Polemiche
finte e qualunquismo
di
Felice Mill Colorni
Detestiamo
le polemiche
populiste almeno quanto le polemiche finte.
In
queste settimane classe politica e società civile di un
paese per il quale è in
vista un futuro da incubo si baloccano con due cose che, quasi, non
esistono. O
meglio, che non possono neppure essere affrontate senza una preliminare
sostituzione dei due soggetti che si fronteggiano in questo disgraziato
quindicennio italiano: la pietra al collo è il carattere
alieno rispetto alla
democrazia occidentale di entrambe le coalizioni, certo per ragioni
profondamente diverse.
Che
la politica italiana costi troppo è cosa dibattuta almeno da
quando, quasi
quarant’anni fa, poche voci inascoltate chiedevano che non si
perdesse
l’occasione della costituzione delle regioni ordinarie per
abolire le province
(anziché moltiplicarne il numero come poi si è
fatto). E che l’economia
italiana sia gravata dal peso delle strutture di una società
industriale che
non c’è più è altrettanto
evidente, ma proprio non riusciamo ad appassionarci
ad un dibattito fra due contendenti di cui si può solo dire
che il più pulito
ha la rogna.
Eppure,
a leggere i
giornali e ad ascoltare gli imbonitori televisivi, sembrerebbe che la
classe
politica italiana si affanni in una gara a tagliare i propri costi e si
divida,
quasi come in un normale paese occidentale, fra i nobili fautori di
un’economia
più libera e i nobili difensori degli svantaggiati.
Baloney,
direbbero al
Congresso. Corbellerie, diremo qui, per non usare il linguaggio da
trivio, e
forse più adeguato alla materia, che è divenuto
lo status symbol
della nostra “classe
dirigente”, quasi quanto l’esibizione
dell’ignoranza ruspante che la fa sentire
così prossima alle sue genuine “radici
popolari”.
“Parla
come mangi”, ci
intimeranno scocciati. Li deluderemo, dato anche che per cibarci non
siamo
soliti sbranare cinghiali vivi, come obiezione e modi fanno sospettare
che
siano abituati a fare alcuni dei più esagitati fra quei
vacui homunculi televisivi.
Forse
è ancora vero che
in democrazia si possono ingannare tutti per un certo tempo e qualcuno
per
sempre, ma non si possono ingannare tutti per sempre, come sosteneva un
padre
della democrazia quando la democrazia era ancora in gran parte una
promessa.
Purtroppo, in mancanza di una diffusa cultura e consapevolezza civile,
sembra possibile
continuare a ingannare a tempo indeterminato una maggioranza potenziale
di
elettori, abbastanza solida da consentire ai meneurs
di turno di
compromettere le stesse regole del gioco. È solo grazie a
una momentanea
saturazione per la ciarlataneria populista di una lieve maggioranza che
non
abbiamo una costituzione da repubblica delle banane.
Per
ogni problema
complesso esiste sempre una soluzione semplice, comprensibile a tutti,
capace
di rendere tutti felici e concordi, e controproducente quando non
catastrofica.
Ma capace anche di suscitare entusiasmi, consensi e, almeno
all’inizio, di
spostare tanti voti. La polemica sui costi della politica si
è coagulata
intorno a tre proposte, una più inutile e sbagliata
dell’altra.
Il
limite dei due
mandati, senza riscontri in alcuna democrazia funzionante, oltre a
regalarci
una classe politica composta al cento per cento di personale inesperto,
provocherebbe verosimilmente solo una ristrutturazione in peggio del cursus
honorum dei politici italiani, con l’ulteriore
moltiplicazione proprio
degli incarichi parapolitici di cui sono totalmente arbitre le
segreterie dei
partiti: quegli incarichi che, per essere molto meno visibili e
censibili dei
mandati elettivi, e prevedendo un trattamento molto meno trasparente,
si
prestano di più a commistioni politico-affaristiche di ogni
genere e a fungere
da strumento opaco di finanziamento della politica. A meno di non
credere alla
favola di una democrazia avanzata capace di fare a meno di una classe
politica
professionale: come proporci di credere alla Befana.
L’ineleggibilità
di chiunque sia stato condannato in primo grado per qualsivoglia tipo
di reato
non farebbe che sovrapporre una regola rozza e ottusa alla normativa
vigente in
materia di interdizione dai pubblici uffici, farebbe strame della
presunzione
costituzionale di non colpevolezza, e suona particolarmente sinistra
nel paese
del processo Sifar e del caso Tortora.
Il
ripristino delle
preferenze sarà anche un male minore rispetto
all’attuale “porcata” approvata
dalla maggioranza berlusconiana uscente per avvelenare (con successo) i
pozzi
in previsione della sconfitta, ma una modifica che fosse limitata a
quell’aspetto avrebbe il solo risultato di far crescere
ulteriormente il voto
di scambio.
(A
proposito: nella
loro inarrivabile astuzia e lungimiranza, i nostri eroi non si stanno
mica
preparando a regalare al prossimo ritorno di Berlusconi una legge
elettorale
che gli permetta di governare di nuovo con una larga e stabile
maggioranza,
magari tale da consentirgli di stravolgere la Costituzione senza
possibilità di
referendum, perché lui possa poi tornare ad avvelenare i
pozzi con una nuova
“porcata” se le prospettive di riconferma gli
sembrassero nuovamente
compromesse?)
Ma
anche la corsa a
ridurre prebende e benefit dei parlamentari, che assomiglia ormai a una
rotta,
risponde a una campagna politica e di stampa che non tiene conto delle
profonde
asimmetrie nella loro retribuzione, che rendono la determinazione
legislativa
delle indennità uno specchietto per le allodole. Se infatti
un parlamentare
forzista sempre umilmente sottomesso non solo potrà
trattenere per sé l’intera
indennità, ma verrà ulteriormente gratificato a
Natale dalle doviziose regalie
del dominus per sé e magari anche per la
propria signora, in altri gruppi
lo stipendio reale del parlamentare costituirà, per larga
parte, nient’altro
che una forma surrettizia di finanziamento pubblico del partito.
Paradossalmente una drastica diminuzione delle indennità
dovrebbe essere
accompagnata dal rigido divieto di effettuare elargizioni al gruppo o
al
partito di appartenenza. Insensato perfino parlarne perdurando
l’abissale
squilibrio causato dalla mancata legge sul conflitto
d’interesse.
La
riduzione dei costi
della politica passa per altre vie: dall’abolizione delle
province, con tutta
l’immensa spesa indotta che un intero livello di governo in
più alimenta, al
disboscamento della politica invisibile, quella delle centinaia di
migliaia di
posizioni parassitarie, talvolta retribuite quanto o più dei
mille parlamentari
e dei mille consiglieri regionali, nei consigli di amministrazione,
nelle
consulenze finte, negli organi parapolitici riprodottisi
metastaticamente
attraverso i decenni. Ma si rischia di coinvolgere una platea un
po’ troppo
ampia: vuoi mettere la soddisfazione di sparare
sull’entità dello stipendio,
sproporzionato e nominalmente uguale, di tutti i parlamentari? Stupisce
che il
solo risultato sia un costante abbassamento della qualità
della classe
politica, sempre più reclutata fra chi non è
interessato alla propria
reputazione?
Accanto
alle proposte
populiste impazza fra i due schieramenti una polemica sul liberismo che
è
lunare, nella sua mancanza di addentellati con il comportamento
concreto dei
soggetti in campo. L’argomento, beninteso, sarebbe decisivo
fra contendenti
diversi da questi. La destra trova utile accreditarsi di un liberismo
mai
praticato, ma ritenuto popolare fra i propri elettori. La sinistra, per
ragioni
simmetriche, avalla la truffa. Così, l’unica
coalizione di governo alla destra
del centro in Europa negli ultimi trent’anni che, pur godendo
di una
confortevole e stabile maggioranza parlamentare, non abbia effettuato
una sola
liberalizzazione economica o una sola privatizzazione di rilievo (che
anzi
abbia sparato a zero su tutte quelle effettuate dagli avversari)
sarebbe la
portabandiera del libero mercato. E una sinistra onirica che difende il
diritto
ad andare in pensione dei cinquantenni senza passato di lavori
usuranti, per
farli mantenere a vita dagli attuali “giovani” (che
ormai comprendono un
esercito di quarantenni) che una pensione decente non
l’avranno neppure a
novant’anni, sarebbe la portabandiera della difesa degli
svantaggiati.
Purtroppo
non c’è
soluzione senza la preliminare dissoluzione del mostro, la coalizione
populista
affaristica e oscurantista che passa sotto il nome di centrodestra; e
il
successivo smembramento di una coalizione che ha senso solo per
impedire alla
prima di farci ulteriormente precipitare nella barbarie ma che non
è in grado
di esprimere alcun progetto comune.
Da
Critica liberale, n. 141-142, luglio - agosto 2007.
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