Referendum sull’acqua:
due SÌ anche qui, ma
con ragioni diverse da quelle prevalenti
di Felice Mill Colorni
Critica
liberale invita a votare, e a votare SÌ, per tutti e quattro
i referendum di
domenica e lunedì prossimi, come abbiamo detto
nell’orientamento
che vi abbiamo dedicato.
Questa
indicazione risulterà forse ovvia a chiunque ci conosca, per
quel che riguarda
il significato politico generale della consultazione e la difesa
dell’istituto
del referendum abrogativo, e, per quel che riguarda il merito dei
singoli
quesiti, per il legittimo impedimento, e sostanzialmente anche per quel
che
riguarda il nucleare (per ragioni ambientali, economiche, e relative
all’assoluta inaffidabilità dei titolari dei
poteri di affidamento,
autorizzazione, controllo, ecc.). Qualche specifica considerazione in
più ci
sembra invece opportuna per i due quesiti riguardanti
l’affidamento della
gestione e distribuzione dell’acqua.
Come
detto nell’orientamento, voteremo SÌ anche in
questi due casi, ma per ragioni
in gran parte diverse da quelle, a quanto sembra molto popolari,
sostenute da
molti dei promotori. Le loro considerazioni, come del resto quelle dei
loro
avversari, non ci sono sempre parse convincenti e in non pochi casi
anche
francamente demagogiche.
La
gestione e la distribuzione dell’acqua è un
monopolio naturale che non può
essere esercitato in regime di concorrenza.
La
gestione pubblica, come quasi sempre in Italia, è stata fin
qui estremamente
diversificata: ottima da qualche parte, pessima oltre i limiti dello
sconcio in
altre zone. Gestione pubblica e tutela dell’interesse
pubblico sono
lontanissime dall’essere sinonimi, ma il tendenziale
mutamento di sensibilità
su questi temi, che è probabilmente destinato ad essere la
conseguenza del
fallimento dei paradigmi economici liberisti a oltranza che hanno
prevalso
negli ultimi trent’anni circa in Occidente, sembra farlo
dimenticare a molti.
L’obiezione secondo cui, dato che l’acqua
è un bisogno primario, il settore
necessita per questo di una regolamentazione capace di sottrarla
interamente,
come si dice, alla “logica del profitto” in
sé ha il solo valore di una
retorica petizione di principio. Anche l’alimentazione
è un bisogno primario,
ma sottrarre alla “logica del profitto” la
produzione e la distribuzione
degli alimenti non ha giovato certo, dove si è provato a
farlo, a un migliore
soddisfacimento dei bisogni alimentari. Si tratta probabilmente solo
delle
prime avvisaglie di un mutamento di paradigmi che rischia di
riportarci, dopo
gli anni della furiosa approvazione di ogni possibile deregulation nel recente passato, che ha finito
per travolgere
perfino regole del gioco e normative anti-trust, a un ritorno di fiamma
altrettanto acritico nei confronti della commistione fra potere
politico ed
economia.
E
l’enfasi sul “pubblico”, o –
peggio ancora, almeno per chi sa quali ne siano
state le sinistre risonanze nella storia del pensiero novecentesco
– sulla
“comunità”, è un espediente
per evitare di dire che alla fine dovrebbe essere
proprio e ancora la classe politica – la sola in definitiva
titolata a
esprimere una volontà collettiva della
“comunità” che sia cogente per tutti
–
ad avere l’ultima parola: nella temperie culturale che stiamo
attraversando,
non solo in Italia, “comunità”
potrà sembrare a molti termine meno compromesso
e più spendibile che “classe politica” o
“partiti”, o sembrare, al contrario di
quel che è, concetto più mite, affabile e
inoffensivo, ma la sostanza non
cambia. Alla fine il potere pubblico è sempre esercitato da
individui concreti.
Corruzione, abusi politici e burocratici, eterogenesi dei fini sono
sempre
dietro l’angolo. La stessa
“responsabilità” della politica
è una responsabilità
per modo di dire, perché, quando non si possono
provare («al di là di
ogni ragionevole dubbio» e nel rigoroso rispetto delle
procedure), definite
responsabilità penali individuali, tutto resta affidato a un
giudizio
complessivo su programmi onnicomprensivi e largamente condizionato dai
mezzi a
disposizione e dalla qualità della propaganda elettorale.
In
Italia “gestione pubblica” ha significato fin qui,
in moltissime situazioni
locali, gestione affidata dalla politica a politicanti trombati,
assunzioni
clientelari, e, in non pochi casi, disservizi spinti fino alla mancanza
pura e
semplice dell’erogazione idrica regolare in vaste aree
soprattutto del Sud. Le
imprese municipalizzate o controllate da enti locali sono spesso state
macchine
per la produzione di spese clientelari occulte molto più
scandalose dei costi
accertabili e pubblici della politica ufficiale, tanto spesso oggetto
di
campagne di opinione talvolta ben fondate e talvolta biecamente
demagogiche e
qualunquiste.
Non
è quindi un caso che la
“privatizzazione” di questi servizi non fosse stata
decisa solo dalla consorteria berlusconiana. Nelle intenzioni di almeno
alcuni
dei suoi promotori, intendeva porre fine a disservizi, sprechi,
diseconomie e
abusi e si proponeva di reperire altrove che nella fiscalità
generale gli
ingentissimi capitali necessari per il rifacimento di gran parte della
rete
idrica italiana.
La
sola concorrenza prevista dalle leggi oggetto di referendum abrogativo
è però
quella per l’affidamento del servizio da parte del potere
pubblico. Una volta
vinta la gara per l’affidamento del servizio, quale sarebbe
l’interesse
dell’impresa vincitrice, ormai monopolista per un
considerevole
numero di anni,
e cui è garantita una rendita fissa, a effettuare gli
investimenti necessari al
miglioramento della rete idrica, che in sostanza costituiscono la
motivazione
ufficiale principale della nuova normativa? Su questo punto ci sembra
che i
suoi difensori non abbiano in sostanza altra risposta che quella
consistente
nei controlli che saranno messi in atto dal potere politico che ha
affidato il
servizio. Al più, finché le gare non saranno
state tutte
espletate ovunque, le
imprese avranno qualche residuo interesse reputazionale a farsi
attribuire
nuove gestioni da altre amministrazioni. E l’esperienza
insegna,
da una parte,
che sia in Italia sia all’estero la privatizzazione dei
servizi
idrici spesso
non ha funzionato, tanto che in molte situazioni (come il Comune di
Parigi) si
è deciso di fare marcia indietro ripubblicizzando il
servizio e
in altre (come,
significativamente, quasi ovunque negli Stati Uniti), i servizi idrici,
non
potendo funzionare in regime di concorrenza, non sono mai stati
privatizzati.
D’altra parte, un’ampia esperienza italiana,
largamente
accumulata in altri campi,
dimostra che affidare esclusivamente alla politica il controllo
dell’attività di imprese private che non agiscono
in
regime di concorrenza genera soltanto sempre nuove occasioni di
corruzione e di malaffare.
E,
come detto, la situazione dei servizi idrici in Italia è
tutt’altro che
omogenea. Non si vede proprio alcuna valida ragione per imporre con una
decisione centralistica a tutti gli enti locali, quali che ne siano
state fin
qui le performances, di affidare il
servizio a imprese private, che potrebbero rivelarsi magari migliori
delle
municipalizzate infiltrate o controllate dalla mafia in alcune regioni
(posto
che imprese sane abbiano voglia di avventurarsi in situazioni del
genere), ma
peggiori di altre gestioni pubbliche altrove, in quelle situazioni
locali in cui la qualità media dei valori
civici dominanti rende la gestione esistente più che
accettabile. Alla faccia della retorica
“federalistica”.
Insomma,
in sé, l’ennesima disfida epocale del pubblico e
del privato ci sembra condotta
all’insegna di una disarmante superficialità,
quando non copre soltanto corposi
interessi economici o politico-economici contrapposti.
C’è
infine un ultimo elemento molto importante che le opposte demagogie
preferiscono ignorare: l’acqua è un bene scarso,
destinato, per ragioni
climatiche, demografiche ed economiche, a farsi sempre più
scarso in futuro.
Affermare che, in quanto “bene pubblico”, il suo
consumo dovrebbe essere
sostanzialmente gratuito per tutti è
un’indifendibile e inescusabile istigazione
allo spreco. La triste verità è che
l’acqua “deve” costare (mediamente) di
più,
pena la catastrofe. Solo se costerà di più
l’acqua non continuerà a essere
sprecata, innanzitutto per i prevalenti usi agricoli e industriali,
dove, se
l’acqua non avrà un costo maggiore, non vi saranno
incentivi ad adottare
tecnologie più sofisticate e finalizzate al suo risparmio.
Ma
anche l’uso domestico – quantitativamente meno
importante degli altri due –
dovrebbe comunque essere contenuto, anche in questo caso attraverso
l’incentivazione all’introduzione di tecnologie e
tecniche costruttive edilizie
mirate al risparmio: dovrebbe essere obbligatorio nelle nuove
costruzioni e
nelle opere di urbanizzazione un doppio circuito dell’acqua,
dato che è idiota
usare preziosa acqua potabile per svuotare i gabinetti, e dovrebbe
essere
incentivata l’adozione di nuove tecnologie per gli
elettrodomestici più
idrovori. E andrebbero previste tariffe molto differenziate per fasce
di
reddito e di patrimonio – cosa peraltro difficilissima e
capace di introdurre
ulteriori ingiustizie in un paese ad alto tasso di evasione.
Questo,
almeno a quanto abbiamo sentito, nessuno l’ha voluto dire,
mentre avrebbe forse
dovuto essere l’argomento principale.
La
questione dei referendum sull’acqua ci sembra insomma, nel
merito, molto meno
scontata delle altre due. Andremo a votare, per il significato politico
complessivo di questa consultazione e per difendere
l’istituto del referendum
abrogativo. Ma voteremo SÌ, anche in questi due referendum,
molto più per
rendere possibile un ripensamento da zero dell’intera materia
– ammesso che
nella classe politica che auspicabilmente prenderà a breve
il posto
dell’attuale ci sia qualcuno capace di farlo –
piuttosto che perché convinti
dalla campagna del buon padre Zanotelli.
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