Il Novecento non ritornerà. Le buone ragioni di Monti
di
Felice Mill Colorni
Vi sono epoche nelle
quali le cesure dell’histoire événementielle
si
imprimono anche, e nel profondo, nelle vite degli individui, segnando un prima
e un dopo anche nel vissuto e nella consapevolezza di ciascuno. Tali sono
state, nel secolo scorso, per tutti gli europei e non solo per loro, le
conseguenze delle due guerre mondiali; tali, per i popoli dell’Europa
centrorientale, gli eventi del 1989. Prima e dopo ciascuno di quegli eventi
tutto era destinato a cambiare: non solo la politica e l’economia, ma anche la
vita quotidiana, i rapporti sociali e i costumi.
Per noi europei
occidentali, negli ultimi decenni, non è andata così. I profondi mutamenti che
abbiamo attraversato non si sono incardinati in avvenimenti puntuali, che
abbiano determinato svolte evidenti fra un prima e un dopo, ma hanno avuto il
carattere di una lenta e spesso sotterranea evoluzione. Né vi sono state, nella
maggior parte dei nostri paesi, cesure istituzionali, cui i mutamenti sociali
si siano accompagnati, paragonabili a quelle del 1945.
Eppure i mutamenti ci
sono stati eccome. Si è trattato, soprattutto, di mutamenti di natura
tecnologica e di natura demografica, che hanno inciso profondamente nel nostro
modo di comunicare e di lavorare, e nelle scansioni dell’esistenza, ma non
altrettanto nella nostra consapevolezza storica e nel nostro sistema di valori.
Quest’ultimo, con tutte le inevitabili contraddizioni, ha continuato a evolvere
nello stesso senso e nel solco dei decenni precedenti e della modernità
occidentale: segnando una progressiva secolarizzazione, un progressivo
allontanamento dei costumi dalle costrizioni della tradizione, una crescente
consapevolezza del valore della pari dignità sociale degli individui e
dell’inammissibilità delle discriminazioni fondate sulle identità ascritte
(età, sesso, etnia, orientamento sessuale, cultura di origine, ecc.), forzando perfino
la vita familiare a conformarsi a modelli sempre più egualitari e a volersi e ad
autocomprendersi come cellula, anch’essa egualitaria, di una società improntata
tutta alla pari dignità sociale e all’uguaglianza dei diritti. Più o meno
chiaramente o confusamente, perfino quando le contraddizioni dell’agire
politico con questi principi sono evidenti, tali contraddizioni vengono interpretate
– e condannate oppure giustificate in nome della loro asserita necessità – come
trasgressioni a principi che non vengono, per lo più, revocati in dubbio. Perfino
la destra populista, quando cerca di provocare o sfruttare riflessi, umori e rigurgiti
reazionari, deve pagare il proprio pedaggio a questa evoluzione storica,
negando la natura di quel che solletica nella pancia e nella parte rettile del
cervello degli elettori: anche quando introduce discriminazioni e privilegi, strizzando
l’occhio ai propri elettori, deve sempre farlo negandone a parole la natura.
Perfino la Chiesa cattolica è costretta a falsificare la propria storia plurisecolare
e a fingersi antesignana della civiltà dei diritti umani.
In sostanza, noi
europei occidentali abbiamo finora vissuto ininterrottamente, da ormai quasi
settant’anni, bene o male (e magari, in qualche paese come il nostro, più male
che bene) nell’ambito di una democrazia liberale, di un’economia di mercato e
consumistica, di un crescente progresso tecnologico e di una crescente
aspettativa di progressi tecnologici ulteriori e forieri di benessere crescente
e di crescente consapevolezza ambientalista diffusa; in un’Europa non più
dominatrice, costretta almeno a qualche forma di integrazione, in un mondo irreversibilmente
decolonizzato. Più che una “postmodernità”, la nostra, in sostanza, è stata fin
qui una “supermodernità”, una radicalizzazione, almeno ideale, e non un
rinnegamento del moderno.
Un europeo che fosse
nato 150 anni fa, e che avesse goduto di una vita molto, ma non
straordinariamente, lunga, avrebbe fatto in tempo a utilizzare, nel corso della
sua vita, le ultime diligenze e i primi voli di linea; avrebbe conosciuto la
nascita dal nulla delle reti di distribuzione dell’elettricità e del gas, e
dell’illuminazione artificiale; l’invenzione e la diffusione di telegrafo,
telefono, comunicazioni senza fili, trasmissioni radiofoniche, fino alle prime
trasmissioni televisive in qualche paese; avrebbe attraversato un’epoca che non
conosceva anestetici e antibiotici per arrivare ai primi sistemi sanitari
moderni garantiti a tutti; avrebbe assistito agli ultimi conati dell’Ancien
Régime, alla nazionalizzazione delle masse, alla Grande
Guerra, alla nascita dei totalitarismi, all’affermarsi della democrazia di
massa.
Noi non abbiamo vissuto
sconvolgimenti paragonabili. I mutamenti tecnologici degli ultimi settant’anni
hanno cambiato, sotto traccia, una parte soltanto, e apparentemente più
limitata, delle nostre vite. I nostri aerei viaggiano ancora, più o meno, alla
stessa velocità raggiunta più di quarant’anni fa (anzi, per chi se lo poteva
permettere, oggi non c’è più il Concorde). I treni, mediamente, ci hanno
guadagnato solo sulle tratte principali. Gli ingorghi automobilistici sono all’incirca gli stessi. Certo, i
costi dei viaggi e delle comunicazioni sono drasticamente calati, ma a un
analfabeta informatico potrebbe quasi sembrare che il progresso tecnologico abbia
di molto rallentato la sua corsa.
I mutamenti tecnologici
intervenuti si sono mostrati finora abbastanza capaci di convivere con i
principi e gli sviluppi della modernità occidentale. E non, invece, con i
regimi totalitari, comunisti o più o meno autoritari o fascisti, che ne sono
stati spazzati via. Non è escluso che l’era di Twitter non si possa alla fine
rivelare invece esiziale per le sorti della democrazia liberale, e propizia al
definitivo affermarsi di democrature populiste, forse perfino nuovamente belligene;
ma per ora questo è soltanto un rischio ipotetico, e forse ancora remoto.
Di qui l’illusione
molto diffusa di poter ancora utilizzare nel nostro tempo i paradigmi della
politica novecentesca. Invece qualcosa è cambiato nel profondo.
La stessa tecnologia,
la cui obbligata diffusione capillare ha reso politicamente insostenibile la
competizione del mondo sovietico con l’Occidente, determinandone il collasso molto
più efficacemente di Reagan o di Wojtyła, ha anche profondamente eroso la
sovranità degli Stati, concorrendo a instaurare un’interdipendenza globale che,
se ha probabilmente scongiurato il rischio dell’autodistruzione nucleare
dell’umanità, ha reso non più governabili come in precedenza a livello statale
i processi economici. E ha irreversibilmente mutato non solo i mercati
finanziari, ma anche il modo di produrre e i rapporti di produzione.
C’è poco da fare:
l’apertura dei confini e l’interdipendenza garantiscono al meglio possibile la
pace fra superpotenze, ma, per converso, il lavoro ha perso nettamente il
valore economico che aveva progressivamente acquistato nel corso di un secolo.
Anche se l’ascensore sociale si è bloccato – e anzi per molti funziona solo
verso il basso – il conflitto sociale non può più avere la funzione,
l’efficacia e il rilievo che aveva ai tempi in cui Einaudi rifletteva sullo
sciopero dei portuali di Genova del 1900: sia perché per lo più il lavoro non è
più standardizzato come allora, sia semplicemente perché, sul piano
strettamente economico, la gran parte delle produzioni può cessare, senza irreparabile
danno per il capitale, ed essere delocalizzata quando non risulta più
conveniente proseguirla in loco.
Il Novecento ha anche
consumato, con il rovinoso sfacelo – non solo geopolitico, ma economico, storico,
etico e perfino ecologico – del comunismo storico, ogni prospettiva di
socialismo in senso forte, inteso come socializzazione, almeno a termine, dei
mezzi di produzione. Nessuna utopia contemporanea è stata ridicolizzata più di
quella leninista, che, puntando sulla progressiva automazione e semplificazione
dei processi, aveva predetto la possibilità dell’ascesa al governo della cuoca
del capo. Siamo andati non verso crescenti semplificazioni, ma verso una
crescente complessità, ormai difficile da governare anche per ceti dirigenti che
sono massacrati nella loro capacità di visione e comprensione della realtà
dalla “barbarie dello specialismo”, cui si sono andati sempre più improntando i
sistemi formativi. E dovremmo avere compreso che società non poliarchiche,
interamente governate dalla politica – anche dalla politica “democratica” – non
possono sfuggire alla tentazione autoritaria e totalitaria, se il potere della
politica non è adeguatamente arginato a sua volta da forti contropoteri sociali.
Dopo l’esperienza storica della democrazia di massa del Novecento, nessuna
concezione utopistica o sprovveduta della democrazia potrà più far credere che la
legittimazione democratica di una classe politica possa garantirne di per sé l’esercizio
del potere a fini di utilità generale: “pubblico” e “interesse pubblico”
potranno tornare ad essere usati come scontati sinonimi solo da politicanti
demagoghi e populisti.
Se qualcosa accomunava
la tradizione del socialismo rivoluzionario a quella riformista, era un’idea-forza,
radicata in una comune filosofia della storia, esplicitata o meno che fosse, un’idea
che l’alta cultura aveva magari sempre più ritegno a teorizzare, ma che era ben
sedimentata nel senso comune della sinistra sociale. Secondo questa idea-forza,
alla “classe operaia” era riservato lo stesso destino che le grandi narrazioni
delle scienze sociali avevano attribuito in precedenza alla “borghesia” e alla
sua ascesa che aveva scalzato il dominio aristocratico. Come la borghesia
all’inizio dell’età moderna, la classe operaia avrebbe improntato la storia del
mondo non solo a un diverso sistema di rapporti economici, ma anche a un
proprio sistema di valori e a una propria visione del mondo, radicalmente
diversi da quelli “borghesi”. La “coscienza di classe”, e l’“orgoglio di
classe” – fino all’“odio di classe” – erano radicati e motivati in quella
narrazione. Quale “orgoglio” sarebbe oggi possibile nutrire da parte di chi non
si può più riconoscere, come allora, membro di un gruppo destinato al dominio
del mondo, ma si considera soltanto un escluso dalla condivisione di un
benessere sempre meno diffuso (sempre meno diffuso – beninteso, relativamente –
nel nostro Occidente europeo un tempo dominatore del mondo)?
Più che a ritenere attuale
e possibile la riappropriazione dello scettro della guida della “sinistra” al
liberalismo, dopo un secolo di sua usurpazione socialista, questi sviluppi
dovrebbero indurre i liberali progressisti – cioè i liberali impegnati a
perseguire il disegno storico emancipatorio e incompiuto della modernità
occidentale, illuministica, laica, individualistica – a riflettere sull’utilizzabilità,
due secoli dopo, degli stessi concetti di destra e di sinistra.
Si può pretendere un
uso critico e consapevole delle parole della politica, ma è vano battersi
contro la natura convenzionale del linguaggio. Più ancora che altrove in Europa,
in un paese politicamente disgraziato come il nostro, “sinistra” è divenuto, nell’ultimo
funesto diciottennio, e più ancora di quanto non lo fosse in passato, sinonimo
di qualcosa che ha a che fare, almeno alla lontana, con l’esperienza storica
del comunismo, o che almeno non vi si contrappone frontalmente (e “destra”,
simmetricamente, è qualcosa di imparentato, o comunque non frontalmente contrapposto,
al fascismo storico; e “centro” sinonimo di clericalismo estremista). Ma, anche
a prescindere dal miserando e caricaturale caso italiano, è davvero pensabile
proporsi e proporre oggi seriamente di espungere retroattivamente dal concetto
di “sinistra” tutta l’esperienza novecentesca del comunismo storico – e di
quella larga parte della sinistra che non era comunista, ma vi era tuttavia legata
o subalterna? E se si risponde negativamente, come sembra inevitabile, che
senso ha incaponirsi a far uso di quel concetto o rimanervi affezionati? E come
si può pensare, dopo l’esperienza storica del Novecento, di far proprie
l’estetica e la retorica tradizionali di quella sinistra, o anche soltanto
alludervi?
Tanto più che, accanto
al cleavage socioeconomico
principale della politica novecentesca – e dando vita con questo e fra di loro
alle più diverse e inattese combinazioni – altri cleavages,
spesso non meno rilevanti, oggi concorrono sempre più a determinare il
posizionamento politico e l’identità di individui e gruppi: autoritarismo,
proibizionismo e tradizionalismo versus
laicismo, libertarismo e politiche dei diritti; etnocentrismo e sovranismo versus cosmopolitismo e globalismo;
centralismo versus autonomismo;
industrialismo a oltranza versus
ambientalismo. Tanto in linea teorica che all’atto pratico, tali sostanziali linee
di frattura non si prestano per nulla a essere ricondotte ad alcun coerente o
semplicistico posizionamento sul continuum
destra / sinistra.
Personalmente credo che
l’agenda di un liberalismo progressista dovrebbe essere oggi riformulata in
piena autonomia rispetto alle ricette del passato. La massimizzazione delle
libertà e dell’autodeterminazione degli individui e la limitazione dei poteri legali
e di fatto capaci di contrastarle, che sono il fulcro valoriale di ogni
liberalismo, richiedono certamente, e oggi molto più che venti o trent’anni fa,
di riavviare la mobilità sociale e di assicurare maggiore equità e uguaglianza
di opportunità; ma gli strumenti per realizzare questi obiettivi nel presente
non possono essere quelli propri di una società industriale che non esiste più
e di un welfare pensato per una società demograficamente affatto diversa
dall’attuale.
Chi conviene con
l’analisi neokeynesiana secondo cui la crisi globale, essendo essenzialmente
crisi della domanda aggregata, richiede politiche dei redditi largamente
redistributive, a livello statale potrà anche agire – nella misura
consentita dal contesto e dai condizionamenti europei e internazionali – sulle politiche
fiscali. Ma la dimensione minima per pensare di poter influire sulla riforma
delle regole globali non può certo essere quella statale, la cui scala europea nel
mondo attuale è del tutto risibile, ma deve essere come minimo quella europea.
Tutto il resto delle
politiche sociali, tutto quel che può costituire in questo campo programma di
governo a livello statale – welfare, scansioni dell’esistenza, rapporti e
regole del lavoro – va ripensato alla luce degli irreversibili mutamenti
tecnologici e demografici intervenuti, che richiedono ricette radicalmente
nuove. Dopo la catastrofe totalitaria del Novecento – in cui il comunismo
storico non può essere visto, se non sotto il profilo delle sue diverse intenzioni
e illusioni, sotto una luce molto diversa da quella lugubre che avvolge
l’esperienza storica del fascismo – la bussola del liberalismo progressista non
può più essere, neppure per default, la difesa o la restaurazione di quel che
può essere salvato o recuperato dell’acquis della sinistra
novecentesca (come ai tempi in cui i liberali progressisti italiani si potevano
limitare a candidarsi a “componente liberale della sinistra”).
Per non dire che oggi
in Italia le priorità prime e le precondizioni assolute per la praticabilità di
qualunque programma politico liberale, o anche soltanto costituzionale e
democratico, si situano a monte di ogni possibile discrimine tradizionale fra
una normale destra e una normale sinistra europee, qualunque qualificazione e
specificazione se ne voglia dare, e riguardano inannzitutto: a) la
ricostruzione dell’etica pubblica, della decenza e delle basilari regole del
gioco dopo la catastrofe berlusconiana (e quindi anche scelte pubbliche
suscettibili di lasciare il minimo spazio alla discrezionalità e all’intervento
corruttivo e clientelare di una classe politica per lo più profondamente e
strutturalmente degenerata e screditata, che non sarà di certo rigenerata da
una prossima tornata elettorale); b) la ripresa del processo di costruzione di
un’Europa capace di agire con autorevolezza, cioè come soggetto della politica
e del diritto internazionale; c) l’arginamento dell’assalto malavitoso e
clientelare alle risorse pubbliche; d) una modernizzazione civile dell’Italia
che riconosca nella laicità – cioè nella più rigorosa neutralità delle
istituzioni pubbliche in materia di opinioni religiose e nell’uguale
trattamento dei soggetti giuridici implicati – il solo strumento possibile per
realizzare la pari dignità sociale degli individui in una società pienamente
pluralista e secolarizzata come è ormai la nostra, evitandone l’altrimenti
verosimile disgregazione comunitaristica su base etnica o religiosa.
Almeno per quel che
riguarda i primi tre di questi quattro punti, e tenuta nella dovuta
considerazione la non proprio irrilevante circostanza che il governo Monti non
dispone di una propria maggioranza, ma deve fare i conti con quella eletta nel
2008, a me sembra che esso meriti molto più di un apprezzamento da parte nostra.
E perfino in fatto di laicità – materia che non è certo nelle corde della
maggior parte dei ministri e del loro presidente – il giudizio, finora, non può
che essere comunque migliore, o assai meno negativo, non solo di quello da
riservare alla destra populista – dopo tutto ci voleva davvero pochissimo – ma
anche a tutti i governi di “centrosinistra” che lo avevano preceduto – e che
verosimilmente gli succederanno.
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