La coazione a ripetere di politici ed elettiori
di
Felice Mill Colorni
Beati
i paesi che apprezzano i politici noiosi. Alla maggioranza degli italiani
piacciono elettrizzanti. Quelli seri e noiosi vanno magari bene subito dopo le
sbornie peggiori, seguite da disastri che è proprio impossibile ignorare: furono
accettati, ma per poco, Parri e De Gasperi subito dopo la catastrofe fascista, e
Monti subito dopo avere sfiorato la catastrofe con Berlusconi. Ma la
maggioranza dei nostri concittadini ha sempre nettamente preferito i
ciarlatani: D’Annunzio piuttosto che Nitti, Mussolini piuttosto che Giovanni
Amendola; e, poiché le classi dirigenti da noi non si sono mai differenziate
troppo nei loro gusti dal popolino (notava Leopardi nel 1824 che la “società
stretta” nella penisola faceva difetto), già ai tempi del suffragio ristretto o
ristrettissimo Crispi il coloniale era preferito al sobrio Cairoli. Nella
cosiddetta “prima Repubblica”, più popolari di tutti erano i più spregiudicati,
impudenti e strafottenti, apertamente marpioni o sornionamente malfattori: ci
fosse stata l’elezione diretta di un capo, dicevano unanimi i sondaggi, gli
italiani avrebbero costantemente preferito attraverso gli anni, nell’ordine,
Andreotti, Craxi e Cossiga.
È
forse sfuggito ai più che, per la seconda volta in pochi anni, a scongiurare
l’attribuzione a Berlusconi dello sproporzionato premio di maggioranza alla
Camera, sono stati nuovamente i voti determinanti dei nostri concittadini
sudtirolesi di lingua tedesca. I 147mila voti raccolti dalla loro Svp,
coalizzata nel centrosinistra, sono risultati determinanti per impedire a
Berlusconi di diventare il padrone della Camera, risultato da lui mancato per
125mila voti (come già lo erano stati nel 2006 – impedendogli di essere eletto
Presidente al posto di Napolitano). Herzlichen Dank, liebe Mitbürgerinnen
und Mitbürger: per quanto tradizionalisti o
conservatori possiate essere nelle vostre valli alpine, e per quanto onerosi possano
essere gli ingenti trasferimenti cui ci obbliga lo Statuto costituzionale, essi
valgono mille volte il prezioso dono di avervi fra noi.
E
tuttavia, il risultato è da incubo. È vero che il Pci/Pds/Ds/Pd ha storicamente
sempre dato il peggio di sé e si è sempre mostrato più arrogante quando si è
sentito più forte, mentre ha sempre offerto il suo lato migliore quando si è
sentito in difficoltà. Avremmo probabilmente avuto Presidenti delle Camere
peggiori se avesse stravinto. È molto meno probabile, ma forse potrebbe perfino
capitare, che i nostri eroi mettano finalmente mano pure a quella legge sul
conflitto d’interesse che evitano come la peste perfino di proporre dal 1994; e
potrebbe anche capitarci il miracolo di qualche passo avanti in materia di
diritti civili (per quanto i grillini siano stati su questi temi assai poco
loquaci e talvolta molto ambigui). Ma questo non può farci chiudere gli occhi
davanti al significato complessivo del voto e alle sue conseguenze: conseguenze
immediate, in termini di instabilità, e quindi di rischio di un ritorno
sull’orlo dell’abisso di un anno fa, come molti hanno rilevato; conseguenze di ben
più lungo termine per l’Italia, per la qualità della sua democrazia e della sua
cultura politica, per la sua rispettabilità e affidabilità europea e
internazionale, come invece pochissimi hanno notato.
La
“cultura politica” egemone nell’Italia del 2013 – e non c’è nulla di cui
sorprendersi – è per larga parte nient’altro che il chiacchiericcio seminato dal
berlusconismo.
Gli
intenti sono diversissimi, la “buona fede” di gran parte degli elettori agli
antipodi, ma la concezione della democrazia del movimento di Grillo e della
Casaleggio & associati è identica, nella sostanza, a quella di Berlusconi.
La loro piena condivisione dell’incolta e padronale contestazione del divieto
di mandato imperativo non è casuale. La miserrima qualità media del ceto
politico di questi anni – e la mediocrità e l’inconsistenza dell’“opposizione”
– ha consentito a Berlusconi di avere buon gioco nel denunciare una regola
basilare della democrazia costituzionale come rifugio dei trasformisti e dei
corrotti. Salvo naturalmente usarla egli stesso per primo a fini di malgoverno
e pervertimento della democrazia. Ma che differenza c’è fra il Berlusconi che
anni fa voleva ridurre il Parlamento alla conferenza dei capigruppo – facendovi
votare gli “azionisti” in proporzione al loro peso elettorale, come in una
società commerciale – e le teorizzazioni di Grillo? La differenza, da questo
punto di vista, è solo in peggio: neanche fra i berlusconidi si erano mai visti
parlamentari, bene o male eletti dal popolo, che si attardavano a scambiare
battute con qualche giornalista, trascinati via senza troppi complimenti («Sul
pullman, che è tardi!») dai giovanotti dello “staff”, presumibilmente gli
stessi dei servizi d’ordine degli spettacoli di Grillo. Che differenza c’è fra
gli sproloqui di Berlusconi sul primo fascismo e quelli della capogruppo
grillina? E sugli immigrati, fra Berlusconi e lo stesso Grillo?
La
memoria dei nostri concittadini ormai non va mai più indietro di qualche
settimana, quando va bene. Ma è possibile che nessuno o quasi abbia fatto rilevare
che il più profondo rinnovamento e ringiovanimento biologico della classe
politica italiana degli ultimi sessant’anni l’abbiamo avuto nel 1994, anno
dell’irruzione dei berlusconidi, con i bei risultati che si sono visti? Che
proprio allora ci fu il più massiccio approdo della “società civile” in
Parlamento dai tempi della fondazione della Repubblica? Non sono bastati quasi
vent’anni di dilettanti allo sbaraglio, selezionati e al servizio di un partito
padronale?
È
mai possibile questa coazione a ripetere, dopo quasi vent’anni? Certo che c’era,
e c’è, bisogno di ricambio, certo che i giovani erano sottorappresentati, ma è
possibile che, dopo vent’anni, gran parte dei nostri concittadini elettori stia
ancora lì a credere che una democrazia complessa possa fare a meno di una
classe politica professionale? Tutti, Pd compreso, a ripetere docilmente il
dogma imposto dalla ciarlataneria populista, secondo cui la soluzione per il
ricambio starebbe nel limite dei mandati, uguale per (quasi) tutti (salvo
deroghe, s’intende): capaci e inetti, onesti e disonesti, salvo che colti
proprio con le mani nel sacco? Con una norma così, nei passati decenni, un
sacco di cretini si sarebbe fatto quasi automaticamente due o tre legislature
comunque, mentre Sandro Pertini, notoriamente rompiscatole, sarebbe stato
"rottamato" senza deroghe nel 1958. Invece è stato parlamentare per
tutta la sua vita, e così ha concorso in modo determinante nel 1978 a ridare
provvisoriamente qualche dignità alla Repubblica. E in Inghilterra, senza
Churchill, che con quelle norme sarebbe stato oggetto di rottamazione negli
anni Venti, chissà come sarebbe andata a finire fra il 1940 e il '42.
Le
sole riforme istituzionali urgenti di cui l’Italia avrebbe bisogno sono una
legge elettorale decente (qualunque modello europeo sarebbe meglio della “porcata”
di Berlusconi) e uno statuto pubblico dei partiti, che non si capisce perché
debbano essere considerati “meno liberi” se regolamentati dalla legge almeno
quanto lo sono le società per azioni: neppure il più estremista dei liberisti
si sogna di sostenere che regolarle per legge sia un ostacolo anziché una
garanzia per l’esercizio della libertà di impresa.
Invece,
assieme all’assioma del limite automatico dei mandati, si è affermata la
credenza che molti problemi sarebbero risolti riducendo il numero dei
parlamentari: aprendo quindi il vaso di Pandora di una riforma costituzionale
dagli esiti imprevedibili, quando sarebbe invece finalmente l’ora di
applicarla, la Costituzione, per vent’anni delegittimata e vilipesa dai
berlusconidi. Qui si tocca con mano la catastrofe
etico-politica dell’Italia di questi anni di fango. La giustificatissima indignazione
per molti comportamenti indegni di così tanti politici italiani si è a poco a
poco convertita, senza che quasi nessuno ne sia avvertito, in una crociata
contro la politica in generale che ricorda terribilmente l'antiparlamentarismo
degli anni Dieci del Novecento italiano.
Eppure
non dovrebbe essere poi così difficile capire dove sta il tranello. Limitare i
mandati e dimezzare i parlamentari è la ricetta perfetta per garantire
l’inamovibilità dei gruppi dirigenti, quelli che per forza una”deroga” la otterranno
sempre se resteranno uniti garantendosi gli uni gli altri. E per garantirsi l’inamovibilità,
che cosa c’è di meglio di parlamentari che ruotano vorticosamente e che non
vengono più ricandidati proprio quando potrebbero cominciare a costituire una
seria minaccia per i gruppi di comando? E quale garanzia migliore di un
Parlamento piccolo, in cui non ci sia il pericolo che qualche singolo
parlamentare non conformista sfugga al controllo dei gruppi di comando, e
crescendo raggiunga la forza necessaria per sfidarli?
Invece
la ricetta populista prevede il dimezzamento dei parlamentari. Ma prevede, non
sorprendentemente, il mantenimento del bicameralismo. Non però dell’attuale
bicameralismo perfetto, effettivamente indifendibile. Il dimezzamento dei deputati
rafforzerebbe il potere di controllo dei gruppi dirigenti – i veri responsabili
dello sfascio – ostacolandone il ricambio, e raddoppiando il numero di voti
necessario alla rappresentanza di nuove forze non conformiste. Se proprio non
riescono a trattenersi dal mettere le mani sulla Costituzione, e se proprio
vogliono fingere di credere che il nostro grande problema sia quello dei costi
della politica ufficiale, anziché quello dei costi della politica occulta (enti
di sottogoverno, società partecipate, miste, consorzi, cordate, ecc. ecc.),
meglio sarebbe che pensassero piuttosto a una soluzione monocamerale – rimedio enormemente
più efficace anche in termini di risparmio. Invece si farà del Senato una
Camera in cui inscenare non il confronto politico, ma la lotta per la
spartizione territoriale delle risorse pubbliche. A vantaggio di chi, se non
della demagogia leghista e paraleghista – e magari di nuove “leghe Sud” che non
tarderebbero ad essere appositamente costituite, a vantaggio degli interessi
malavitosi più inconfessabili?
Tutti
invece a ripetere e dare la propria servile acquiescenza alle ricette
populiste. C’è da stupirsi, se poi gli elettori preferiscono l’originale alle
imitazioni, magari fino alla “rottamazione” definitiva della democrazia parlamentare?
E,
domanda delle domande, davvero questa “rinnovata” classe politica pensa che
nuovi paradigmi nell’economia mondiale possano essere sensatamente proposti e fatti
valere al risibile livello di Stati-nazioni europei che hanno ormai le dimensioni,
e avranno fra poco l’influenza, di una provincia indiana o cinese? Non la
sfiora il dubbio che le riforme davvero indispensabili riguardino l’ordinamento
costituzionale dell’Europa, non delle sue vecchie ormai patetiche nazioni? No:
questo è fuori dagli interessi del ciarlatano che ancora piace agli italiani di
bocca buona over 40 quanto a quello che piace ai nuovi populisti under 40. E gli
altri non sembrano intenzionati a battere autonomamente un colpo.
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