Presidenzialismo
europeo?
di
Felice Mill Colorni
Qualunque
passo verso
la creazione di un’Europa federale ci troverà
sempre e comunque sostenitori convinti,
perché riteniamo che solo un’Europa capace di
assumere soggettività politica
possa evitare un destino di altrimenti certa irrilevanza. Qualunque
governo
democratico europeo sarà meglio dell’attuale
impotente e paralizzata Europa
intergovernativa.
Ciò
detto, pare che una
delle soluzioni che vanno per la maggiore negli ultimi tempi e che sono
ritenute idonee a raggiungere un quick fix
in materia di riforme
europee sia quella dell’elezione diretta del Presidente della
Commissione.
Così, ad esempio, la proposta approvata dal congresso della
Cdu, salutata da
Francesco Gui nel numero di gennaio di “Gli Stati Uniti
d’Europa”. Una proposta
che piace a molti federalisti.
Fermo
restando quanto
detto in premessa, si tratta di una proposta che implica anche una
netta
opzione in materia di forma di governo. A chi scrive, il
presidenzialismo non
sembra una buona forma di governo in generale, e quella meno adatta a
una
federazione europea in particolare.
Questo
giudizio potrà
sembrare eccentrico a un pubblico italiano cui da trent’anni
viene
costantemente proposta una forma di presidenzialismo addirittura
estremizzata,
cui è stato fatto credere che la sola forma genuina di
democrazia sia quella in
cui i cittadini possono scegliersi un capataz,
per goderselo poi necessariamente fino al termine del mandato, anche se
questi dovesse
da subito rivelarsi con evidenza tanto capace di condurre efficaci
campagne
elettorali, quanto inetto, debole, di dubbia onestà, o del
tutto incapace di
governare: ipotesi tutt’altro che inverosimile, essendosi
verificata numerose
volte in concreto, sulle due sponde dell’Atlantico, e ancor
più su quelle
infelici del nostro mare di casa, nel corso degli ultimi decenni. In
effetti,
una delle principali, e probabilmente la principale, tara della
democrazia
occidentale contemporanea sta proprio nel fatto che le
qualità necessarie a
vincere le elezioni si fanno sempre più lontane da quelle
necessarie a ben
governare. E questo vale soprattutto per le elezioni incentrate sulla
forte
personalizzazione della scelta, dove, più che di progetti,
proposte, interessi,
idee, principi contrapposti, si discute di personalità e di
personaggi: per la
pubblicità elettorale, sempre più indistinguibile
da quella commerciale,
rivendersi il preteso carisma di un candidato da celebrare è
più facile che
pubblicizzare nuove idee e nuovi progetti; ed è ancor
più facile condurre
campagne negative, miranti a distruggere la figura del candidato
nemico,
costruendo dossier e dando mano alle palate di fango. Con la
conseguenza che la
prima qualità oggi richiesta ai candidati alle cariche
pubbliche è di non
curarsi troppo della propria reputazione. Ovvio – e del resto
ampiamente constatabile
– il progressivo abbassamento della qualità del
ceto politico, abbassamento estremo
in Italia, ma evidente anche altrove, e spesso direttamente
proporzionale al
tasso di personalizzazione delle competizioni elettorali, non solo
nell’infelice paese del “metodo Boffo”.
Chi
scrive è da sempre
feroce critico della democrazia plebiscitaria e carismatica, e si pone
fra
coloro che, all’inventiva e all’arbitrio dei
“capi”, continuano a preferire il
“governo delle leggi” e la limitazione dei poteri
propri della tradizione
liberale.
È certo vero che il sistema europeo mal si presterebbe – comunque meno bene di qualunque contesto politico monolingue – alle possibili degenerazioni e ai rischi autoritari della Führerdemokratie weberiana. Anzi, per chi non sia cieco davanti a quei rischi – a cominciare dal rischio di una manomissione delle fondamentali regole del gioco da parte del capataz carismatico in corso di mandato – il fatto che una democrazia multilingue si presti poco a derive di carattere plebiscitario e cesaristico è uno degli inestimabili pregi dell’integrazione europea.
Del resto, negli ordinamenti interni dei paesi dell’Europa
occidentale,
l’elezione diretta del capo dell’esecutivo ha luogo
solo ed esclusivamente in
Francia: altrove le leggi elettorali possono favorire in varia misura
il
bipolarismo o il bipartitismo, la stabilità o la
frammentazione, ma è ovunque
il Parlamento a conferire il potere esecutivo. E non sembra affatto che
ciò di
per sé determini ovunque inefficienza decisionale.
Non
è nemmeno vero,
come tanti sostengono, che l’elezione diretta garantisca
sempre la stabilità:
accade invece che, quando maggioranza presidenziale e maggioranza
parlamentare
coincidono, viene fortemente eroso il sistema dei freni e dei
contrappesi costituzionali
e l’incisività dei poteri ispettivi del Parlamento
sull’esecutivo; quando le
due maggioranze non coincidono – è il caso della
“coabitazione” francese, o
della politica estera americana quando il Senato è ostile al
Presidente – il
rischio concreto è la paralisi.
Ma,
si dice, con
l’elezione diretta l’Unione Europea avrebbe
finalmente un volto capace di
rappresentarla, il “numero di telefono” che mancava
a Kissinger. E non c’è
dubbio che il superamento del dualismo fra le figure di Presidente
della
Commissione e Presidente del Consiglio, e l’abolizione delle
presidenze di
turno, sia un obiettivo prioritario e imprescindibile.
Che
questo obiettivo
debba essere raggiunto attraverso l’elezione diretta del
Presidente della
Commissione, anziché attraverso l’instaurazione di
un normale rapporto di
fiducia fra Parlamento e Commissione (con l’attuale Consiglio
nelle vesti di
Camera degli Stati o di Bundesrat),
è invece assai problematico, proprio dal punto di vista
federalista.
È
perfino probabile
che, anziché promuovere una federalizzazione dello spazio
politico dell’Unione,
l’elezione diretta sfoci nello scontro fra
“campioni nazionali” che, per poter
godere di una buona constituencydi
partenza, sarebbero
prevedibilmente espressione dei paesi più popolosi. E non
sembra per nulla
salutare per la tenuta e la legittimazione dell’Ue la
verosimile ipotesi di uno
scontro dai tratti alquanto “nazionali” fra un
candidato tedesco “rigorista” e
uno francese o mediterraneo “accomodante”. Di quale
legittimazione godrebbe il Presidente così eletto agli occhi
della constituency
soccombente? E quali rischi ciò comporterebbe per la stessa
legittimazione delle istituzioni europee? La legittimazione democratica
ne risulterebe rafforzata o verrebbe messa ulteriormente a repentaglio?
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