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I nostri conti con il pacifismo

di Felice Mill Colorni

Fra il 1949 e il 1989 ogni conflitto che fosse sfuggito di mano avrebbe potuto degenerare in una guerra nucleare. Certo, nessuno lo voleva: benché uno dei due blocchi non avesse alcun carattere democratico, erano però di fronte, diceva l’ottimista Raymond Aron, due gruppi dirigenti responsabili, agenti entrambi in base a criteri di razionalità rispetto allo scopo. Pace impossibile – quindi – ma improbabile una guerra come nel 1914.

E tuttavia il mondo sfiorò in più occasioni l’apocalisse. Come emerse quando i superstiti decisori americani e sovietici della crisi di Cuba si incontrarono trent’anni dopo, gli americani avevano agito allora sulla base dell’erronea convinzione che gli ufficiali sovietici di stanza a Cuba avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione di Mosca per lanciare missili nucleari sul territorio degli Stati Uniti. Non era così: se si fossero ritenuti sotto attacco e senza altra possibilità di “difendersi”, i comandanti sovietici a Cuba erano autorizzati e in grado di farne uso. In un secondo incontro fra i protagonisti politici e militari delle due parti, tenutosi nel quarantennale, fu rivelato che un sottomarino di scorta al convoglio sovietico fermato dal blocco navale, impossibilitato a comunicare con Mosca in immersione, credendosi erroneamente sotto attacco, era stato a un passo dal lanciare un siluro nucleare contro una portaerei americana. Ciò non accadde solo perché era necessario il consenso unanime dei tre più alti ufficiali a bordo. E dei tre, solo il ventisettenne vicecomandante Vasili Arkhipov si rifiutò, nonostante le pressioni e le minacce del comandante e del terzo ufficiale: il siluro non fu lanciato, il mondo non andò arrosto, e Arkhipov, salvatore dell’umanità, rimase sconosciuto fino alla sua morte nel 1999.

Ancora nel novembre 1983, lo sclerotico apparato politico-militare sovietico si era convinto che l’esercitazione Nato “Able Archer 83” fosse la copertura per un attacco nucleare a sorpresa, e, per sventarlo, era sul punto di lanciare un massiccio e reale attacco preventivo che avrebbe raso al suolo l’intera Europa occidentale: solo la soffiata di una spia americana fece annullare l’esercitazione appena in tempo.

Per tutta la durata dello stazionamento degli euromissili Pershing II in Europa, che consentivano alla controparte tempi di reazione di circa cinque minuti, abbiamo riposto le nostre vite e la nostra civiltà nella capacità di discernimento e nella lucidità di un numero indeterminato di ufficiali sovietici di rango medio-alto: cinque minuti erano un tempo insufficiente a qualunque razionale valutazione a livello politico.

Anche le guerre calde localizzate, dalla Corea al Vietnam, durante la Guerra Fredda avevano per posta la competizione globale: oltre al rischio che facessero da detonatori per un conflitto globale, gli interessi localmente in gioco, la vita, i beni e le libertà delle popolazioni coinvolte, passavano in secondo piano, così come le vite dei militari di leva occidentali – quasi sempre americani – obbligati a prender parte a un gioco che inevitabilmente si faceva sempre più aberrante e assolutamente incomprensibile a un’opinione pubblica che vi assisteva ogni sera alla televisione.

Inoltre tutte le forze armate dei principali paesi occidentali, tranne quelle britanniche, erano basate sulla coscrizione forzata maschile, imposta indiscriminatamente anche alla maggioranza di giovani cittadini del tutto e sempre più privi di qualunque vocazione o velleità militare: un’istituzione pletorica e inutile, se la sola guerra concepibile in Europa era una guerra nucleare, e che, se magari era stata fattore di integrazione e perfino di modernizzazione alla fine del Settecento e nell’Ottocento in società contadine, costituiva ormai, nelle sofisticate democrazie liberali del secondo dopoguerra, una vera e propria “pena senza delitto”, una ingiustificabile e inaccettabile privazione di tutte le libertà costituzionali e una forma intensiva di diseducazione civica di massa rispetto ai valori etico-politici e ai principi costituzionali di libertà, di dignità e rispetto per la persona umana e di parità dei sessi, alla cui difesa quelle stesse forze armate avrebbero dovuto in teoria essere preposte. Non a caso, e a dispetto di ogni retorica sull’“esercito di popolo”, tutti i colpi di Stato effettuati in Occidente, dall’Europa meridionale all’America latina, si erano avvalsi di coscritti forzati, che avevano sempre obbedito agli ordini con la stessa disponibilità dei fanti e degli artiglieri del “feroce monarchico Bava” nel 1898.

In quegli anni, per molti liberali progressisti come noi, fu più che giustificato l’approdo a un antimilitarismo radicale. Difficile, anche per il più antisovietico, non convenire con Bertrand Russell: qualunque male ci si fosse proposti di evitare con una guerra, i suoi risultati non avrebbero potuto che essere ancor peggiori, e comportare o la fine pura e semplice della vita umana sulla terra, o quanto meno la fine della civiltà liberale, i cui delicati e precari equilibri non avrebbero avuto alcuna opportunità di sopravvivere nel day after. Poteva sembrare una scelta quasi obbligata la nonviolenza radicale. Altrimenti, meglio divenire Graecia capta che la fine di tutto.

Sono passati però più di vent’anni dalla fine dell’equilibrio del terrore. Il modo di pensare la pace, la guerra e la libertà, la legittima difesa e lo stato di necessità anche nei rapporti internazionali, dovrebbe tener conto dei mutamenti intervenuti. Benché i neocons abbiano contribuito, con le loro follie, a consolidare convinzioni e riflessi acquisiti prima dell’89, la globalizzazione ha creato un’interdipendenza che rende ormai controproducente per qualunque attore internazionale la distruzione dell’avversario. La coscrizione forzata è stata abolita quasi ovunque.

L’uso della violenza armata fa sempre schifo, fa sempre emergere il peggio dell’umanità, non sa discriminare, va sempre evitata se appena sia possibile, ogni volta che possa causare più danni di quanti ne può evitare e ogni volta che l’esito sia incerto. Ma assistere inerti all’assedio e al cecchinaggio pluriennali di Sarajevo, al genocidio del Ruanda, ai massacri in Darfur, alla soppressione di rivolte contro dittature sanguinarie capaci forse di aprire nuovi e insperati territori a istituzioni più libere è contrario non solo ai nostri principi, ma, alla lunga, anche ai nostri interessi più elementari.

Per la prima volta le rivolte in atto nel mondo arabo non hanno per nemico l’Occidente ma i suoi dittatori. E molti dei loro protagonisti sono giovani occidentalizzanti. Non possiamo sapere come andrà a finire, ma abbiamo già abbastanza rovinato in Iraq la nostra reputazione e il nostro soft power: continuare a baciare gli anelli di tiranni e terroristi non è solo stomachevole ma anche ottuso.

Da Critica liberale, n. 186,  aprile 2011.

 

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