La Serrata del Maggior Consiglio
di
Felice Mill Colorni
Utilizzare il disprezzo
dilagante per la “casta” per consolidare e mettere al riparo il potere dei
capibastone della politica italiana. Farsi forti della richiesta del mancato referendum
che voleva liberarci dalla “porcata” di Calderoli e Berlusconi tornando al
sistema elettorale precedente, per escogitarne uno nuovo, la cui principale funzione
sia impedire la nascita di qualunque alternativa ai protagonisti della nefasta
stagione politica che è arrivata al capolinea; e fare piazza pulita di tutti i
rompiscatole attuali e potenziali, presenti e futuri. E smantellare quel che dei freni e
contrappesi costituzionali è sopravvissuto al berlusconismo. Ridurre ai minimi
termini la democrazia rappresentativa a vantaggio di un pugno di boiardi
inamovibili e delle loro consorterie.
È questo il significato
delle manovre in corso sulla legge elettorale e su possibili mutamenti della
forma di governo che vedono protagonisti i gruppi dirigenti del Pdl e del Pd. È
il trionfo (postumo?) di B.
La cialtroneria di gran
parte della classe politica italiana, gli scandalosi comportamenti illegali e
dissipatori diffusi, gli indifendibili privilegi feudali, che hanno provocato
documentate inchieste e ben motivate indignazioni, si sono confusi con una
generica campagna che ha finito per investire, anziché gli effettivi responsabili
del disastro economico e civile, tutta la politica: non solo la larga
maggioranza dell’attuale classe politica, ma la Politica, intesa come attività inevitabilmente,
intrinsecamente, malavitosa. Nell’ultimo nefasto diciottennio di storia
repubblicana sono stati riattivati, insieme, l’antica indifferenza ed
estraneità plebea per la politica, intesa come affare riservato agli interessi
privati delle classi dominanti e su cui è vano pensare di poter influire in
alcun modo, la corrispondente assenza di ogni senso di responsabilità civica coltivata
all’interno di quelle stesse classi dirigenti fin dall’età del Rinascimento, gli
umori malmostosi che si erano manifestati nel dopoguerra nel movimento
qualunquista – cui però Guglielmo Giannini aveva conferito alla fine
un’espressione politica infinitamente meno incivile di quel che abbiamo sotto
gli occhi.
Come abbiamo cercato di
indicare negli scorsi numeri di Critica, al di là e contro le intenzioni dei
migliori fra i loro animatori, le sacrosante campagne e le inchieste che hanno messo
in luce i comportamenti indecenti e spesso delinquenziali di gran parte della
classe politica hanno finito per dar vita a un clima generale di rigetto per la
democrazia rappresentativa e parlamentare che ha fortissimi tratti di
somiglianza con i dilaganti umori antipolitici e antiparlamentari del primo
decennio dello scorso secolo, clima e umori che allora condussero alla guerra, e
poi alla riduzione a bullismo della politica interna ed estera e alla
dittatura. Come allora, tutto in quelle campagne si è un po’ alla volta
mischiato, accomunato in un’unica indifferenziata censura sempre più demagogica
e triviale: delitti e stipendi, privilegi feudali e necessari strumenti di
lavoro, conflitti di interesse di eletti fedifraghi e vite spese nell’impegno
civile, sperperi e dissipazioni di denaro pubblico e tentativi di piegare
potenti corporazioni.
Il disprezzo generalizzato
di un secolo fa per l’“Italietta” postrisorgimentale finì per convincere anche molti,
che erano stati in precedenza democratici fin troppo esigenti, a optare per la franchezza
della dittatura, ritenuta preferibile a una democrazia rappresentativa di cui ormai
vedevano solo l’ipocrisia incarnata dai suoi interpreti professionisti (fu il
paradigmatico percorso di Roberto Michels, da socialdemocratico massimalista
tedesco deluso dalla routine burocratica del parlamentarismo, a fascista
italiano convinto). Oggi a trionfare sulla scena politica italiana, anche
dentro le file e nella dirigenza del Pd, sono, né più né meno, i peggiori
istinti autoritari del Caimano: il Parlamento è un inutile orpello
ottocentesco, il government by discussion
è incompatibile con l’efficienza aziendale e con gli interessi dei maggiori
azionisti della politica, freni contrappesi garanzie regole e controlli sono
ostacoli all’esecuzione della volontà del popolo manifestata attraverso i
plebisciti.
A confutare la
ricostruzione di una democrazia costituzionale ostacolo insormontabile alla
necessaria rapidità delle decisioni e delle scelte basterebbe e avanzerebbe la
stessa vergogna civile cui è stato piegato il Parlamento in questi anni: ogni
qual volta vi è stata una forte e determinata volontà politica, nessuna delle
leggi-vergogna volte a salvare B dalla giustizia penale, o a risolvere i
problemi fiscali delle sue aziende ai danni dei contribuenti, è mai stata
approvata in ritardo. Le Camere si sono riunite, se necessario, anche in seduta
notturna, la maggioranza ha stroncato ogni (flebile) ostruzionismo, ha sempre ottenuto
votazioni, e voti di fiducia, a raffica. Anche quando si trattava di
provvedimenti la cui approvazione avrebbe reso infrequentabile a vita qualunque
uomo politico in ogni altro paese occidentale.
Ma a tutti i
capibastone del Pdl e del Pd, ora che B sembra sul punto di sgombrare il campo,
la storiella secondo cui il Parlamento è un ostacolo alla realizzazione della
volontà del popolo va benissimo. E in più hanno imparato da B a farsi forti
dell’indignazione popolare, e ad atteggiarsi a vindici del popolo per meglio
curare i propri affari. B ha coniugato alla perfezione la massima del
Gattopardo con le tecniche della pubblicità commerciale cui ha ridotto e
piegato interamente la politica.
Nel 1994 B vinse, partendo
da zero, perché seppe presentarsi come il portavoce di quella larga parte della
società italiana che, stomacata da Tangentopoli, credeva, a torto o a ragione,
che fosse venuto il momento di un Reagan o di una Thatcher italiani. Il
monopolista B, tale per decreto della vecchia politica a lui amica, era quanto
di più sideralmente lontano dal possibile protagonista di una rivoluzione
liberista, ma ai suoi elettori l’idea piaceva; e, poiché l’idea dispiaceva
invece assai agli elettori del centrosinistra, il centrosinistra credette utile
avallare la truffa, e finì perfino per crederci.
Oggi la storia si
ripete e il Pd si aggrega al Pdl nel tentativo di usare di nuovo la debordante
e giustificatissima ira della plebe per volgerla a proprio vantaggio: un po’
perché totalmente autoreferenziale e totalmente privo di cultura politica
liberale – o di cultura delle regole tout court – un po’ perché ancora
guidato dagli stessi astutissimi allocchi che lo hanno portato alla perdizione
e alla rovina (e per i quali vale più che mai la sentenza pronunciata in piazza
Navona da Nanni Moretti).
Così il Pd sembra, come
mai prima d’ora, elevare a proprio modello la democrazia plebiscitaria a
svantaggio della democrazia liberale e parlamentare.
Che cosa preme alle
oligarchie autoreferenziali, alle poche decine di boiardi che reggono la
politica italiana? Ai boiardi pidiellini che devono pensare a un futuro senza B
e ai boiardi superstiti delle due nomenclature comunista e democristiana, già
fortunosamente approdati alla sopravvivenza professionale ed esistenziale nel
Pd? Una sola cosa: non essere spazzati via. Come si fa? La risposta è semplice:
ci si salva buttando il Parlamento in pasto alle plebi irate. O almeno – due
piccioni con una fava – lo si ridimensiona nelle sue funzioni di
condizionamento dell’esecutivo, come voleva B, depurandolo di ogni possibile
rompiscatole e di ogni presenza che possa fare le pulci o insidiare il primato
delle oligarchie, si limitano quanto più possibile peso politico e poteri
ispettivi dei singoli parlamentari a vantaggio dei gruppi, si dimezza il numero
dei parlamentari, in modo da consentire un controllo ancor più capillare, e da
rendere quasi impossibile che qualche individuo normalmente europeo venga
eletto per sbaglio, per errore di calcolo, in collegi sdegnosamente rifiutati
da un boiardo perché non ritenuti abbastanza sicuri. Gli si dimezza, magari, lo
stipendio: la plebe applaudirà e per le oligarchie che contano la cosa sarà del
tutto ininfluente, dato che esse dispongono della gestione centralizzata del
finanziamento pubblico (pardon,
dei “rimborsi”); se proprio necessario, anche i “rimborsi” potranno essere un
po’ ridotti, gli oligarchi sono perfettamente in grado di reperire i mezzi per
altre vie, e di aprire personalmente il portafoglio non hanno quasi mai bisogno.
Quanto agli altri, non si è mai visto che la qualità media aumenti cumulando
una forte diminuzione degli stipendi a devastanti svantaggi reputazionali: e
infatti la qualità media vistosamente decresce. Accanto a una minoranza di onesti
appassionati in via di estinzione, crescerà il numero degli aspiranti ladri.
Meglio così: parlamentari migliori sarebbero una minaccia; questi saranno più
ricattabili e obbedienti. Si inventano invece nuove funzioni di rappresentanza territoriale
e clientelare per mantenere in vita un bicameralismo indifendibile.
Ma soprattutto si procede alla “Serrata del
Maggior Consiglio”. A far fuori i possibili contendenti attraverso una modifica
della legge elettorale che assicuri agli oligarchi una rendita elettorale
artificiosa. Per poter usare con gli elettori questo entusiasmante slogan
definitivo: «O mangiate questa minestra o saltate da questa finestra». È questo
il fulcro della riforma bipartisan, quale che sia alla fine lo strumento
tecnico adottato.
«Dare agli elettori la
possibilità di scegliere il governo» è il mantra bipartisan. Sì: scegliere fra
clericofascisti e cattocomunisti. O, al massimo – dipenderà dalle trattative – allargare
la scelta a clericorazzisti regionali e terzisti clericali puri.
«Vogliamo vedere chi
dirà agli italiani che è meglio tenersi la “porcata” piuttosto che riformare la
legge elettorale», recita un altro slogan intimidatorio e altrettanto
ingannevole. Come se la via obbligata per cancellare la “porcata” consistesse
nel sostituirla con una porcata bis, magari meno sfrontata, ma comunque capace
di impedire la nascita, e quindi la possibile affermazione futura, di qualunque
forza politica nuova, e segnare davvero la fine di una funesta stagione
politica. Come se Pdl e Pd fossero beni da conservare e preservare come specie
protette o come parte del patrimonio storico-artistico o paesaggistico della
nazione.
Come se i danni li
avesse fatti qualche partitino minore, del resto da tempo scomparso dal
Parlamento italiano, anziché i due (o i tre o i quattro) maggiori. E come se i
massimi responsabili del disastro non fossero proprio i boiardi che dalla
“riforma” usciranno più potenti e legibus
soluti di prima.
Esattamente come in
Turchia, dove islamisti liberisti e militari laici e dirigisti sono divisi su
tutto, tranne che sul mantenimento della soglia elettorale al dieci per cento, che
impedisce agli elettori turchi ogni diversa scelta.
La riforma che Pdl e Pd escogiteranno si presenterà sotto vesti meno esplicite e meno onestamente brutali. Maschererà la serrata ricorrendo agli impenetrabili arabeschi che saranno elaborati dall’agguerrito brain trust di legulei messo insieme dai vertici dei due partiti maggiori. Si prenderà un qualunque modello – tedesco, spagnolo, francese, irlandese, ungherese, poco importa. Poco importa perché poi lo si dirà bisognoso di “adattamento” alle “specificità” italiane – cioè alle esigenze degli oligarchi – ritagliando, incollando, trapiantando, ricucendo, sbianchettando, imbellettando. Qualunque la soluzione tecnica, alla fine il diserbante prodotto avrà una sola funzione: sbarazzarsi di ogni possibile concorrenza. Per tenere duro, una volta ripreso il potere ora in deposito presso i “tecnici”, almeno fino alla successiva Tangentopoli e alla successiva jacquerie.
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