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La complicità degli smemorati

di Felice Mill Colorni

         Uno degli ambiti in cui il berlusconismo ha mietuto alcuni fra i suoi più disastrosi successi – e uno di quelli in cui verosimilmente il suo passaggio devastatore è destinato a lasciare le tracce più profonde e durature – è quello dell’azzeramento della memoria storica e dell’identità civile ed etico-politica dell’Italia. In quest’ambito il berlusconismo ha agito pressoché indisturbato, guidato, come in ogni altro campo, da nessun’altra bussola che il perseguimento degli interessi dei soci della consorteria e il danneggiamento dei suoi avversari (che, astutissimi come si ritengono, hanno finito per assecondarlo pienamente). Direttamente, Berlusconi non aveva in questo campo il minimo interesse da far valere, perché in tutto quel che concerne problemi che abbiano a che fare con la cultura civile egli non ha, semplicemente, alcun interesse, se non un fastidio superficiale per tutto quel che esisteva prima del suo avvento. Inizialmente ha quindi manovrato in questo settore con il solo obiettivo di consolidare la propria coalizione parlamentare e di delegittimare l’acquis repubblicano, come sempre senza badare alle conseguenze.

         Il berlusconismo ha potuto contare, anche qui, sulla man forte datagli soprattutto dagli ex comunisti, giustamente e inevitabilmente annichiliti dall’evidente fallimento della costruzione intellettuale cui avevano consacrato la propria esistenza: ragione solo per pochi di fare seriamente i conti con il pensiero liberale. Semmai, per molti di essi, ragione per iniziare una penitenza incondizionata e gridare perennemente ai quattro venti «come ho fatto ad essere così fesso»; per altri, gli astutissimi allocchi della Direzione, per cercare di trarre qualche utilità da una situazione disperata.

         Nel disinteresse quasi plebiscitario dell’establishment della Repubblica, ormai forse estinto, il berlusconismo ha iniziato non solo azzerando l’antifascismo come elemento identitario delle istituzioni, ma ha anche promuovendo e avallando una progressiva e strisciante rivalutazione del fascismo storico. Fuori dall’Italia (con l’eccezione dei Paesi Baltici, che hanno comunque ben altre attenuanti) la relativa rivalutazione postuma del fascismo è un fenomeno che non esiste; che esista in Italia è nozione pressoché ignota fuori dai confini, e le sue singole manifestazioni, quando vengono conosciute, suscitano più che altro incredulità. Quando George Bush Jr., che era George Bush Jr., ha voluto dire tutto il male possibile di Osama Bin Laden, non ha trovato di meglio che definirlo, letteralmente, «fascista».

         Nell’infausto ’93 in cui decise di buttarsi in politica per salvare se stesso dalla giustizia penale e le sue imprese dal dissesto, Berlusconi si arrangiò senza complessi con quel che era disponibile: fin dal suo debutto annunciò che avrebbe sostenuto l’allora segretario del Movimento Sociale Italiano Gianfranco Fini, nella sua corsa a Sindaco di Roma contro l’allora ex radicale e ambientalista Rutelli.

         Fino ad allora il partito erede del fascismo, che derivava il suo nome da quello della Repubblica Sociale Italiana, cioè dalla fase nazifascista della storia del fascismo, salvo una sola eccezione nel 1972 (quando aveva raccolto l’8,6% dei voti), dopo un modesto esordio era sempre oscillato fra il 5 e il 6% circa nelle elezioni politiche, ma Berlusconi ne aveva intuito le potenzialità. Il Msi, era, per il leader comparso dal nulla, un partito “moderato”, rispetto a una coalizione di centrosinistra in cui la maggior parte degli ex comunisti credeva di essersi già lasciata il comunismo alle spalle, di essergli miracolosamente sopravvissuta.

         Gli astutissimi allocchi provenienti da quell’incresciosa esperienza credettero di cogliere la palla al balzo. Chi, una volta pienamente legittimati perfino gli eredi del fascismo, avrebbe potuto ancora rinfacciare loro il “fattore K”? Purtroppo per loro, continuavano, e continuano, a non voler capire che controllare i media che contano non è irrilevante, ma, alla lunga, consente di cambiare la mentalità di una popolazione. In Italia oggi come nell’Italia di ottant’anni fa, come in Serbia, come in Russia. Oggi, come forse si meritano – anche se non se lo merita tutto il paese e neppure tutta la sinistra – loro continuano a poter essere additati come “comunisti” – anzi, di essere “comunista” o filocomunista è accusata l’intera sinistra, l’intero centrosinistra, anzi tutto quel che non è di proprietà o di obbedienza berlusconiana; mentre per il senso comune generalmente condiviso, e introiettato pure dagli stessi ex comunisti, è disdicevole considerare o definire neofascisti, o anche “postfascisti”, tutti quelli di An, ora in transumanza verso il Pdl. Neppure quando ministri in carica si rammaricano pubblicamente della sconfitta dell’Italia mussoliniana nella seconda guerra mondiale, quando in innumerevoli comuni italiani i sindaci di An intitolano strade e scuole alla memoria di gerarchi locali del fascismo, e perfino quando ripristinano – è accaduto a Palmanova – lo slogan «credere, obbedire, combattere» sulla facciata di una scuola elementare: si trattava, è stato spiegato dall’amministrazione comunale, del restauro architettonico filologico dell’edificio, che cosa c’entra mai la politica? E neppure quando si celebra con un apposito annullo postale la memoria di uno dei più esagitati propagandisti delle leggi razziali nelle scuole di “mistica fascista”: mica perché era fascista, era un caduto in Russia insignito di medaglia d’oro e raccomandato anche dall’associazione degli alpini. Neppure quando, immediatamente al di sotto del livello apicale rappresentato dall’“uomo immagine” Fini, che peraltro ormai pensa probabilmente solo al dopo-Berlusconi, sono forse perfino maggioranza gli esponenti di An che dichiarano, come se fosse acqua fresca, che, ritrovandosi nel ’43, si comporterebbero come i loro antenati politici. Lo stesso Fini è uno che passerebbe ovunque quasi inosservato, ma in Italia svetta di molte spanne al di sopra di quasi tutti i subleaders della destra, e non solo di quelli, perché non è impudente come i suoi compagni, o camerati, di strada.

         A scanso di equivoci: siamo stati, e senza nutrire alcun pentimento a posteriori, severi critici sia dell’antifascismo inteso come collante e ideologia fondante della democrazia consociativa degli anni Settanta, del compromesso storico e delle “larghe intese” fra democristiani comunisti e loro correnti esterne, sia dell’autocelebrazione delle forze politiche che si riconoscevano in quell’antifascismo di regime autocostituendosi in un sedicente “arco costituzionale”, titolato a discriminare diritti e libertà costituzionali di ogni forza politica e culturale refrattaria a tale intruppamento (inclusi gli eredi meno improbabili del defunto Partito d’Azione), e determinato a realizzare una democrazia partecipativa sostanzialmente priva di opposizione. In particolare, chi scrive può oggi nutrire la vanagloria di essere stato un aperto e pubblico oppositore, nel 1975, dell’iniziativa legislativa popolare mirante alla messa fuori legge del Msi-Dn, patrocinata da uno schieramento che andava dalla sinistra extraparlamentare dell’epoca fino a molti esponenti del Psi, e di averlo fatto in nome della libertà di espressione e di organizzazione politica anche delle opinioni più ribalde; e più ancora di aver definito, non oggi ma all’epoca, “abominevole idiozia” l’“antifascismo militante” di strada, manesco e guerriero, e talvolta criminale, molto in voga in quegli anni non solo fra gli estremisti più violenti.

         Molti di coloro che all’epoca si facevano invece usbergo dell’antifascismo per giustificare ogni sorta di pastrocchio e di lottizzazione, terremotati e resi ora afasici dagli avvenimenti culminati nell’89, sono passati direttamente, dalla tentazione dell’autoritarismo giacobino e proibizionista, in casi estremi dall’apologia dell’omicidio politico, all’accondiscendenza verso una larga assoluzione postuma non solo dei postfascisti ma dello stesso fascismo storico, e non protestano neppure di fronte alla coerente e articolata strategia di rivalutazione strisciante della sua memoria che ha ormai radicalmente capovolto gli ottusi paradigmi di trent’anni fa. Ora, negli sceneggiati televisivi come nei film ambientati in epoca fascista, ma anche nelle ricostruzioni giornalistiche, nei documentari e nel docufiction, l’“italiano-brava-gente” è tornato ad essere naturalmente fascista, il partigiano prevalentemente animato da sentimenti deplorevoli e meschini, e naturalmente più buono di tutti il prete del quartiere o del villaggio, sempre pronto a difendere gli uni contro i soprusi degli altri, da solo o assieme al maresciallo dei carabinieri. Il grimaldello, tipicamente italico, è stato individuato inizialmente nella – ovviamente indiscutibile – buona fede dei tanti italiani che, totalmente digiuni di qualunque straccio di cultura politica occidentale dopo vent’anni di dittatura, avevano fortemente creduto nel fascismo e ne avevano condiviso con ottusa e incosciente dedizione, eroismo e sacrificio personale tutte le avventure; e nell’enfatizzazione di tutte le atrocità – sempre immancabilmente presenti in ogni guerra da che mondo è mondo – commesse dai partigiani comunisti, a loro volta identificati tout court con la Resistenza (identificazione del resto propugnata in precedenza per mezzo secolo proprio dai comunisti: come se Giustizia e Libertà e brigate Matteotti non fossero mai neppure esistite). Individuando però nei vinti fascisti, anziché negli antifascisti liberali e democratici, veri possibili concorrenti e competitori, le vittime principali delle violenze comuniste immediatamente seguite alla Liberazione (si veda invece, a questo proposito, il recente volume di Mirella Serri “I profeti disarmati. 1945-1948: la guerra fra le due sinistre”, ed. Corbaccio).

         Il ruolo del fascismo come fenomeno storico e quello contrapposto di chi lo combatté consentendo la restaurazione della democrazia italiana passano totalmente in secondo piano rispetto alla prevalenza del “lato umano”, l’unico ormai apprezzabile e comprensibile a una popolazione resa politicamente pressoché analfabeta dall’imbonimento televisivo quotidiano, e anche l’unico capace di far presa sugli stessi ex militanti ed elettori comunisti pentiti: che non fanno fatica a identificarsi oggi psicologicamente con i vinti fascisti di sessant’anni fa. E quelli fra questi ultimi che non erano mai stati capaci di farsi una ragione di quel che era loro successo sono stati liberi di riattivare riflessi mentali e paradigmi superficialmente messi da parte per decenni solo per convenienza e non per convinzione. Tutte le vacche sono diventate così ugualmente grigie.

         Finché è servito, al fascismo storico non si sono più imputati neppure la distruzione della democrazia liberale in Italia, le violenze di massa, gli omicidi politici e l’instaurazione della dittatura, ma solo – questo almeno si era udito finora – le leggi razziali e l’alleanza bellica con il nazismo, e al più forse qualche atrocità coloniale particolarmente efferata. Se quelli del regime furono gli “anni del consenso”, era la tesi più o meno esplicitata, ciò significa non che c’è qualcosa di preoccupante (e magari ricorrente) nell’autobiografia della nazione, ma che il fascismo non doveva poi essere così male, dato che, come è noto, gli italiani sono, per aprioristica definizione, “brava gente”. Il concetto era espresso alla perfezione dal capo della consorteria, con la nota affermazione secondo cui il fascismo si era limitato a mandare i pochi dissidenti in villeggiatura.

         Questa nouvelle vague non si è fermata al livello della vulgata televisiva. Sostenuta da ampi investimenti editoriali rivolti a un pubblico di cultura anche medio-alta e da un attivismo accademico minoritario ma significativo – entrambi ovviamente e snobisticamente sottovalutati dagli astutissimi allocchi dell’opposizione, ma anche dalla maggior parte degli storici accademici – ha finito per promuovere un nuovo senso comune anche fra gli italiani un tempo immuni. Si è rivelata precorritrice quella studentessa di storia contemporanea della Sapienza che, interrogata in un programma televisivo di qualche anno fa sul suo personale giudizio sul fascismo dopo anni di studio, affermava di essere in grado di dirne «tutto il male e tutto il bene possibile».

         Si sono insomma rotti tutti gli argini che, in ogni paese civile dell’Occidente, separano le posizioni politiche e culturali che si riconoscono senza remore nella democrazia liberale da quelle che nutrono qualche sintonia o qualche legame di nostalgia con i totalitarismi, e in particolare con quello fascista. Quest’ultimo, pur essendo stato il primo a vantarsi di tale qualificazione, è anzi diventato di cattivo gusto definirlo così, il totalitarismo essendo stato al massimo, si dice, un obiettivo mancato dal fascismo storico. Come se i modelli idealtipici elaborati dalle scienze storico-sociali potessero ritrovarsi nella realtà storica nella loro forma pura, anziché essere mere costruzioni intellettuali elaborate a fini euristici. Questa rottura degli argini non si esprime soltanto nell’ormai pacificamente acquisita legittimità giuridica dell’esistenza di movimenti politici esplicitamente fascisti o nazifascisti – che è comune anche a molti altri paesi di antica e consolidata tradizione liberale e libertaria, a cominciare da Usa e Gran Bretagna, che pure il fascismo al potere non lo hanno mai sofferto – ma anche con la loro ormai incontestata legittimazione politica come partner nella formazione delle maggioranze ad ogni livello di governo. E addirittura come possibili e perfino scontati alleati nelle stesse liste elettorali di quello che l’invertebrata opposizione accetta tuttavia di definire “centrodestra”.

         Fascismo e comunismo – o comunque posizioni politiche che orgogliosamente riconoscono le proprie radici nel fascismo e nel comunismo – sono oggi presenze radicate nella politica italiana quanto non lo furono mai neppure nel corso della cosiddetta Prima Repubblica. Mai come nell’Italia berlusconiana ogni posizione di destra o di sinistra è vista anche retrospettivamente come in qualche modo naturalmente e legittimamente imparentata con il fascismo storico o con il comunismo reale. Oggi solo una piccola minoranza di italiani è consapevole che nella storia dell’Italia repubblicana la somma della forza elettorale di Pci e Msi è stata sempre nettamente al di sotto della metà dell’elettorato, e raramente superiore al suo terzo. Una maggioranza di italiani è convinta che a governare l’Italia nel corso della cosiddetta “Prima repubblica” siano stati i comunisti anziché i democristiani. E il “fasciocomunismo”, ovviamente impastato con il cattolicesimo nazionalpopolare in ogni sua gradazione, è stato eretto a naturale, legittimo, quasi unico, protagonista della storia del Novecento italiano, e naturale e legittima matrice della politica dell’Italia del XXI secolo. E dire che, quindici anni fa, le proposte di riforma elettorale miravano tutte a seppellire definitivamente gli ultimi residui dei totalitarismi del secolo breve.

         Il capo della destra populista ha sempre avuto vita facile in questi anni a tappare la bocca ai suoi oppositori tacciandoli di “comunismo”. E bisogna riconoscere che c’è voluto un segretario del Pd di provenienza democristiana perché alle reiterate accuse di “cattocomunismo”, gli venisse finalmente risposto che è semmai lui a poter essere ben più fondatamente tacciato di “clericofascismo”: era davvero tempo. Probabilmente non avremmo mai potuto ascoltare una replica così ovvia dalle labbra di un segretario del Pd di provenienza comunista.

         E ora, mai fattosi vedere neppure per sbaglio a celebrare eventi connessi alla liberazione dal fascismo per quindici anni, consolidata ormai la nuova vulgata, Berlusconi, grazie alla pochezza degli avversari, può seriamente proporsi di competere anche per la conquista della parte a lui estranea della memoria storica del paese, ribattezzando la festa della liberazione in “festa della libertà”: non più liberazione da qualcosa di specifico e storicamente determinato, ma allusione letterale al nome, grottescamente usurpato, del suo partito personale.

         Ma ormai gli argini non sono stati rotti soltanto nei confronti dei totalitarismi novecenteschi. È la stessa modernità politica degli ultimi due secoli – ed è l’intero processo risorgimentale – a essere messo in causa. Sotto la spinta dell’estremismo clericale e della regressione etnoregionalista, l’avvitamento oscurantista si fa vertiginoso (e impossibile da rincorrere perfino per il pur volonteroso centrosinistra). Siamo al diffuso rimpianto per la cristianità medievale, alla sempre più corrente e universale sottovalutazione o denigrazione della Riforma, all’imputazione di ogni male del nostro tempo all’illuminismo, alla rivincita della superstizione sulla ricerca scientifica, all’aperto ripudio del Risorgimento italiano. Neppure al tempo del fascismo, neppure ai tempi di Gedda, si era mai sentita il 20 settembre una commemorazione degli zuavi pontifici caduti a Porta Pia, neppure allora ci si sarebbe sognati di intitolare piazze centrali di capoluoghi di provincia dell’Italia profonda a insorgenze sanfediste antinapoleoniche responsabili di pogrom antisemiti e di stermini di comunità ebraiche.

         Non si tratta di eccessi di zelo di sprovveduti politicanti di provincia o di accademici particolarmente eccentrici, o del personale incapricciamento sanfedista di un giornalista di regime pur influente come Giuliano Ferrara, ma di una battaglia culturale consapevolmente ingaggiata dalla destra e non contrastata dal centrosinistra: in forme meno sbracate, ma proprio per questo anche più consapevoli, lo stesso orientamento antiilluministico è stato fattivamente sostenuto con i contributi finanziari erogati dalla Regione Lombardia alla ricerca “revisionistica” esplicitamente antirisorgimentale.

         È solo alla luce di questa temperie culturale, di cui in Italia nessuno si scandalizza neppure più, di cui il “centrosinistra” non sembra minimamente preoccuparsi e neppure accorgersi e che, non essendo all’interno neppure più oggetto di discussione, è del tutto ignorata al di fuori dei confini italiani, che diventano comprensibili comportamenti politici culturalmente extraeuropei, come tutti quelli che riguardano da una parte la laicità e le questioni “eticamente controverse” e dall’altra tutto l’inverosimile dibattito italiano di questi anni fra sprovveduti che cianciano di riforme costituzionali senza sapere neppure di che cosa si tratti. Gli italiani, classe dirigente e classe politica incluse, non si sono neppure accorti dell’invisibile e impalpabile cortina di oblio e di incenso che ormai separa la vita civile dell’Italia da quella di tutto il resto dell’Occidente.

         Non nutriamo nostalgie di sorta per il recente passato, e nessuno meno di noi può essere sospettato di voler idealizzare la storia della cosiddetta “Prima Repubblica”, una storia che ha sempre e ininterrottamente visto quelli come noi all’opposizione. Ma, non molto diversamente dai nostri antenati novecenteschi e ottocenteschi, siamo anche troppo consapevoli della secolare arretratezza civile dell’Italia rispetto al resto dell’Occidente europeo per sottovalutare il potenziale di ciarlataneria autoritaria e populista che si annida, sempre pronto a riemergere, nell’“autobiografia della nazione”. Per non sapere che fu anche e forse soprattutto per una ben fondata diffidenza reciproca, per darsi una reciproca garanzia contro il rischio di nuove tentazioni totalitarie, che forze politiche largamente estranee alla storia del costituzionalismo liberale decisero fra ’46 e ’47 di dare all’Italia l’ordinamento costituzionale più liberale, più democratico e più garantista mai realizzato nella sua storia. Perdere la memoria storica significa anche mettersi nelle mani di apprendisti stregoni totalmente irresponsabili e disponibili per ogni avventura.

         Lo abbiamo già cominciato a sperimentare, e non è stato che l’inizio, in materia di libertà dei media e di leggi elettorali, e tre anni fa abbiamo sventato solo di misura una riforma costituzionale da repubblica delle banane. La nuova legge Acerbo, che sortirà dal prossimo referendum di giugno se avrà successo, sarà anche il frutto del venir meno di ogni consapevolezza storica da parte di una società civile narcotizzata e della classe politica più inetta e sprovveduta dell’intero Occidente europeo.

Da Critica liberale, n. 160-161,  febbraio - marzo 2009.


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