettive nel mondo in cui viviamo, un’informazione come quella
che oggi ci passa il convento televisivo non serve, è solo propaganda, per di
più inefficace per gli stessi beneficiari (o al più efficace solo a vellicarne
la vanità). Non mette gli italiani in grado di capire il mondo in cui vivono,
di orientarsi consapevolmente nelle questioni controverse, di conoscere le
tradizioni altrui e neppure quelle che la politica e i media si ostinano a
definire apoditticamente “nostre”. Ci siamo quasi tutti ritrovati culturalmente
sprovveduti quando scoppiò la rivoluzione iraniana, più di trent’anni fa, e poi
di fronte a quel che ne seguì. Chi è corso ai ripari ha dovuto farlo da solo.
Oggi il risultato di un’informazione religiosa sui media ridotta a favoritismo
– e di un insegnamento confessionale, e di una sola religione, che riduce la
scuola pubblica ad agenzia di promozione a disposizione di una sola fede – riduce
i non cattolici italiani a una condizione simile a quella dei Dhimmi nell’Impero
ottomano, costringendoli a pagare tasse, balzelli e canoni a sostegno di una
fede che non è la loro. E, dato che la propaganda è nemica dell’apprendimento e
della conoscenza, sta riducendo tutti, cattolici e non cattolici, a uno stato
di ignoranza pietosa sui rudimenti (e sulla storia e sulla geopolitica) di
tutte le tradizioni religiose, inclusa la cattolica. Per non parlare del
pietoso stato presente dei costumi degli italiani, dopo secoli di educazione
cattolica, dopo novant’anni di confessionalismo prima ufficiale, poi ufficioso,
poi ridimensionato e oggi di nuovo rampante, e dopo quasi sessant’anni di
prevalente confessionalismo scolastico e televisivo.
Dobbiamo
ripetere, cinquecento anni dopo, che ancora, o di nuovo, «abbiamo adunque con
la chiesa e con i preti, noi italiani, questo primo obbligo, d’essere divantati
senza religione e cattivi»? Probabilmente no, perché forse si tratta di un
“obbligo” che oggi abbiamo piuttosto, o almeno in pari misura, con la politica e
con i media ad essa asserviti.
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