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In Tv straripare, monopolizzare, colonizzare. I dossier su confessioni religiose e Tv

di Felice Mill Colorni

Accanto all’ormai tradizionale rapporto annuale sulla secolarizzazione della società italiana curato assieme al Settore Nuovi Diritti della Cgil nazionale, che copre ormai un periodo di diciannove anni, la fondazione Critica liberale presenta quest’anno la seconda edizione del dossier sui tempi di notizia e di parola del Papa Benedetto XVI e dei diversi soggetti confessionali, che copre gli ultimi tre anni e il primo trimestre dell’anno in corso, nonché, per la prima volta, un dossier completo sulla presenza delle confessioni religiose nei media televisivi: talkshow, fiction, cerimonie religiose, che è stato reso possibile grazie al contributo finanziario dell’otto per mille della Chiesa Valdese, che ha voluto registrare i dati effettivi della sperequazione televisiva. Le due ricerche sono state effettuate dall’Osservatorio Isimm Ricerche.

Grazie a una più precisa organizzazione dei dati, la ricerca di quest’anno sulla presenza delle diverse confessioni religiose nelle reti televisive italiane consente di verificare quel che l’anno scorso, nell’indagine limitata ai tempi di notizia e di parola, era ancora necessariamente un’ipotesi. I dati della sola ricerca sui tempi di notizia e di parola allora a disposizione, e che sono stati comunque aggiornati e resi comparabili nella prosecuzione che presentiamo qui di quella ricerca, raggruppavano sotto la generica etichetta “altri soggetti confessionali” tutto quel che non era cattolico, ebraico o musulmano; e per di più i dati disponibili si limitavano a una valutazione meramente quantitativa dello spazio televisivo attribuito ai diversi soggetti. Oggi, sulla scorta del secondo e più completo dossier sui tempi di presenza complessivi che è alla sua prima edizione, possiamo definitivamente concludere che non solo la presenza della Chiesa cattolica ha dimensioni quasi totalitarie nell’offerta televisiva italiana, ma anche che le altre confessioni religiose rilevano pressoché soltanto in quanto soggetti della geopolitica contemporanea o della storia, e non anche come soggetti del pluralismo religioso esistente e radicato all’interno della società italiana.

E il dato più straordinario, che appare in tutta la sua evidenza nella ricerca di quest’anno, è la sostanziale cancellazione in radice dell’esistenza stessa nella società italiana di una delle due confessioni autoctone diverse dal cattolicesimo, quella protestante. Una componente certamente minoritaria della società italiana, quella protestante, ma che, come quella ebraica (che è addirittura attestata in Italia fin da prima ancora della nascita del cristianesimo), è presente sul territorio italiano fin dai primi anni della Riforma, all’inizio del Cinquecento. Anzi, vi era presente in un certo senso già prima, dato che come è noto i valdesi esistevano come movimento cristiano dissidente, e considerato ereticale dalla Chiesa cattolica, già da almeno tre secoli prima di aderire alla Riforma quando questa aveva cominciato ad affermarsi in altre parti d’Europa. Quel che non era riuscito ai duchi di Savoia sembra essere ora riuscito alla televisione, “pubblica” e non. Certo, non si tratta più di uno scopo consapevolmente perseguito, ma forse è proprio per questo che il fatto è ancor più significativo. Il punto meriterà qualche approfondimento.

La situazione non è comunque sostenibile, e certamente ne sono consapevoli anche le gerarchie cattoliche. Che però, finché possono, non trovano sconveniente lucrare in questo modo sulla disponibilità della politica a far loro mantenere una posizione di privilegio che non si giustifica. Non si giustifica non solo per la sua evidente iniquità, ma anche perché la disponibilità della classe politica a privilegiare e a discriminare è inversamente proporzionale all’avanzare irresistibile della secolarizzazione della società italiana nei comportamenti e atteggiamenti concreti, nella sua vita effettiva, al di là delle vuote rassicurazioni offerte dalla politica.

Perché non è possibile fingere che si tratti soltanto di inerzia, di un generale assopimento della politica italiana quasi tutta intera su abitudini dure a morire. Si tratta di scelte politiche consapevoli, di cui del resto non si fa mistero. Da un lato è la politica che determina questa soppressione televisiva del pluralismo e della pluralità delle voci, che in materia di opinioni e sensibilità religiose è ancor più evidente che in altri campi, perché, come si vede, è possibile misurarla. È la politica che, in Italia più che in qualunque altro paese occidentale e sviluppato, determina l’offerta politico-culturale televisiva: semplicemente perché in Italia la politica è la padrona assoluta della televisione, in ragione del controllo che esercita sulla Rai e in ragione del mostruoso conflitto di interessi impersonato da Silvio Berlusconi.

E d’altra parte è quasi tutta la politica italiana, da decenni, e tanto più quanto più si indebolisce la Chiesa cattolica, che si sente investita della missione di sostenerne la potenza, e di sostenere la finzione della pretesa, perdurante, intrinseca e compatta identità cattolica di un’Italia che è invece un paese sempre più secolarizzato e sempre più religiosamente plurale. Quella del “cattolicesimo-di-chiesa” che resta «docile alla guida dei propri pastori», come ebbe a definirlo il predecessore dell’attuale Pontefice, con un linguaggio davvero rivelatore e che non cessa di sorprenderci per la sua sincerità, quella del cattolicesimo che si tiene saldamente al di qua dell’argine che lo separa dal dilagante “scisma sommerso” è solo, forse ancora, la maggiore delle minoranze che compongono la società italiana contemporanea dal punto di vista dei suoi orientamenti in materia di fedi religiose.

La finzione politico-mediatica di un’Italia sostanzialmente rimasta identitariamente cattolica, più o meno come lo era ancora agli albori della storia repubblicana, nell’Italia prevalentemente contadina del 1948, è forte solo di un’atavica propensione nazionale al servilismo e all’ossequio formale nei confronti di chi detiene posizioni dominanti. In materia di religione la cifra dell’atteggiamento italiano, oggi come nel Cinquecento, ma senza più le poderose attenuanti che certamente avevano gli italiani del Cinquecento, è il nicodemismo. In Italia non si dicono affatto cattolici soltanto coloro che seguono la fede cattolica e i pochi che sanno ancora in che cosa consista.

Si dice sistematicamente cattolico, senza troppe esitazioni e senza troppi patemi, un numero di italiani superiore a quello di chi, richiesto di risposte più circostanziate, afferma di credere in Dio: un comportamento che accomuna gli italiani a quei paesi dell’Europa centrorientale in cui l’orientamento religioso è un mero indice di appartenenza etnica. Si dicono senza esitazioni cattolici molti di coloro che del cattolicesimo ignorano anche i rudimenti, e che non mettono mai piede in un luogo di culto se non per assistere a matrimoni o funerali, per prendere parte ad attività ricreative o per compiere visite a luoghi di interesse turistico. Si dicono con convinzione cattolici gli atei devoti e i miscredenti clericali che si ancorano alla Chiesa cattolica nella speranza di servirsene come di una riserva di munizioni contro diritti individuali all’autodeterminazione che appaiono loro eccessivi, oppure contro “la sinistra” (qualunque cosa identifichino con la sinistra), oppure, e spesso molto esplicitamente, contro gli immigrati, e soprattutto contro quelli che non sono bianchi. Si dicono cattolici anche molti che vogliono soltanto usare il crocifisso come una clava con cui tenere alla larga i nuovi venuti. Si dicono cattolici molti che semplicemente trovano comodo delegare ai sacerdoti cattolici il disbrigo di incombenze complicate o sgradevoli e di cui i sacerdoti sono pratici, come celebrare matrimoni e soprattutto funerali, battesimi intesi come cerimonie per l’imposizione del nome al neonato, o prime comunioni e cresime dei figli intese come meri riti di passaggio verso l’adolescenza o l’età adulta. Si dicono cattolici quasi tutti coloro che semplicemente non si sentono atei, agnostici o razionalisti, che interrogati nei sondaggi bofonchiano che «qualcosa però dev’esserci», che nutrono credenze vaghissime e affievolite e che spesso rasentano o si identificano con superstizioni totalmente pagane, del resto sempre ben presenti, e tollerate – anzi, ben accette e perfino vellicate dalle gerarchie – almeno quando sono incardinate nelle pratiche di una religiosità popolare arcaica e tradizionale, che sopravvive soprattutto nelle regioni in cui la Controriforma non aveva dispiegato la sua potenza, perché erano al riparo dalla ben più temuta minaccia luterana. Si dicono senza esitazione cattolici anche quegli italiani che frequentano maghi e fattucchiere quanto e più delle parrocchie, e che, diffidenti della scienza, tradussero le loro propensioni in un astensionismo che si sommò a quello fisiologico nei referendum, e furono per questo a suo tempo ascritti senza complessi a un’asserita riscossa cattolica che, si disse, sarebbe stata evidenziata dal fallimento del referendum sulla fecondazione assistita di sei anni fa, che avrebbe anzi segnato un epocale punto di svolta rispetto alle consultazioni su divorzio e aborto di trent’anni prima.

Quel che stupisce un non credente che si ostina a supporre che Parigi non dovrebbe valere una messa, o almeno non così regolarmente e sistematicamente, è che non solo la gerarchia cattolica non disdegni di farsi forte di fronte alla politica – e di fronte a quale politica – di queste improbabili adesioni per ottenerne favori, denaro e privilegi, ma che la “religione dello scenario”, o meglio la religione ridotta a scenario, certo ancora fortissima in questa sua ridimensionata funzione, e però sempre più sintomo della “debolezza della fede”, sia gradita come foriera o segno di non si sa quale persistente vitalità che starebbe a testimoniare, anziché come sintomo ineluttabile di un avvenuto e galoppante svuotamento.

La soverchiante presenza televisiva del cattolicesimo ufficiale è certamente parte integrante e decisiva di questo scenario largamente svuotato di sostanza come i finti rivestimenti marmorei dei piani alti di tanti edifici barocchi.

È questo il secondo anno che la ricerca sulla presenza della Chiesa cattolica nei media, in questa edizione estesa alla massiccia offerta di intrattenimento e infotainment (forse perfino più significativa dei tempi di notizia e di parola), esce in contemporanea con il rapporto annuale sulla secolarizzazione della società italiana che la fondazione Critica liberale cura assieme al settore Nuovi Diritti della Cgil nazionale, e che copre ormai quasi vent’anni di storia della società italiana. La coincidenza non è casuale ed è certamente istruttiva. Il confronto fra queste due ricerche rivela, meglio di qualunque perorazione di principio in favore della pari dignità sociale dei cittadini credenti e no, la finzione su cui si regge l’intera fabbrica politico-mediatica della perdurante e indiscutibile “identità” cattolica e papalina dell’Italia. Il confronto dimostra, in modo, ci pare, davvero incontrovertibile, che – all’opposto di quel che pretende la vulgata politico-mediatica quando vaneggia di un’avvenuta inversione di tendenza – il processo di secolarizzazione procede, inesorabile e perfino regolare nella sua progressione, anche rispetto agli anni dei referendum degli anni Settanta. Non vi sono sbalzi, non vi sono quasi mai sorprese eclatanti, dati che da soli saltino agli occhi, solo un processo incessante, persistente, continuo e inesorabile: e proprio per questo più profondo e significativo. Non sono valsi a invertire la tendenza, nei diciannove anni coperti dallo studio, né i mutamenti politici, né l’atteggiamento corrivo dei media, della politica e della cultura. E neppure la moltiplicazione degli spazi televisivi di informazione e propaganda confessionale. La tendenza non ha subito alcuna inversione neppure nell’anno del Giubileo cattolico o in quello segnato dalla grande emozione popolare per l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II. I comportamenti concreti degli italiani che sono oggetto di necessaria e formale registrazione statistica contraddicono in modo manifesto la vulgata e contraddicono in modo altrettanto netto l’opposta propensione della grande maggioranza della classe politica a sostenere con sempre nuove concessioni legislative e sostegni materiali le pretese del cattolicesimo ufficiale.

È un peccato che, a differenza di quella sulla secolarizzazione, la ricerca sulla presenza cattolica nei media copra soltanto gli ultimi due anni, e con tanta completezza solo l’ultimo. Ed è un peccato che non siano neppure possibili ricostruzioni a posteriori dei dati relativi agli anni precedenti, dato che questa ricerca, a differenza dell’altra che si basa sulla ricognizione di dati già rilevati e disponibili, richiede un monitoraggio costante delle trasmissioni. Sarebbe infatti estremamente istruttivo poter ricostruire quale fosse la situazione nel recente passato italiano, e, in particolare, nel passaggio fra l’epoca dell’egemonia (anche televisiva) democristiana e la repubblica bipolare dell’“età berlusconiana”. Ci sembra però più che ragionevole avanzare l’ipotesi che la presenza televisiva cattolica sia dilagata soprattutto negli ultimi anni, e che ancor più si sia fatta sempre più ossequiosa e “di regime” la qualità dell’atteggiamento giornalistico e narrativo nei confronti del cattolicesimo ufficiale, e semplicemente apologetica la fiction. Le non rare riproposizioni da parte di Rai Storia di programmi informativi di quaranta o trent’anni fa sembrano confermare come all’epoca esistessero, accanto a trasmissioni di mera propaganda confessionale, anche spazi di informazione e di dibattito molto più liberi degli attuali. Sarebbe anche interessante verificare come l’improvviso profluvio di trasmissioni religiose cattoliche che dilagò nel 2000, anno del Giubileo cattolico, si sia poi consolidato come realtà strutturale, trasformando in stabile reconquista clerical-cattolica quel che si era voluto inizialmente giustificare con l’asserita eccezionalità del momento.

La classe politica si è creata un mito per giustificare tutto questo. Mito cui ha probabilmente finito per credere davvero. Si tratta della convinzione che, dopo gli anni dell’ondata libertaria e dell’ampliamento dei diritti civili e delle libertà individuali, si sia formata una contro-ondata, che abbia segnato l’ora del ritorno all’ordine, alla tradizione, all’obbedienza all’autorità, al sacro, alla gerarchia. Nel rozzo dibattito italiano degli ultimi anni si sono voluti amalgamare fenomeni disparati come la fine del comunismo, il tramonto delle ideologie (mai che si specificasse quali), l’esaurimento del “lungo ‘68”, la revanche de Dieu, il ritorno del sacro. Tutto per giustificare le elucubrazioni di una destra primitiva e unica in Europa, agli occhi della quale non c’è intruglio reazionario che non possa essere propinato come espressione di vera e suprema modernità, contro la modernità storica: dal ripudio della Costituzione italiana, dell’integrazione europea e della Resistenza alla rivalutazione del fascismo storico, dal rifiuto del Risorgimento a quello dell’intera tradizione illuministica, e non solo di tutto il socialismo ma anche del liberalismo e dell’intera modernità politica europea. Non resterebbe che “tornare alle radici”, cioè alla Cristianità medievale o almeno al cattolicesimo controriformista e proporli, con ostinata quanto vana petulanza, come soluzione dei problemi di identità comunitaria a un’Europa che non prende nemmeno sul serio, né si cura più di riferire o di assistere, a questo penoso e autistico dibattito italiano. E il nostro liquidissimo “centrosinistra”, che, soprattutto nelle componenti che hanno dato vita al suo partito relativamente più grosso, in materia di laicità è sempre stato a dir poco timidissimo, si è sostanzialmente accodato, more solito, pur con qualche altrettanto solita precisazione, attenuazione, sottolineatura: illudendosi di poter davvero inseguire e contrastare su questo piano un avversario che, essendo privo di principi, potrà sempre offrire di più, molto di più, sempre e comunque.

Dal punto di vista di una classe politica sempre più screditata e ormai perfino largamente detestata, questo atteggiamento illimitatamente disponibile è perfino comprensibile. Dopo tutto, se paragonato all’avvenuto sprofondamento della reputazione della politica, il progressivo indebolimento storico della Chiesa cattolica è perfino poca cosa. Se paragonato allo sgretolamento di tutte le vecchie agenzie di organizzazione del consenso che la politica aveva a disposizione, in Italia perfino più che altrove, ai tempi della società industriale e della cosiddetta “Prima Repubblica”, il deperimento storico e progressivo della forza della Chiesa cattolica può anche apparire un malessere passeggero. E irresistibile la tentazione del moribondo di provare ad appoggiarsi al vecchio malato cronico per trascinarsi ancora un po’ in attesa di un improbabile miracolo, o, più prosaicamente, di prolungare la sopravvivenza. La politica è irresistibilmente attratta dai gruppi organizzati, perché è più facile corteggiare gruppi di elettori piuttosto che rincorrerli uno per uno.

Si tratta però di wishful thinking.

Da un lato non si tiene conto della disaffezione che l’ossessivo privilegiamento del cattolicesimo ufficiale finisce per avere fra gli elettori laici, non credenti o diversamente credenti, che, per il solo fatto di non costituire forti gruppi organizzati, non cessano di esistere, e per i quali questo privilegiamento costituisce un ulteriore tassello del generale disgusto per la politica, che concorre ad accrescere l’area dell’astensione.

Vi è poi un abbaglio che riguarda la pretesa identificazione dell’elettorato cattolico con l’elettorato “di centro”. I media e la classe politica italiana sono convinti, per ormai atavica quanto inestirpabile credenza, e dal 1974 in poi sono anche indifferenti a ogni smentita empirica, che l’elettorato strategico da conquistare per vincere le elezioni sia quello “cattolico”, che ottusamente continuano a identificare con un loro immaginario baricentro mentale del sistema politico (quando invece, nella cosiddetta “Prima Repubblica”, la Dc poteva definirsi “centro” pur avendo alla sua destra solo il 5-6 % del Msi e alla sua sinistra circa il 60 %, solo perché in quegli anni “destra” in Italia era sinonimo di neofascismo). Da anni ogni indagine dimostra come gli elettori cattolici, anche praticanti, siano spalmati quasi uniformemente sull’intero arco del continuum destra / sinistra, che pochissimi di loro seguano pedissequamente le indicazioni politiche della gerarchia. Ma è convinzione conficcata nell’immaginario della classe politica e dei media che sia vero il contrario, tanto che sono perfino capaci di proiettare questa loro convinzione su altri paesi, come la Spagna, in cui questa credenza è assente. La lotta per la “conquista degli incerti” o del “centro” ha quindi per posta il “voto cattolico”, con una conseguente, ormai perfino ridicola ma ulteriore, clericalizzazione senza fine della politica italiana.

Non a caso abbiamo già più volte utilizzato l’espressione “cattolicesimo ufficiale”. L’ossessiva rincorsa della politica e dei media ad essa infeudati, a cominciare dalla televisione, a ingraziarsi le gerarchie, non tiene minimamente conto di quella che è poi, da decenni, la realtà del cattolicesimo italiano. Che neppure nelle sue vaste componenti “adulte” più radicate nella fede e perfino nel senso di appartenenza ecclesiale si identifica “docilmente” e senza riserve nell’interpretazione che di quella fede e di quel senso di appartenenza dà la gerarchia; e ciò almeno dall’epoca del referendum sul divorzio, cioè da ormai quasi quarant’anni. Non è solo la secolarizzazione intesa come progressiva perdita di rilevanza del religioso nella vita concreta e quotidiana degli individui che determina il declino dell’identità cattolica tradizionale, sono anche sviluppi interni al mondo e alla cultura cattolica, alla stessa teologia cattolica, che nella nostra contemporaneità non può più sopravvivere come un corpo ermeticamente chiuso, se mai lo è stato, o isolabile dagli stimoli che provengono dalla ricerca teologica cristiana libera da controlli gerarchici, cioè, in buona misura, dal mondo protestante. E che, da tempo, anche a livello di massa, si traducono in quella separazione abbastanza “tranquilla” dalla rigidità della dottrina così come interpretata dalla gerarchia, in quel senso di distacco, spesso pieno di rammarico per la sordità dei vertici, ma ormai anche più rassegnato che sdegnato o esasperato: quello che Pietro Prini ha chiamato “scisma sommerso” e che ha sì stemperato, ma anche smisuratamente esteso il dissenso che un tempo veniva gridato dai tetti.

Un po’ come il finanziamento pubblico elargito alle segreterie nazionali dei partiti è ben lontano dal favorire la libertà del confronto politico, così le risorse elargite dalla politica al cattolicesimo ufficiale, a cominciare dal quasi monopolio dell’accesso televisivo, vanno a detrimento non solo della pari dignità sociale dei cittadini, e delle loro opinioni in materia di religione, ma anche della libertà di dibattito e confronto all’interno stesso del mondo cattolico. Così l’enorme spazio riservato dalla televisione italiana al mondo cattolico, se non è minimamente valso ad arginare la secolarizzazione né lo “scisma sommerso”, che sono tranquillamente cresciuti per loro conto, da decenni ormai indifferenti ad ogni richiamo, ha espletato soprattutto la funzione di silenziatore, o di narcotico.

Di trasmissioni capaci di suscitare una riflessione problematica, informata e non meramente di supporto al ruolo dirigente della gerarchia, ce ne viene in mente una sola, e non televisiva ma radiofonica: “Uomini e profeti” in onda da anni il sabato e la domenica mattina per il più sofisticato e culturalmente elitario pubblico di Radio 3.

Per il resto, e con poche eccezioni (fra cui, abbastanza sorprendentemente, “Le frontiere dello spirito” di Canale 5, certo mai eterodossa, e tuttavia di apprezzabile livello intellettuale, soprattutto in relazione agli standard della televisione italiana), la qualità dell’offerta televisiva in fatto di religione è sostanzialmente quella di un sostegno passivo alla diffusione del messaggio della gerarchia, e più spesso di propaganda “piaciona”, di apologia, o di infotainment – per sfociare infine nella propaganda veicolata dal profluvio di fiction apertamente promozionale. Insomma, una versione appena meno sbracata – anche perché mai segnata da dialettica o controversie – di quella tipica da anni dell’informazione politica. Benché più compunta, l’offerta televisiva religiosa è in genere altrettanto e più servile di quella politica prevalente.

Fa ovviamente eccezione la minuscola presenza, inalterata ormai da anni, delle due trasmissioni televisive dei protestanti e degli ebrei, che da anni si alternano ogni settimana, sistematicamente sospinte verso il cuore della notte la domenica e il lunedì e replicate dopo una settimana il lunedì mattina. Ebrei e protestanti hanno, tra l’altro, le loro rappresentanze democraticamente elette, ben capaci di essere interlocutori affidabili tanto delle istituzioni quanto del mondo dell’informazione, a cominciare dalla Rai. Sarebbe certamente interessante, tanto per i cattolici quanto per i non credenti, avere l’opportunità di conoscerne l’esperienza, la cultura teologica e l’impronta che ne riceve la loro vita civile. Si tratta, dopo tutto, di due componenti autoctone e ben radicate da secoli nella società italiana, cui hanno dato, soprattutto nei momenti cruciali, dal Risorgimento alla Resistenza, un contributo assolutamente sproporzionato alle loro piccole dimensioni. E si tratta di due componenti fondamentali e costitutive della cultura europea, che è perfino incomprensibile senza conoscerne l’apporto. Si comportano bene, non fanno neppure proselitismo (che non si capisce tra l’altro perché sia considerato così spesso sconveniente, trattandosi di un aspetto essenziale della libertà di pensiero, oltre che di religione). Perché disturbano così tanto? Solo perché, se fossero richiesti di esprimere il loro parere sulle “questioni etiche controverse”, dimostrerebbero che la pretesa della gerarchia cattolica di professare verità morali autoevidenti è così poco fondata da non coinvolgere affatto neppure tutti i credenti nello stesso Dio, e neppure, nel caso dei protestanti, tutti i cristiani?

Non si tratta soltanto di questo, probabilmente. Esiste nei confronti di queste due minoranze, nella cultura italiana, o almeno nelle sue componenti dominanti, un pregiudizio negativo largamente diffuso che accomuna la tradizione cattolica, quella marxista, quella fascista e un comune sentire ancora diffuso. C’è, ovviamente, e persiste, un pregiudizio antiebraico, il cui carattere razzista gran parte della cultura cattolica spesso imputa oggi alquanto arditamente alla modernità illuministica e positivistica, attribuendo alla propria tradizione culturale e teologica un’ostilità di carattere meramente religioso – il cattolicesimo sarebbe stato bensì antigiudaico ma mai antisemita. Come se l’idea della limpieza de sangre (letteralmente: purità del sangue) quale garanzia di buona fede e buoni costumi non fosse nata nella cattolicissima Spagna degli anni successivi alla cacciata del 1492, e come se a smentire la tesi non fossero le stesse annate della Civiltà Cattolica almeno fino agli anni Quaranta del Novecento. E c’è poi un diffuso e gridatissimo antisionismo che è spesso ben lungi dal limitarsi a criticare soltanto Israele come Stato, o la politica dei suoi governi, ma costituisce la maschera frequente di un antisemitismo “che non osa dire il suo nome”.

Ma esiste anche una robusta tradizione di pensiero, e di atteggiamenti e riflessi e associazioni mentali e culturali, che accomuna (non del tutto a torto) protestantesimo ed ebraismo come matrici fondamentali, assieme ad altre, della modernità politica individualistica, illuministica e liberale europea (e che in una sua versione caricaturale, più rozzamente, li identifica con le “forze oscure” dei “poteri forti” che tirano le fila del capitalismo mondiale e di tutte le sue più oscure trame). Non si tratta soltanto della tradizione reazionaria nata successivamente alla Rivoluzione francese. C’è anche quella del “socialismo degli imbecilli” antisemiti, di cui studi recenti hanno molto rivalutato la consistenza, e che ha certamente lasciato qualche traccia, magari poco consapevole, non solo fra i più sprovveduti.

E c’è, ancor più diffusa, una diffidenza “di sinistra” molto radicata nei confronti dell’algido e freddo rigore protestante e calvinista, ritenuto del tutto a torto meno permeabile del cattolicesimo alle ragioni dell’equità sociale o più in generale ai buoni sentimenti, e, anche per questo – e molto schematicamente – identificato tout court con un’interpretazione caricaturale e talvolta macchiettistica, ma ben diffusa in Italia anche nell’alta cultura, dell’etica capitalista di Max Weber e relative asprezze da “liberismo selvaggio”. Così, “puritano” è in Italia sinonimo corrente di bigotto e sessuofobo per qualificare qualcuno rispetto a un cattolico della medesima epoca storica. E così il radicato pregiudizio filocattolico e antiprotestante induce il sistema politico-mediatico a definire “protestanti” soprattutto i letteralisti neoevangelicali – che per lo più rifiutano la qualifica di protestanti pretendendo quella di “cristiani” – spesso inglobandovi per ignoranza anche l’ala cattolica della “destra religiosa” americana, mentre chiama genericamente “cristiani” i protestanti di cui non si può che dir bene, dal dott. Schweitzer a Dietrich Bonhoeffer, dalla gran parte della Rosa bianca tedesca (spesso addirittura qualificata come movimento cattolico tout court) a Martin Luther King. Tempo fa – è un peccato non essere in grado di citare con esattezza titolo e data di trasmissione del programma e con maggior precisione le parole utilizzate – perfino su Rai News, cioè sulla più insospettabile delle reti televisive italiane, in un programma dedicato proprio alla figura di Martin Luther King si argomentava che il reverendo era così buono, ma così buono, che lo si sarebbe potuto dire un cattolico piuttosto che un protestante. E pesa, e probabilmente peserà ancora a lungo, il fascino che la “cultura della Controriforma” – più di recente addirittura il tomismo – e la sua capacità egemonica continuano ad esercitare su tanta parte degli intellettuali di formazione comunista o provenienti dall’area culturale cattolica che era stata più vicina al Pci, che ne ricavano ulteriori argomenti per la loro pluridecennale politica di intesa con la gerarchia cattolica. Capita a proposito, proprio in questi giorni, un intervento sull’Avvenire di Carlo Cardia – già stratega concordatario del Pci e ora membro della commissione paritetica che dovrebbe vigilare sulla congruità del gettito dell’otto per mille – secondo cui i tardivi tentativi di promuovere la Riforma nell’Italia del Risorgimento fallirono perché «nulla è più alieno dalla sensibilità popolare dell’individualismo nato in Paesi lontani (sic) che cancella dalla religione i segni esteriori, la consuetudine con il divino, i legami che uniscono la Chiesa alla vita quotidiana, familiare, personale; così come la venatura pessimistica protestante collide con l’ottimismo cattolico che scende nell’intimo, e rassicura la coscienza con gioiosa serenità» (sic).

Per non parlare delle altre minoranze religiose, quelle non autoctone, dagli ortodossi (che peraltro sono presenti in Italia con gruppi e comunità anche antiche, almeno in città come Venezia e Trieste) ai musulmani, agli induisti e ai buddhisti (questi ultimi ormai ben presenti anche fra gli italiani convertiti che ne costituiscono la gran parte), che non si capisce proprio perché non possano avere neppure quegli spazi minimali e circoscritti che l’informazione televisiva avarissimamente concede a protestanti ed ebrei, e che, emerge dalla ricerca, vengono interpellati essenzialmente su questioni geopolitiche o come referenti per i problemi legati all’immigrazione. E qui il discorso si fa ancora più complesso, perché, come abbiamo più volte argomentato su Critica, è indecente e irrispettoso della libertà di pensiero e di religione ascrivere autoritativamente a un culto religioso tutti gli immigrati che provengono da un paese in cui esiste una tradizione religiosa dominante. Per restare al caso paradigmatico dei musulmani, ce ne sono certamente molti che si mimetizzano nel grande flusso migratorio non solo in cerca di migliori condizioni di vita, ma anche perché in cerca di società improntate a valori civili, etico-politici, e magari anche religiosi, diversi da quelli della società di provenienza, dei quali non si vuol mai accettare neppure la remota possibilità che possano essere insoddisfatti, sulla base di considerazioni e scelte culturali e di vita individuali critiche nei confronti di quei contesti quanto quelle di molti di noi. Abbiamo già sottolineato altre volte che razzisti e multiculturalisti ingenui hanno almeno un punto in comune: entrambi vogliono gli immigrati il più possibile esotici e diversi, gli uni per meglio detestarli, gli altri per amore della società variopinta. Ma la libertà degli immigrati come individui è largamente assente anche dalla prospettiva benintenzionata dei secondi, oltre che da quella incivile dei primi.

E perché poi dell’etica non confessionale, del punto di vista laico (ormai pressoché scomparso nella televisione italiana anche in materia di bioetica e di “questioni etiche controverse”), e neppure di quell’“esperanto morale” di cui vi è vitale necessità per convivere fra diversi, si ritiene che sia lecito non dar neppure conto?

E infine, è mai possibile che l’informazione in materia di religione non prenda sul serio, anzi non prenda neppure in considerazione, la critica delle religioni? Non è forse anch’essa parte della nostra storia e della nostra contemporaneità? Non si tratta – almeno certo non da parte di convinti separatisti come noi – di chiedere uno spazio televisivo per atei e agnostici, come è prassi in Belgio (dove alle associazioni degli atei sono riconosciuti gli stessi diritti, e gli stessi finanziamenti, delle confessioni religiose) e in minor misura anche in Francia e altrove. Ma perché si ritiene che si possano o si debbano cancellare il punto di vista secolare, la critica anche radicale delle religioni, del teismo e di ogni deismo? Voltaire e i Lumi sono forse materia estranea alla costruzione della storia e della civiltà occidentale?

Eppure – bisognerà che qualcuno ne informi prima o poi la politica e i media italiani – viviamo in un’Italia secolarizzata e religiosamente plurale, che, piaccia o non piaccia, sembra destinata a diventarlo sempre di più. E viviamo in un’Europa che religiosamente plurale lo è da sempre, e che oggi, senza possibili confronti, non è il continente più cattolico, e neppure il più cristiano, ma il più secolarizzato e il più laico del mondo.

Se l’informazione – e prima dell’informazione fornita dai media quella scolastica – deve servire a metterci in grado di orientarci e di compiere scelte individuali e collettive nel mondo in cui viviamo, un’informazione come quella che oggi ci passa il convento televisivo non serve, è solo propaganda, per di più inefficace per gli stessi beneficiari (o al più efficace solo a vellicarne la vanità). Non mette gli italiani in grado di capire il mondo in cui vivono, di orientarsi consapevolmente nelle questioni controverse, di conoscere le tradizioni altrui e neppure quelle che la politica e i media si ostinano a definire apoditticamente “nostre”. Ci siamo quasi tutti ritrovati culturalmente sprovveduti quando scoppiò la rivoluzione iraniana, più di trent’anni fa, e poi di fronte a quel che ne seguì. Chi è corso ai ripari ha dovuto farlo da solo. Oggi il risultato di un’informazione religiosa sui media ridotta a favoritismo – e di un insegnamento confessionale, e di una sola religione, che riduce la scuola pubblica ad agenzia di promozione a disposizione di una sola fede – riduce i non cattolici italiani a una condizione simile a quella dei Dhimmi nell’Impero ottomano, costringendoli a pagare tasse, balzelli e canoni a sostegno di una fede che non è la loro. E, dato che la propaganda è nemica dell’apprendimento e della conoscenza, sta riducendo tutti, cattolici e non cattolici, a uno stato di ignoranza pietosa sui rudimenti (e sulla storia e sulla geopolitica) di tutte le tradizioni religiose, inclusa la cattolica. Per non parlare del pietoso stato presente dei costumi degli italiani, dopo secoli di educazione cattolica, dopo novant’anni di confessionalismo prima ufficiale, poi ufficioso, poi ridimensionato e oggi di nuovo rampante, e dopo quasi sessant’anni di prevalente confessionalismo scolastico e televisivo.

Dobbiamo ripetere, cinquecento anni dopo, che ancora, o di nuovo, «abbiamo adunque con la chiesa e con i preti, noi italiani, questo primo obbligo, d’essere divantati senza religione e cattivi»? Probabilmente no, perché forse si tratta di un “obbligo” che oggi abbiamo piuttosto, o almeno in pari misura, con la politica e con i media ad essa asserviti.

 Da Critica liberale, n. 193-194, novembre-dicembre 2011

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