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Domande sulla guerra

di Felice Mill Colorni

         «Quando capita di osservare da vicino gli uomini che guidano il mondo, in questi tempi di delirio, si rimane più stupefatti dalla loro nullità che sorpresi dalla loro esistenza. Si è colpiti da quanto poco talento sia richiesto per decidere della sorte degli imperi; e si riconosce che vi è nelle vicende umane qualcosa di fatale e di segreto che non si sarebbe capaci di spiegare». Queste parole di Chateaubriand, citate da François Fejtö (quali che fossero le circostanze che portarono il primo a scriverle e il secondo a citarle), sembrerebbero suggerite dall’attualità internazionale di queste settimane.

         È però stupefacente anche constatare come lo stesso modo corrente di pensare la pace e la guerra sia passato sostanzialmente indenne attraverso i mutamenti epocali dell’ultimo quindicennio. Che questo sia accaduto per i pacifisti assoluti o motivati da convinzioni religiose è comprensibile; lo è molto meno per tutti gli altri.

         All’epoca dell’equilibrio del terrore, la guerra era per definizione la possibile terza guerra mondiale, la guerra nucleare globale che avrebbe potuto distruggere il genere umano o come minimo provocare inimmaginabili ecatombi, e che comunque, quale che ne fosse stato l’esito formale, avrebbe segnato la fine certa della civiltà liberale dell’Occidente, spazzandone via i delicati e precari presupposti ed equilibri. Ogni conflitto locale avrebbe potuto sfuggire di mano e innescare la conflagrazione finale. Almeno dal tempo dell’installazione degli euromissili, i tempi tecnici di reazione ad un allarme - anche ad un falso allarme - erano così ristretti da rendere impossibile la consapevole decisione di un vertice politico anziché di qualche comando militare, o magari di qualche computer. L’apertura degli archivi sovietici ha dimostrato quanto reale fosse il rischio di annientamento totale corso dall’Europa occidentale; e gli incontri fra i protagonisti superstiti della crisi di Cuba, svoltisi nel suo trentennale e poi nel quarantennale, stranamente subito scomparsi dalla memoria dei media, hanno rivelato quanto approssimativa fosse in entrambi i contendenti la consapevolezza delle intenzioni e dei processi decisionali della controparte e quanto vicino in quei giorni il rischio della fine.

         In tale situazione era comprensibile la convinzione di Bertrand Russell che qualunque male si fosse voluto evitare con il ricorso alle armi sarebbe stato comunque un male minore della guerra: l’essenziale era che una qualche storia potesse continuare ad esserci, e del resto di Graeciae captae era piena la storia dell’umanità.

         Ora che i tempi di quella temeraria roulette russa si sono conclusi con la nostra vittoria nella guerra fredda, ci piacerebbe che la politica e la riflessione sulla politica non si accontentassero soltanto di esternare le emozioni, idiosincrasie e commozioni che ci vengono riversate addosso in questi giorni: il grido sottinteso «fermate il mondo vogliamo scendere» da una parte e la monotona evocazione dell’appeasement verso Hitler o le professioni di canina fedeltà dall’altra non servono a capire nulla e ci sembrano lontane da ogni etica della responsabilità. Mentre scriviamo non sappiamo ancora “come andrà a finire”. Siamo comunque felici che un secolo di progresso morale (e di correlato individualismo affluente) spinga oggi i nostri concittadini di tutto l’Occidente a scendere in piazza per la pace anziché per partecipare a una radiosa primavera di guerra; e comprendiamo come possa essere irrealistico suggerire qualche cautela problematica a una sinistra che ha finalmente l’opportunità di approfittare di una causa estremamente popolare. Però ci interesserebbe di più discutere razionalmente sul da farsi, non solo in relazione all'attuale disputa sull'Iraq: anche perché, sperabilmente, prima o poi questa sinistra potrebbe essere di nuovo lei a dover prendere decisioni per conto del paese e assieme ai partner europei.

         Innanzitutto ci piacerebbe che non si pensasse di scansare il problema dichiarandolo sempre inesistente (come molti hanno fatto per decenni di fronte alla minaccia sovietica). Preferiremmo confrontare qualche opinione non banale su una delle principali difficoltà anche teoriche della democrazia: cioè sul carattere inevitabilmente non pubblico di informazioni cruciali per consapevoli decisioni razionali e pubblicamente adottate, soprattutto in materia di pace e guerra (quanto contò sulla vittoria finale e sui suoi costi umani il segreto mantenuto - a prezzo di altri costi umani enormi - sulla decifrazione dei codici nazisti?). Ci piacerebbe che non si sottovalutassero le novità emerse negli ultimi tempi, semplicemente ignote fin qui al diritto internazionale, che non prevede né l’esistenza di eserciti terroristici transnazionali privati, né la presenza di Stati governati da despoti legibus soluti in grado di disporre di armi di distruzione di massa. La legittima difesa internazionale deve rispondere ad un “attacco armato” già verificatosi: è sostenibile questo criterio, quando l’attacco può consistere in un’arma nucleare, batteriologica o chimica piazzata in una grande città? La natura liberale o tirannica o totalitaria o integralistica di uno Stato e di una società è davvero del tutto indifferente rispetto alla sua attitudine belligena? Nelle guerre balcaniche del passato decennio è stata più saggia, assennata, coerente con valori e interessi occidentali, e anche “moralmente” giustificata, l’omissione di soccorso durante il lungo e feroce assedio di Sarajevo o l’ingerenza umanitaria anche armata? Ha senso, nelle relazioni internazionali, porsi il problema della “parità di trattamento” fra situazioni analoghe, per giustificare sempre l’inerzia di fronte a ogni barbarie, o bisogna prendere atto che vi sono situazioni in cui l’ingerenza umanitaria è doverosa perché è possibile e può condurre almeno alla “riduzione del danno”, e altre in cui essa è impossibile perché provocherebbe danni maggiori o conflagrazioni e catastrofi inimmaginabili? L’esclusiva titolarità dell’Onu a legittimare le azioni armate come si concilia con la necessità di un accordo di natura meramente politica fra i cinque titolari di veto nel Consiglio di Sicurezza per un verso, e per un altro con la maggioranza antidemocratica degli Stati nell’Assemblea generale (da cui la grottesca presidenza libica della Commissione Diritti umani - eletta con l’astensione fra gli altri del rappresentante del governo italiano, sedicente campione dell’Occidente)? E, prima di tutto, esiste qualche politica internazionale che possa essere fatta valere, se la rinuncia all’uso della forza, anche nei confronti di qualunque violazione della legalità internazionale da parte di qualunque satrapia, viene affermata come pregiudiziale assoluta, “senza se e senza ma”, anche in opposizione a eventuali decisioni diverse dell'Onu?

         Il primo presidente non eletto nella storia degli Stati Uniti è riuscito, con l'inopinato impeto geopolitico pianificatorio e costruttivista della sua Amministrazione, con il suo approccio unilateralista e solipsista, con la sua preferenza solitaria e pregiudiziale per la soluzione bellica e con la sua incapacità di confrontarsi con il mondo e anche con i suoi alleati storici - con il “suo” mondo, che non è nemmeno capace di riconoscere - a disperdere in meno di un anno e mezzo l’enorme capitale di solidarietà di cui disponeva all’indomani dell’11 settembre; è addirittura riuscito a mettere a repentaglio la nozione stessa di Occidente, faticosa conquista della seconda metà del Novecento. Non solo Clinton, ma neppure suo padre si sarebbe mai sognato di procedere così.

         Noi che riteniamo che la nascita dell’Europa occidentale come soggetto della politica internazionale sia questione di esistenza o di irrilevanza assoluta per i nostri paesi, e il più potente e realistico attore potenziale di una politica attiva di pace e non di irresponsabilità, assistiamo sgomenti al suo sistematico sabotaggio da parte dei nostri sprovveduti “statisti”, che forse, con la loro incapacità di riconoscere la necessità e l'urgenza dell'integrazione, sono ancor più responsabili di Bush jr. dell'unilateralismo americano, caricato della responsabilità di riempire, come sa e può, un vuoto assoluto. Pur molto affezionati alla mitezza di costumi, di vita e di leggi tipica del nostro continente, non vediamo nulla di promettente o di rassicurante, per noi, per la democrazia e per la pace del pianeta, nel sisma che sta allargando l’oceano Atlantico in queste settimane.


Da Critica liberale, n. 87, gennaio 2003.


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