Laicismo
e definizioni
di Felice Mill Colorni
Non
si può
replicare alle argomentazioni
critiche formulate
da un recente editoriale della Civiltà Cattolica nei
confronti del laicismo e
del “Manifesto laico” senza cercare preliminarmente
di intendersi sul
significato dei termini.
È noto che le
definizioni della politica sono
sempre ambigue
e polisemiche, oltre che dotate di una carica emozionale raramente
compatibile
con il rigore semantico. Lo sono innanzitutto nella prassi,
perché il messaggio
politico aspira in genere ad essere ambiguo e polivalente, in modo da
poter
essere rivolto a settori diversi dell’opinione pubblica e
dell’elettorato
riscuotendo l’approvazione del maggior numero possibile di
soggetti. E questo
fenomeno è ancor più marcato nei sistemi
bipartitici o bipolari, in cui deve
farsi più energica e cogente quella funzione di reductio ad unum delle
opinioni che è propria e fisiologica
della democrazia rappresentativa.
È
forse più
sorprendente che una ambiguità e una polisemia non minori
caratterizzino il
linguaggio della politica anche nell’uso degli studiosi.
Basti pensare a
termini come “liberale” o
“individualista”. Non si tratta, credo, solo e
sempre
di diffusa faziosità e di incontenibile spirito militante,
che pure hanno un
peso decisivo, data anche la secolare propensione dei chierici italiani
al
servilismo nei confronti dei potenti di turno. Non si tratta neppure
soltanto,
anche se neppure questo elemento va sottovalutato, di semplice
ignoranza o
sciatteria, o, al contrario, dell’esercizio un po’
narcisistico di chi pretende
di sottrarsi in qualche modo a un uso convenzionale del linguaggio, per
sovrapporvi personali criteri prescrittivi (“quello vero e
quello falso”). Si
tratta spesso anche di una sottovalutazione delle incomprensioni
possibili e
della confusione di concetti che l’uso di un linguaggio
politico poco rigoroso
e criticamente poco avvertito comporta; dell’inconsapevolezza
perfino
dell’esistenza di diversi significati convenzionali
attribuiti a quelle parole
da ambienti politici e culturali di diversa provenienza e formazione.
Se
sarebbe puerile
voler contrapporre i propri personali criteri direttivi a quelli
altrui,
sarebbe bene, quando si usano termini oggettivamente polisemici (o
comunque più
polisemici e ambigui di quanto non lo sia sempre il linguaggio),
chiarire in
quale significato si intende impiegarli e argomentarne criticamente le
ragioni.
Una
babele di significati
Assieme
al termine
“liberale”, pochi termini sono oggetto di
così frequenti slittamenti di
significato, nella cultura politica italiana di oggi, quanto i termini
“laico”
e “laicista”.
Nel
comune
linguaggio politico, culturale e giornalistico dell’Italia di
oggi vengono
definiti laici:
1 - i
fedeli che non
sono sacerdoti consacrati come tali dalla Chiesa romana (o dalle altre
Chiese,
ortodosse e anglicane, che si basano sull’idea del sacerdozio basato sulla
“successione apostolica”);
2 - tutti
i non
credenti;
3 - gli
atei e/o gli
agnostici;
4 - coloro
che
professano una filosofia che respinge presupposti dogmatici;
5 - gli
appartenenti
a partiti non confessionali (sottovariante a: di centro; sottovariante
b: di
sinistra);
6 - i
fautori della
neutralità delle istituzioni pubbliche rispetto alle
convinzioni religiose,
ideologiche o culturali (o almeno rispetto a tutte quelle convinzioni
che non
mettano in discussione l’uguale libertà di
espressione di tutte le altre);
7 - i
fautori della
secolarizzazione, intesa come esaurimento, oppure come espulsione, di
ogni e
qualunque presenza pubblica delle confessioni religiose;
8 - gli
anticlericali, a loro volta intesi come
a)
coloro che
detestano le fedi religiose, e/o propugnano attivamente
l’ateismo e/o
l’agnosticismo, oppure
b)
coloro che si
oppongono al clericalismo;
9 - i
membri non
togati del Csm (ultima sopravvivenza, questa, del significato di
“non
appartenente a una particolare professione” o “non
specializzato in una
particolare disciplina”, per altri versi ormai desueto, come
l’antiquato
significato di “incolto”).
Il
termine
“laicista”, a sua volta, viene usato per lo
più polemicamente dai cattolici
come sinonimo dei significati 7) – in genere ritenuto
inevitabile conseguenza
del 6 – e 8a), e da chi lo rivendica per
sé per lo più come sinonimo dei
significati 6) e 8b).
Questa
babele di
concetti (quando i termini impiegati corrispondono a scelte
consapevoli)
discende ovviamente, oltre che da contingenti condizionamenti legati al
dibattito politico, anche da tradizioni culturali diverse. Non solo,
com’è
ovvio, da quella cattolica e da quella liberale (e democratica, e
socialista),
ma anche da tradizioni “laiche” o religiose fra
loro diverse.
Miscredenti
clericali e credenti laicisti
Credo
però che, ad
evitare inutili confusioni, bisognerebbe tenere rigorosamente separati
i
significati che pertengono alla sfera dell’etica pubblica e
della politica e
quelli relativi invece ai convincimenti religiosi, filosofici o
ideologici,
alle complessive visioni del mondo, di coloro che li professano. Non
perché non
esista in genere un rapporto fra laicità o laicismo intesi
in senso politico e
convinzioni religiose o filosofiche, ma perché questo
rapporto non è per nulla
univoco. Non lo è perché non tutte le tradizioni
religiose giocano nello stesso
campo e nella stessa direzione; non lo è perché,
da sempre e oggi più che mai,
vi sono correnti politiche e culturali antilaiche, quando non
apertamente
clericali, animate da miscredenti, che assegnano alle tradizioni
religiose un
ruolo strumentale di supporto a istanze etnico-nazionalistiche,
tradizionalistiche, d’ordine o moralistiche, a cui la fede
religiosa rimane
completamente estranea (Bossi propone, sotto questo specifico profilo,
in modo
incolto e straccione, per i suoi “padani”,
né più né meno quel che Giovanni
Gentile
proponeva per i bambini e per gli analfabeti[1]).
Ma soprattutto non lo è perché la stessa
tradizione laica e laicista
occidentale è stata in origine un frutto, prima ancora che
del pensiero
illuminista, di sviluppi interni ad alcuni specifici settori della
tradizione
religiosa cristiana riformata. È ad essi che risale la messa
in questione
dell’idea stessa di una religione stabilita dallo Stato e
l’affermazione della
libertà di culto per chiunque fosse disposto a rispettare
l’altrui pari
libertà, già un secolo prima della nascita e
dell’affermazione del pensiero dei
lumi (anche per i non cristiani, come gli ebrei). Del resto, anche a
rimanere
allo scenario italiano di questi anni, è facile constatare
come ben poco
rimarrebbe delle battaglie laiche degli ultimi anni, se se ne dovesse
escludere
l’apporto di protestanti, ebrei e cattolici critici.
Per
quanto possa
apparire vano proporre di rimettere in discussione abitudini
linguistiche ormai
abbastanza consolidate, mi pare che la stessa distinzione fra
laicità e
laicismo dovrebbe assumere in quest’ottica un significato
diverso e in certo
modo opposto a quello corrente. Se l’aggettivo
“laico” denota una condizione di
fatto, quella cioè di uno Stato o di istituzioni neutrali
rispetto alle diverse
convinzioni religiose, filosofiche e culturali, e come tali garanti
della loro
pari libertà e dignità e dell’assenza
di privilegi o di discriminazioni, coloro
che propugnano il raggiungimento di un tale risultato non potranno
certo dirsi
a loro volta “laici”, se non con la consapevolezza
che in questo caso la parola
ha tutt’altro significato. Essi potrebbero infatti essere,
soggettivamente,
tutt’altro che neutrali rispetto alle diverse confessioni, ed
essere invece
convintamente appartenenti all’una, all’altra o a
nessuna. Se essi intendono
rendere laiche le istituzioni, che a loro giudizio non lo sono o non lo
sono
abbastanza, come altro definirli se non “laicisti”?
Si noti che, in questa
accezione, diversamente che nell’uso ormai polemicamente
invalso, soprattutto da
parte cattolica, il “laicista” potrebbe addirittura
spesso non essere affatto
areligioso o antireligioso, a differenza del
“laico” (almeno se si volesse
continuare ad utilizzare quest’ultimo termine anche come
sinonimo di “non
credente”). Se infatti, sul piano dei convincimenti
personali, si dovesse
considerare «laico l’uomo di ragione, credente
l’uomo di fede» (Bobbio), il
“laicista”, cioè il propugnatore di
istituzioni pubbliche laiche, potrebbe
invece essere qualcuno addirittura motivato dalla propria fede
religiosa, oltre
e prima ancora che dalle proprie convinzioni civili, ad assicurare alla
propria
e alle altrui confessioni religiose uno status giuridico di uguale
libertà e
dignità sociale rispetto alla confessione socialmente o
tradizionalmente dominante
(se non addirittura attivamente impegnata a perseguire la
discriminazione o la
persecuzione delle minoranze religiose o sociali ad essa estranee, o
critiche
nei suoi confronti). È questa, con ogni evidenza, la
posizione largamente
prevalente fra i protestanti e gli ebrei italiani e i cattolici critici.
I
dogmi indeboliti dei
credenti aggiornati e i postulati convenzionali della ragione debole
Inoltre,
anche volendo
entrare nel merito delle soggettive convinzioni in materia religiosa o
filosofica, lo stesso atteggiamento culturale dei credenti non
è affatto sempre
definibile come segnato dalla supina accettazione di presupposti
“dogmatici”
che lo distinguerebbero nettamente e quasi antropologicamente da quello
dei non
credenti. Certo, tale distinzione mantiene il suo valore se riferita
alle
gerarchie vaticane e ai cattolici più o meno allineati (e
ancor più,
probabilmente, ai mussulmani osservanti), rispetto ai laici di
convinzioni
liberali. Ma, a parte il fatto che la realtà dei percorsi
culturali individuali
è sempre più complessa, e al giorno
d’oggi sempre più variegata, di quel che le
nostre soggettive concezioni di “coerenza”, sempre
fondate sulla nostra
personale identità culturale, suggerirebbero di applicare
agli altri, mi pare
che tale distinzione male si presterebbe, per esempio, a classificare
la
maggior parte degli intellettuali contemporanei appartenenti alle altre
due
tradizioni religiose autoctone dell’Europa occidentale,
protestanti ed ebrei
credenti. Non esistendo all’interno di queste confessioni
religiose una
gerarchia autoritaria titolata, come quella romano-cattolica, a parlare
almeno
ufficialmente a nome di tutti i singoli componenti e a vincolarne le
coscienze,
i presupposti “dogmatici”, in questo caso, si
riducono spesso, nella società
secolarizzata, dopo due millenni di dispute fra diverse scuole di
pensiero e
due secoli di pressioni assimilazioniste su un versante, e dopo cinque
secoli
di “libero esame”, due di “teologia
liberale” e sessant’anni di ermeneutica
della “demitizzazione” sull’altro, a un
nucleo così limitato di postulati, da
rendere le convinzioni religiose di costoro difficilmente qualificabili
come
molto più “dogmatiche” della maggior
parte delle convinzioni intellettuali che
sono abituale patrimonio “presupposto” dei non
credenti. I presupposti
accettati da questi credenti si riferiscono ormai a una fede religiosa
ampiamente “depurata” da quel che è
intellettualmente insostenibile per la
cultura moderna e contemporanea, e fanno ampio spazio alla
inconoscibilità, in tale
prospettiva, di dettagli e asserti tradizionali la cui
“verità” è ancora
ostinatamente difesa dal magistero e dalle congregazioni vaticane sulla
scorta
della tradizione cattolica. La fede di costoro, quando è
radicata in una
dimensione culturale, assume spesso invece le caratteristiche della
scommessa
pascaliana, o dell’incontro con il “radicalmente
altro” barthiano, e non
partecipa certo delle granitiche e dettagliate certezze metafisiche
della
teologia e della filosofia medievali delle encicliche di Giovanni Paolo
II, con
i loro consequenziari corollari in campo etico e politico[2].
Analoghe
sono ormai
anche le posizioni di molti cattolici, che si definiscono tali senza
troppo
badare alle prescrizioni e alle teologie ufficiali del Vaticano, ma
solo perché
cristiani nati in un paese di tradizione cattolica[3],
e
che condividono molte posizioni culturali ed etiche fondamentali
tipiche del
mondo protestante piuttosto che della gerarchia, anche se trovano
inutile o
scomodo ammetterlo (o non possono riconoscerlo a causa
dell’immagine distorta
che del protestantesimo offrono i media e gran parte della cultura
italiani).
Se è lecito avanzare rispettose riserve sulla scelta di
qualificare le proprie
convinzioni religiose sulla base dell’identificazione con una
tradizione
comunitaria di tipo “etnico”, dal punto di vista
delle ricadute civili e
politiche è comunque un peccato che i cattolici critici che
si riconoscono in
queste posizioni non sentano il bisogno di esplicitare una rottura con
le
strutture gerarchiche della Chiesa romana (e quindi con una Chiesa che
si
distingue e si caratterizza proprio per la sua struttura gerarchica e
autoritaria e per il ruolo del magistero), rottura che nei fatti e sul
piano
delle scelte culturali è ampiamente consumata da decenni, e
sedimentata in una
sorta di inespressa estraneità reciproca, almeno culturale e
civile. Purtroppo
la sordina che una sorta di ecumenical
correctness teologica
sembra imporre alle differenze denominazionali concorre ad appiattire
tutte le
posizioni culturali dei credenti sull’immagine trionfalistica
e prepotente
della Chiesa romana: mettendo in ombra quella forma declericalizzata di
cristianesimo che, con la Riforma, è alle radici della
modernità occidentale e
che si contrappone (in modo ovviamente non lineare, come sempre nella
storia) a
quella versione coerentemente autoritaria della stessa tradizione
cristiana che
è il cattolicesimo romano. Se così non fosse, o
se almeno l’esposizione
mediatica del Papa e della gerarchia non impedisse di vedere nelle
Chiese della
Riforma un’espressione altrettanto autorevole (e
culturalmente più autorevole,
perché intellettualmente libera) della cultura teologica
europea, non ci si
sognerebbe di considerare come portato necessario della fede religiosa
le
posizioni retrive che, anche e soprattutto in materia di etica privata
e
pubblica, sono invece patrimonio tipico e sostanzialmente esclusivo,
nell’Europa occidentale contemporanea, della Chiesa romana.
E
non è certo un caso
che, da decenni, su pressoché tutte le questioni che
dividono in Italia i
“laici” dai cattolici, la posizione dei protestanti
storici e quella della
maggior parte degli ebrei civilmente impegnati sia stata quasi sempre
consonante con la posizione dei “laici”
anziché con quella dei cattolici
ufficiali. Così è accaduto, attraverso i decenni,
su argomenti come il regime
concordatario, il finanziamento della scuola confessionale, la
contraccezione,
il divorzio, la regolamentazione giuridica dell’aborto o
dell’eutanasia, la
bioetica, le famiglie di fatto, i diritti civili degli omosessuali, la
libertà
della ricerca scientifica, l’etica proibizionista.
L’ispirazione cristiana o
ebraica non ha affatto portato questi credenti agli approdi politici
antimoderni e autoritari tipici del magistero cattolico[4].
L’attribuzione
della
qualifica di non laici ai credenti e di laici ai non credenti
presuppone in
realtà che i primi vengano identificati con i cattolici
romani ortodossi e
allineati (il che già contrasta con l’emergere del
modello del cattolicesimo
“fai da te” evidenziato da decenni da ogni indagine
sulla religiosità degli
italiani e più in generale degli europei occidentali, prima
ancora
dell’emergere del fenomeno più consapevole dello
“scisma sommerso” cui si è
già
accennato); e che ai secondi si attribuisca una concezione univoca e
“forte”
dell’idea di “Ragione” che gli sviluppi
prevalenti del pensiero filosofico del
Novecento hanno eroso fino a dissolverla.
Tra
l’altro, questo
schema pone nelle mani dei polemisti clericali un’arma di non
poco conto, dato
che essi potranno agevolmente argomentare che, logoratasi
l’idea forte di una
Ragione capace di autofondarsi, la distinzione fra chi presuppone e chi
non
presuppone dogmi o postulati è ormai largamente opinabile e
sfilacciata: quindi
breve e agevole sarebbe oggi il salto verso la fede identificata con il
clericalismo papista, dimostratosi capace meglio di ogni altro di
impersonare e
salvaguardare la tradizione occidentale. Di più, questa
concezione si presta
molto bene a fornire ai polemisti clericali il pretesto per avvalorare
un’immagine caricaturale dei loro avversari,
un’immagine in cui liberali e
marxisti, giacobini e girondini, idealisti e positivisti, razionalisti
e
sostenitori del pensiero debole, pensatori analitici e continentali,
comunisti
e liberisti, vengono tutti accomunati (come all’epoca della
Restaurazione o del
Sillabo), in un’unica catena caratterizzata dal necessario
susseguirsi di
errori conseguenti all’abbandono della docile soggezione alla
materna guida
della gerarchia cattolica e della sua concezione della trascendenza, in
nome di
un’arrogante “onnipotenza della Ragione”
– di una Ragione destinata a corrodere
e a minare alla base anche i propri stessi fondamenti[5].
Di qui, per esempio, l’ascrizione a un’univoca
discendenza “laicista” del
terrore giacobino e del persecutorio ateismo di Stato dei regimi
comunisti. Di
qui la convinzione di avere sostanzialmente vinto, e chiuso la partita,
almeno
sul piano dei principi, con il crollo del comunismo, visto come
manifestazione
di “laicismo”, e anzi come sua manifestazione
massima e finale. Quando invece i
laici e i laicisti liberali hanno sempre visto in tali regimi e
correnti di
pensiero caratteristiche dogmatiche e chiesastiche che riprendevano,
portandoli
alle estreme e più violente conseguenze, le
mentalità, la coartazione delle
coscienze, il culto dell’uniformità di pensiero,
lo stile di comando,
l’intolleranza e talvolta anche alcune idee-forza, delle
antiche Chiese.
Un
conflitto di valori etico-politici
La
distinzione fra
laici e non laici non può quindi essere ricercata nella fede
religiosa o nella
sua assenza, bensì in un contrasto di valori che divide non
già credenti e non
credenti, ma liberali e autoritari: coloro che ritengono lecito imporre
a
tutti, con la forza della legge, comportamenti conseguenti alle proprie
convinzioni religiose o filosofiche e coloro che invece ritengono che
non sia
compito delle istituzioni pubbliche imporre un’etica di
Stato; e che si imponga
quindi una buona dose di self-restraint
da parte del legislatore nelle materie eticamente controverse, su cui
non può
essere raggiunto un minimo comun denominatore condiviso dalla
generalità dei
consociati.
Anche,
naturalmente, se
tale etica venga contrabbandata come “naturale”:
idea di radicale inconsistenza
storica, sociologica e antropologica, che però sembra ormai
essere divenuta il
solo articolo di fede ossessivamente riproposto e il solo oggetto delle
prese
di posizione in materia di etica pubblica delle gerarchie cattoliche e
dei
cattolici ortodossi[6];
idea tanto poco universalmente condivisa – come aspirerebbe
ad essere – da
essere rigettata non solo dalla maggior parte dei non credenti, ma
anche dalla
maggior parte delle altre Chiese cristiane dell’Europa
occidentale, che tra
l’altro non le riconoscono neppure il minimo fondamento
scritturale. Eppure,
per i media italiani, per i quali le minoranze religiose autoctone
culturalmente non esistono, le questioni assunte a paradigmatiche della
contrapposizione fra “credenti” e “non
credenti” sono proprio quelle attinenti
alla predicazione cattolica della pretesa “morale
naturale”.
Secondo
la prospettiva
qui proposta, invece, la distinzione fra laicisti e clericali andrebbe
riferita
esclusivamente alla sfera dell’etica pubblica e della
politica, e niente
affatto alle convinzioni personali in materia di trascendenza. Il
laicismo così
si rivelerebbe nient’altro che l’applicazione dei
principi liberali al campo
della politica e del diritto ecclesiastici[7].
Non è certo una novità: la lotta per la
libertà religiosa e di coscienza in
Occidente è stata la matrice e il modello per la conquista
di ogni altra
libertà e di ogni altro diritto. Fin dalle rivoluzioni del
Seicento inglese,
liberalismo e libertà religiosa sorgono e procedono (o
soccombono) assieme.
Il
richiamo a un
contrasto di valori potrà apparire problematico a chi veda
nel laicismo la
conseguenza politica di visioni del mondo incapaci di conferire alle
scelte
etiche un senso e un orientamento – e tanto più a
chi lo veda naturalmente
fondato su una concezione filosofica “debole”,
oltre che priva di riferimenti a
qualunque forma di trascendenza. Il punto è che una
concezione liberale del
laicismo, quale che sia la concezione filosofica o religiosa che la
motivi, non
può comunque fare a meno di una consapevole scelta di valori
che ne determina
alla fin fine la plausibilità e la persuasività:
una scelta in favore della
libertà degli individui e contro la pretesa di imporre loro
un’etica e una
verità di Stato, o di riconoscere a una convinzione
religiosa una dignità
superiore alle altre.
Tale
scelta liberale
può essere motivata dalla fede religiosa (a qualcuno
potrà sembrare forse
paradossale, ma questa è stata precisamente la sua
più lontana origine storica,
propria di alcune correnti protestanti – non certo tutte
– del Seicento
calvinista e puritano, che nel giro di poche generazioni capovolsero il
carattere profondamente illiberale della teologia politica di Calvino[8]);
oppure da una concezione “forte” di una Ragione che
si ritenga capace di
autofondarsi; oppure ancora da una scelta etica coscientemente
soggettiva,
compiuta da chi sia consapevole della infondabilità
oggettiva e del carattere
sempre alla fine condizionato e soggettivo – per quanto
argomentato, per quanto
consapevolmente radicato in una storia e in una tradizione civile
– di ogni
scelta etica controversa nell’epoca del “politeismo
dei valori”.
Resta
comunque il fatto
che tale scelta non verte soltanto sulla mera accettazione di regole
procedurali di convivenza pacifica fra diversi. Ci è stato
insegnato che la
democrazia liberale coincide con il rispetto delle “regole
del gioco”. Ma la
sopravvivenza della democrazia liberale ha bisogno della diffusa
consapevolezza
(in Italia tutt’altro che pacificamente radicata) delle
ragioni e del valore di
quelle regole. La democrazia liberale ha cioè sempre bisogno
di una
legittimazione ulteriore, che in qualche modo ne espliciti il
fondamento
valoriale. Suonerà certamente retorico definire oggi questo
fondamento come una
“fede nella libertà”. Ma ogni
convinzione liberale (di sinistra o di destra che
fosse), quale che ne sia stata la matrice religiosa, filosofica o
ideale, è
sempre stata radicata nella persuasione che imporre agli individui
costrizioni
ulteriori rispetto a quelle strettamente necessarie per assicurare il
carattere
reciproco e il godimento universale dei diritti di libertà
costituisse
un’inaccettabile prepotenza, una sopraffazione arbitraria,
una coartazione
sempre aperta alla possibilità e alla probabilità
di abusi e violenze ulteriori
contro la dignità dell’individuo, e una
mortificazione delle possibilità di
sviluppo morale e civile, oltre che economico e sociale,
dell’umanità.
Complessi
di inferiorità e cupidigia di servilismo
A
dispetto delle
reiterate proclamazioni di anticomunismo, a comunismo morto e sepolto,
della
nuova destra italiana, il venir meno della contrapposizione con il
grande
antagonista sovietico sembra aver fatto smarrire alla democrazia
liberale le
ragioni della sua diversità e della sua unicità.
Proprio mentre, in un mondo
prevalentemente ancora dominato da regimi autoritari, militari,
violenti,
fondamentalisti o tribali, si afferma la leggenda del trionfo
universale del
supposto “pensiero unico” occidentale, identificato
con la democrazia liberale
oltre che con il capitalismo globalizzatore, la classe dirigente
italiana
sembra essersi fatta convincere dalla gerarchia cattolica che la
democrazia
liberale non sia portatrice o espressione di valori, anzi sembra essere
stata
persuasa che la libertà dell’individuo che le
è peculiare sia in sostanza un
disvalore. Non solo ai liberali immaginari della destra, ma anche a
molti fra
quelli altrettanto neofiti della sinistra, orfani non solo del
comunismo ma
anche della socialdemocrazia, la Chiesa romana, forte delle certezze
medievali
del suo capo, sembra il solo possibile punto di riferimento morale.
Purtroppo
non si tratta sempre e soltanto di furbesco opportunismo.
Nei
confronti del mondo
cattolico si pratica in Italia uno “sconto morale”
paragonabile solo a quello
abitualmente praticato nei confronti delle violazioni dei diritti umani
perpetrate dai governi del Terzo Mondo. Si ascoltano con compunzione e
reverenza le reprimende e le prediche morali – e i programmi
di legislatura –
della Conferenza episcopale, ci si rivolge al cardinale di Milano come
alla
“più alta autorità morale”
della città (un po' come facevano fascisti e Cnl nei
confronti del cardinale Schuster alla vigilia del 25 aprile), si
ricordano le
omelie del cardinale Pappalardo come il punto di partenza della lotta
contro la
mafia, ma ci si guarda bene dall'evocare le pesantissime compromissioni
dei
suoi predecessori, preti e cardinali sono le sole celebrità
televisive
interpellate come esperte di moralità e di
umanità. Quasi nessuno si permette
più di chiedere conto, non delle vicende dello Ior, non
delle speculazioni
immobiliari del Vaticano, non di vicende storiche meno recenti, ma
neppure del
sostegno incondizionato fornito dalla Chiesa cattolica italiana alla
Dc, cioè
al partito architrave e fondatore del regime della corruzione, ben dopo
che una
minaccia comunista interna era già tramontata da un pezzo.
Di fronte alla
bancarotta morale in cui si è ritrovata, a mezzo millennio
dalla “Riforma
cattolica”, l'intera società di un paese da allora
al 99% di tradizione
cattolica, e per mezzo secolo governato dal partito dei cattolici, ci
si
sarebbe dovuti interrogare innanzitutto sui rapporti fra tale
tradizione, i
suoi “tribunali della coscienza”, e lo stato
miserando dell'etica pubblica.
Invece non solo i vescovi non si sono sognati neppure di chiedere
perdono al
paese, se non al loro Dio, per avere così direttamente
concorso al disastro con
le loro direttive e le loro indicazioni: un gigantesco complesso di
inferiorità
da parte dei “laici”, paragonabile a quello da
molti nutrito trent'anni fa nei
confronti della cultura marxista, ha spinto Giuliano Amato a chiedersi
ripetutamente perché in Italia la morale kantiana non abbia
funzionato e la
Chiesa cattolica sì[9].
Che Kant non abbia funzionato proprio perché vi faceva
ostacolo la tradizione
controriformista, non sembra ipotizzarlo nessuno.
Come
molti altri leader
del centrosinistra oltre che della destra, il Presidente del Consiglio
da anni
non lascia passare sei mesi senza proclamare pubblicamente il suo
complesso di
inferiorità di laico nei confronti dei cattolici, dotati di
“una marcia in
più”, perché capaci di un amore che
sarebbe precluso ai laici dalla loro
incredulità[10].
Le vicende politiche e i casi della vita avranno anche fatto
frequentare al
prof. Amato politici laici di non specchiata moralità e
carità (è quanto meno
lecito dubitare però della superiorità a questo
riguardo del mondo politico
cattolico); ma, quanto a “capacità di
amare”, per quel che riguarda ciò che vi
è di tipico e peculiare nell’insegnamento morale
della Chiesa romana, vi è da
chiedersi se questa vada ricercata nel costringere una donna, magari
addirittura violentata, a partorire un figlio non voluto (o quanto meno
nel
costringerla ad abortire per via chirurgica anziché per
mezzo di una pillola),
nel rendersi complici (assecondando idiosincrasie futili e
superstiziose nei
confronti dei mezzi di prevenzione) del dilagare di epidemie,
sovrappopolazione, fame e rovina del pianeta, nel contrastare o
discriminare,
soprattutto nei momenti più tragici della vita, gli affetti
e i legami interpersonali
che siano incoerenti con i principi e le direttive di una confessione
religiosa[11],
nell’etica proibizionista sostanzialmente indifferente alle
sofferenze degli
ammalati, nel procrastinare all’infinito l’agonia
dei morenti, nell’ostacolare
la ricerca scientifica volta a sconfiggere malattie gravissime e
invalidanti in
nome della sacralità degli zigoti – o in nome del
proprio orgoglio ideologico e
confessionale.
Tra
l’altro, dato che
come è noto l’appetito vien mangiando, ogni
concessione e ogni manifestazione
di soggezione da parte della cultura laica viene sistematicamente
interpretata
dai clericali come un’autorizzazione e uno stimolo a
pretendere sempre di più,
sia in termini di trasferimenti di risorse economiche pubbliche, sia
nelle
questioni legislative. Tutte le tormentate dichiarazioni di un intero
decennio
del Presidente Amato, simpatetiche nei confronti delle posizioni
cattoliche
sull’aborto e su altri argomenti, così come tutte
le doviziose regalie
prodigalmente concesse a spese dei contribuenti in occasione del
Giubileo
cattolico e in materia di parità scolastica, non gli sono
valse la gratitudine
di quella Chiesa, ma solo attacchi e pretese sempre più
esigenti di resa totale
e senza condizioni dello Stato a ogni intimazione del Vaticano[12].
Comprensibilmente,
dato che a sua volta la destra “liberale” italiana
(con la sola eccezione della
sparuta pattuglia del “polo laico”, numericamente e
quindi politicamente
debolissima) si è manifestata ampiamente disponibile a
rinunciare anche ad ogni
residua parvenza di dignità nei suoi confronti.
Non
una disputa filosofica, ma una rivolta liberale contro la prepotenza e
l’arroganza clericale
È
in nome della “fede
nella libertà” dell’individuo come sola
possibile condizione di sviluppo morale
e civile, in nome di questa persuasione etica e politica liberale, che
sottrae
il laicismo politico all’accusa – o
all’aspirazione quietista – dello
scetticismo e dell’agnosticismo morale o etico-politico, che
si giustifica
pienamente la sua pretesa di contrapporsi civilmente e democraticamente
all’opposta pretesa clericale di imporre con la forza della
legge i
comportamenti prescritti da una confessione religiosa che si ritiene
ancora
titolata a dominare sulle coscienze altrui e a discriminare chi non ne
condivida opinioni, convinzioni, valori e insegnamenti.
Perché mai alla pretesa
vaticana, mai così arrogante da decenni come in questo
periodo giubilare, di
dettar legge in materia di bioetica (da ultimo perfino in materia di
biologia),
di prescrizioni farmaceutiche, di politiche economiche, di esercizio di
libertà
fondamentali come il diritto di riunione, e in materia di diritto di
famiglia,
di libertà della ricerca scientifica, di politiche
immigratorie e così via, i
laici o i laicisti dovrebbero poter contrapporre solo timorati
sussurri? Su
ciascuno di questi terreni non si tratta di discutere accademicamente
di
filosofia o di religione, dell’esistenza di Dio, di dogmi
mariani o
dell’infallibilità teologica del Papa.
(Peraltro
non si vede
neppure perché, in Italia, debba continuare ad essere
considerato inurbano e
indelicato discutere pubblicamente anche di queste questioni, come
avviene
senza nessuno scandalo da secoli in paesi di più marcato
pluralismo religioso.
Certo sarebbero incongrui in questo genere di discussioni –
se di questo si
trattasse – i toni e lo stile polemico della lotta politica
quotidiana: ma,
detto questo, perché mai le convinzioni dei religiosi
dovrebbero godere di un
surplus di rispetto e di deferenza, rispetto a quelle dei non credenti?[13]).
Qui
si tratta di non
soggiacere a una rinata tracotante volontà di dominio sulle
vite altrui, di non
sottomettersi a comandi arbitrari, di rifiutare, se non la tirannide
della
maggioranza, la prepotenza di chi vuole imporre con le leggi la propria
egemonia (tra l’altro, senza essere più neppure
maggioranza[14]),
di garantire diritti fondamentali, di opporsi a discriminazioni odiose,
di
respingere l’idea che i genitori abbiano diritto di vita e di
morte culturale
sui propri figli, di rifiutare l’arrogante pretesa di
prelevare coattivamente
dalle tasche dei contribuenti i fondi necessari a sostenere le
attività di una
Chiesa di cui non si fa parte o diversa dalla propria, e magari ostile
alle
proprie più profonde convinzioni – e
ciò solo perché la fede dei romano-cattolici
ligi alle indicazioni del Vaticano non è evidentemente
sufficiente a far porre
loro mano al portafoglio nella misura ritenuta necessaria ai suoi
bisogni dalla
gerarchia. Perché mai solo a quella gerarchia dovrebbe
essere riconosciuto il
diritto di essere “battagliera” (quando proprio lei
non ne avrebbe certo
bisogno, per farsi ascoltare da una classe politica e da mezzi di
informazione
fin troppo servili), di insolentire, di dispensare patenti di
immoralità?
Perché mai i laici o i laicisti non dovrebbero rispondere al
revanscismo
clericale con contrapposti argomenti anti-clericali –
cioè contrari al
clericalismo, non alla o alle fedi religiose?
I
laici intesi come
liberi pensatori, come persone che respingono convinzioni dogmatiche
(se
proprio si vuole conservare l’uso anche di questa accezione
del termine),
potranno anche dubitare scetticamente di tutto, e spingersi fino alla
completa
atarassia; ma perché i laicisti, intesi come cittadini che
hanno compiuto
determinate scelte etico-politiche, dovrebbero inibirsi qualunque forma
efficace di lotta politica democratica, in nome del proprio
antidogmatismo e
del culto dei propri dubbi? Alla stregua di un tale criterio, ogni
forma di
lotta politica, anche contro i peggiori fondamentalismi, dovrebbe
essere terreno
riservato solo a chi professa convinzioni e ideologie altrettanto
dogmatiche e
intolleranti.
La
via rivoluzionaria francese e la via risorgimentale italiana
Come
accennato, alcuni
degli equivoci ingenerati dai termini di cui stiamo discorrendo
dipendono anche
dalle differenze fra diverse tradizioni politiche nazionali, in
particolare fra
quella francese e quella italiana. I due maggiori paesi europei di
tradizione
romano-cattolica, approdati fin dal secolo scorso alla democrazia
liberale,
Francia e Italia, sono i due paesi in cui il laicismo ha storicamente e
politicamente assunto maggiore importanza. Ma, mentre in Francia il
laicismo è
stato segnato dal giacobinismo rivoluzionario, in Italia ha costituito
uno dei
più originali e significativi elementi del Risorgimento. Qui
la lotta politica
liberale si accompagnava almeno altrettanto a speranze (utopiche anche
perché
irrimediabilmente tardive) di riforma religiosa, quanto a tentativi di
soppiantare il cattolicesimo con filosofie e ideologie positivistiche;
e spesso
non si poneva neppure problemi politico-religiosi, accontentandosi del
tentativo di conciliare privatamente lotta politica e fede religiosa.
Mentre in
Francia il laicismo è imparentato con la tradizione
statalista, centralista e
democratico-autoritaria dello Stato repubblicano francese (una
tradizione in
campo religioso non priva di rapporti con quella gallicana precedente)
e con
una concezione forte dell’unità e della
sovranità stessa della nazione, in
Italia il laicismo ha coinciso soprattutto con la liberazione del paese
dalle
strutture soffocanti della Restaurazione e delle minoranze religiose da
persecuzioni e discriminazioni, e con la progressiva affermazione
– nei decenni
successivi all’unità – della piena
libertà religiosa. Il laicismo italiano, se
ha combattuto anche aspramente le istituzioni ecclesiastiche
cattoliche, lo ha
fatto in nome della libertà degli individui, prima che in
nome delle
prerogative dello Stato; quello francese lo ha fatto anche (anche) in
nome di
filosofie e visioni del mondo che intendevano soppiantare e sostituire
il
cattolicesimo a vantaggio di una concorrente egemonia culturale sulla
nazione e
fondare attraverso la scuola pubblica un’etica universale
razionalistica. Se in
Italia il laicismo è sempre stato propugnato come lo
strumento e la garanzia
della libertà religiosa di fronte al clericalismo cattolico,
in Francia esso è
visto anche come un limite posto all’esercizio di quella
libertà.
Soprattutto,
all’originaria concezione francese (rivoluzionaria) della
laicità era
radicalmente estranea l’idea che, così come la
Chiesa non poteva più ingerirsi
nelle questioni politiche, anche lo Stato dovesse astenersi
dall’intervenire in
quelle religiose[15]:
ne consegue un separatismo unilaterale – di cui la
manifestazione più eclatante
fu durante la Rivoluzione la Costituzione civile del clero –
in parte
sopravvissuto al Concordato napoleonico, e di cui è facile
vedere la profonda
differenza con la formula cavourriana[16].
Ma anche in seguito, e pure dopo la separazione del 1905, forti tracce
di
quella concezione permarranno. Di qui, per esempio, il dibattito
svoltosi
all’epoca su quale forma giuridica e organizzativa attribuire
imperativamente
alle confessioni religiose[17],
il divieto, introdotto pressoché in contemporanea con la
denuncia del
Concordato, di predicare in bretone[18];
e il persistente divieto per i ministri di culto francesi di celebrare
matrimoni religiosi non preceduti da matrimonio civile[19].
Così, se l’opposizione alla presenza del
crocifisso (assente in Francia, reintrodotto
in Italia dal fascismo e mai più rimosso) dalle aule
scolastiche e dai
tribunali accomuna le due tradizioni laiciste in nome della
neutralità
religiosa delle istituzioni pubbliche, la perentoria richiesta che
anche gli
individui debbano spogliarsi di ogni simbolo legato alla loro
appartenenza
religiosa in quanto ritenuto ostentazione provocatoria di
un’appartenenza
identitaria (p. es. la polemica sul velo islamico nelle scuole
pubbliche
francesi dopo il caso scoppiato nell’89) è invece
non a caso peculiare della
tradizione francese[20].
Da parte degli studiosi francesi si sottolinea talvolta come il
“riconoscimento” delle identità e
confessioni religiose costituirebbe una
lesione del principio di laicità[21].
Un tipico esempio si è avuto qualche anno fa, quando la
concomitanza di una
tornata elettorale con la festività ebraica dello Yom Kippur
aveva spinto
soprattutto i laici italiani a chiedere un’estensione
dell’orario di affluenza
alle urne fino a dopo il tramonto, per consentire la partecipazione
degli ebrei
osservanti; mentre in Francia, dove anche erano state indette elezioni
in tale
data, una tale eventualità non era stata neppure presa in
considerazione,
proprio in nome della laicità della Repubblica. È
abbastanza chiaro però come,
in questo modo, si rischi proprio di violare il principio laicista
della
neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche: a nessuno
verrebbe in mente
neppure in Francia di eccepire qualcosa sull’abbigliamento di
una suora, o di
chiamare gli elettori alle urne in concomitanza con la Pasqua o il
Natale
cattolici, benché votare in tali date non costituisca per i
cattolici un
problema di coscienza, come per gli ebrei osservanti votare durante lo
Yom
Kippur. E analoghe considerazioni potrebbero farsi per il problema dei
giorni
di riposo settimanale.
È
ovvio che questa
contrapposizione è necessariamente schematica, e che
tradizione
liberalrisorgimentale italiana e tradizione giacobina, illuminista e
positivista francese hanno certo avuto fondamentali punti di incontro e
di convergenza[22]:
anche in Francia, tra l’altro, la Repubblica laica e
rivoluzionaria ha sancito
la piena emancipazione e liberazione delle minoranze religiose ed
è stata lo
strumento dell’affermazione delle libertà
individuali; in Italia la
contrapposizione anche bellica con il Papa ha pur comportato qualche
inevitabile asprezza; e uno stimolo a ripensare le rispettive
concezioni della
laicità delle istituzioni, e a riconoscere loro una
rinnovata attualità, è
venuto in entrambi i paesi dall’emergere di una presenza
islamica negli ultimi
anni[23].
Ma, di fronte all’incontestabile e acquisito giudizio sulla
scarsa originalità
complessiva della tradizione liberale italiana, sulla sua
«modesta importanza»,
mero «riflesso di dottrine e indirizzi stranieri»[24],
mi pare non ne vada sottovalutata, specie in questi tempi di
revisionismi
storici cattolico-reazionari, proprio la capacità di avviare
un processo di nation-building
sostanzialmente
liberale, almeno per i suoi tempi, in un paese di tradizione
romano-cattolica
autoritaria e controriformista. Il che era tutt’altro che
scontato, se si pensa
che, ancora fino alla metà degli anni settanta del secolo
che si è appena
chiuso, l’Italia era il solo grande paese di tradizione
religiosa
romano-cattolica oltre alla Francia ad avere costruito (magari
più male che
bene, ma questa è un’altra storia) una stabile
democrazia liberale, ma senza
essere dovuto passare, come la Francia, attraverso un preliminare
massacro
rivoluzionario di massa. E proprio la politica ecclesiastica del
Risorgimento
aveva consentito che questo accadesse con tanto anticipo rispetto agli
altri
paesi cattolici. Anzi, proprio questa politica costituisce forse,
assieme allo
storico abbattimento del potere temporale dei Papi, il tratto
più originale e
il maggiore contributo dell’Italia alla civiltà
del liberalismo europeo: dato
che in precedenza si sarebbe anche potuto pensare – e molti
hanno in effetti
continuato a pensarlo non senza qualche buon motivo anche
successivamente – ad
una sostanziale incompatibilità antropologica fra tradizione
religiosa
romano-cattolica e individualismo democratico-liberale. In
realtà non di
incompatibilità si trattava, ma di difficoltà
storiche e antropologiche ben
maggiori rispetto a quelle incontrate nei paesi di tradizione riformata
sì,
tanto che in altri paesi cattolici, anche europei, tali
difficoltà sono state
superate appunto solo nell’ultimo quarto del XX secolo, e
solo dopo, fra
l’altro, il secondo Concilio Vaticano, il riluttante parziale
venire a patti
della Chiesa romano-cattolica con la modernità politica
liberale e occidentale,
e dopo l’avvento e il consolidamento del processo di
secolarizzazione.
Il
ripudio del laicismo e del Risorgimento
Non
meno importante per
un uso criticamente avvertito del termine “laico”
è tener conto dei
condizionamenti che derivano dall’attualità
politica dell’Italia contemporanea.
Anni fa, dovendo costruire una coalizione che si contrapponesse al
centrosinistra, Silvio Berlusconi mise insieme uno schieramento
alternativo di
destra con quel poco materiale che gli poteva (quasi letteralmente)
“passare il
convento”: si inventò una forza politica di destra
che si definiva liberale
raccattando attorno ad essa neofascisti, clericali e leghisti. Trovato
lo
schieramento, si trattava di conferirgli qualche
plausibilità intellettuale:
operazione che i chierici di questo paese non hanno mai reso troppo
problematica. Da un lato si trattava di giustificare in qualche modo
l’alleanza
con gente che fino a pochi mesi prima faceva il saluto romano e, fin
dal nome
di Movimento Sociale Italiano, si proclamava orgogliosa erede del
nazifascismo
repubblichino; dall’altro si trattava di agganciare, di
fronte a una società da
sempre poco incline all’associazionismo civile, una Chiesa
cattolica che resta,
pur con il suo peso drasticamente ridimensionato
dall’inesorabile avanzare
della secolarizzazione, uno dei pochi gruppi organizzati in grado di
convogliare qualche migliaio di voti che in molti collegi possono
risultare
determinanti per la vittoria dell’uno o dell’altro
schieramento.
Di
qui la pronta
offerta di ciò che il mercato politico richiedeva. La
demitizzazione
dell’antifascismo come ideologia, il riconoscimento
cioè del suo carattere
composito e della contraddittoria compresenza al suo interno di
componenti
liberali e democratiche accanto al ben più forte elemento
comunista, ancora
pienamente radicato, durante la Resistenza, nella sua originaria
identità
totalitaria, era ormai matura e inevitabile. Ma non vi era motivo
perché tale
demitizzazione dovesse anche sfociare in una vera e propria
rivalutazione
strisciante, anzi ormai aperta, del fascismo storico; perché
il carattere
dittatoriale e liberticida del fascismo venisse sostanzialmente
banalizzato e
giustificato dalle contraddizioni proprie del fronte opposto dopo il
1941 e
l’attacco tedesco all’Unione Sovietica;
perché in nome della critica
dell’antifascismo si riducesse il ventennio fascista, la
distruzione della
democrazia liberale in Italia, il rinnegamento del Risorgimento nella
sua
vocazione occidentalista e liberale, a un fenomeno dopo tutto non
così
deplorevole, comunque di complessa valutazione etico-politica, nel
quale
ricercare “equanimamente” luci e ombre, e i cui
“eccessi” venivano in sostanza
giustificati dalla minaccia bolscevica.
Simmetricamente,
si è
rinnegata – in modo molto più esplicito di quel
che non avesse mai fatto il
fascismo – l’intera tradizione liberale del
Risorgimento e si lamenta che lo
Stato italiano sia stato costruito in contrapposizione ai
più profondi
convincimenti religiosi del popolo e alle identità regionali
e contadine
premoderne, creando così le premesse di un debole senso di
appartenenza
nazionale e di civismo. Si cancella così un dato di fatto
monumentale nella
storia del liberalismo europeo: il fatto cioè che, fino al
sorgere dei
totalitarismi del XX secolo, la Chiesa romano-cattolica era stata per
tre
secoli il grande antagonista storico del liberalismo, il Grande Altro,
portatore di una opposta proposta di civiltà, di opposti
rapporti umani, di
un’opposta antropologia culturale[25].
Lamentare che la nazione non sia stata costruita sotto
l’egida della Chiesa del
Sillabo anziché combattendola e contrapponendovisi, equivale
a rammaricarsi che
l’Italia si sia costituita come paese moderno e liberale,
anziché come elemento
politicamente estraneo alla vita civile dell’Europa
occidentale. Ipotesi
proponibile solo a un’opinione pubblica convinta che
l’identità della Chiesa
romana sia sostanzialmente da sempre quella emersa dopo il Concilio
Vaticano
secondo e ignara di ogni precedente vicenda: tanto che le appaiono
incomprensibili deviazioni, anziché manifestazioni di una
secolare coerenza
oscurantista e autoritaria, gli squarci di cruda verità
storica rivelati
episodicamente dalle cronache (come è accaduto in occasione
della
beatificazione di Pio IX o dei reiterati mea culpa del Pontefice per le
passate
malefatte dei cattolici – ma non per le proprie, per quelle
dei cattolici di
oggi, e neppure per quelle della Chiesa di ieri). La Chiesa sotto la
cui
egemonia il revisionismo antirisorgimentale si rammarica che
l’unità nazionale
non sia stata realizzata è quella che nutriva
un’avversione così feroce nei
confronti dei diritti umani e delle minoranze da non avere ancora
digerito
l’emancipazione civile degli ebrei neppure dopo un secolo:
tanto da auspicare
il parziale mantenimento in vigore delle leggi fasciste di
discriminazione
razziale anche dopo la caduta del regime e mentre era ancora in corso
lo
sterminio degli
ebrei[26].
Si tratta di un intero colossale e vergognoso capitolo della storia
d’Italia e
d’Europa, la cui rimozione non è certo meno
scandalosa di quella degli eccidi
nelle foibe carsiche di cui si è tanto intensamente discusso
negli ultimi
tempi.
È
tornato di gran moda,
in questo clima, citare, del tutto a sproposito e per lo più
palesemente senza
averlo mai letto, il Croce del «perché non
possiamo non dirci “cristiani”»[27]
come se corrispondesse a un «perché dobbiamo
essere tutti cattolici romani».
Non sarà allora inutile ricordare che, in un’opera
di ben altro impegno, lo
stesso Croce aveva definito «il cattolicesimo della Chiesa di
Roma la più
diretta e logica negazione dell’idea liberale […]
che tale si sentì e si
conobbe e volle recisamente porsi fin dal primo delinearsi di
quell’ideale,
tale si fece e si fa udire con alte strida nei sillabi, nelle
encicliche, nelle
prediche, nelle istruzioni dei suoi pontefici e degli altri suoi preti,
e tale
(salvo fuggevoli episodî o giuochi di apparenze)
operò sempre nella vita
pratica, e può per tal riguardo considerarsi prototipo o
forma pura di tutte le
altre opposizioni e, insieme, quella che, col suo odio irremissibile,
mette in
luce il carattere religioso, di religiosa rivalità, del
liberalismo» [28].
Il
liberalismo ridotto a generico moderatismo
Se
però è stata
l’attualità politica a suggerire questa
riabilitazione del fascismo e del
clericalismo all’insegna del
“moderatismo”, non è che non ve ne
fossero già le
premesse nel carattere debole e sostanzialmente subalterno della
tradizione
liberale moderata italiana, cui il liberalismo della Destra storica
è sempre
apparso eccessivo, sconsiderato, scapestrato. È anzi
stupefacente come questa
parte della cultura liberale italiana abbia fatto propria
l’equazione, a suo
tempo formulata polemicamente dalla cultura marxista, fra il
liberalismo e un
generico moderatismo, del tutto neutro rispetto a valori e principi
tradizionalmente propri del liberalismo, anche di quello orientato a
destra.
Qualunque posizione “moderata”, su qualunque
argomento, passa, nell’Italia di
oggi, per liberale. Alla stregua di questo criterio, in un paese in cui
fosse
ampiamente diffuso l’antisemitismo, un vero
“liberale” dovrebbe rifuggire dagli
opposti estremismi costituiti dall’antisemitismo radicale e
dal ripudio di ogni
antisemitismo, per riconoscersi in un equilibrato e ragionevole
“antisemitismo
moderato”. Questi liberali, che in nome del moderatismo sono
anche arrivati a
rinunciare a ogni franca professione di liberismo, per accodarsi alla
riscoperta berlusconiana di Röpke, della “economia
sociale di mercato” e della
“dottrina sociale” della Chiesa romana, trovano
particolarmente congeniale
l’appiattimento sul tradizionalismo cattolico, a torto
ritenuto coincidente con
il centro dell’elettorato. Non che manchino precedenti, nella
tradizione del
liberalismo italiano, di queste posizioni, conciliatoriste prima ancora
del
patto Gentiloni; ma arrivare a dire che l’avversario
principale del liberalismo
sarebbe il laicismo sembra davvero superare ogni possibile paradosso.
L’affermazione
è di
Nicola Matteucci, uno dei pochi intellettuali italiani a non essersi
scoperti
liberali solo a crollo del muro di Berlino avvenuto. Secondo Matteucci,
«il
laico riconosce il primato morale della coscienza
dell’individuo, il laicista
considera invece lo Stato come il solo interprete della
verità»[29].
Un’affermazione
che accetta la sovrapposizione di concetti che la cultura cattolica si
è
costruita a uso polemico, e che identifica nel laicismo non
già la teoria della
neutralità dello Stato rispetto alle confessioni religiose,
volta a garantire
la pari libertà di credenti e non credenti, bensì
l’assunzione di un’ideologia
di Stato che si sovrapponga alle coscienze individuali con la forza
della
legge, proprio come un tempo (un tempo?) pretendeva di fare la Chiesa
cattolica.
È
davvero possibile che
confusioni così maliziose non siano semplicemente il frutto
di un eccesso di
passione politica, sconfinante in quel settarismo che i moderati sono
soliti
rimproverare proprio ai “laicisti”? Non
c’è comunque da stupirsi, se queste
sono le posizioni dei pochi liberali doc del centrodestra italiano, che
il
mondo cattolico ad essi alleato si senta legittimato a promuovere la
demonizzazione e il ripudio dell’intero Risorgimento e, con
esso, del
liberalismo di destra assieme a quello di sinistra: di Cavour non meno
che di
Cattaneo. Ed è appunto, se non il ripudio auspicato da Biffi
e Buttiglione[30],
la critica demolitrice del Risorgimento, fallito per aver voluto
costruire la
nazione in contrapposizione al sentimento religioso del popolo
italiano, il
punto d’arrivo della polemica antilaicista dei
“liberali moderati”[31].
Non
tutte le tradizioni religiose sono uguali
Si
potrebbe
semplicemente replicare che questa polemica arriva fuori tempo massimo,
a un
quarto di secolo di distanza da quel referendum sul divorzio che
rivelò a se
stesso un paese in cui la secolarizzazione era già allora
altrettanto avanzata
quanto nel resto dell’Europa occidentale, come la classe
politica e i media si
ostinavano a non voler vedere, come gli studiosi non sembravano ancora
aver
capito, come doveva confermare pochi anni dopo anche il referendum
sull’aborto
e come da allora continuano ad accertare ripetuti e ricorrenti sondaggi
di
opinione[32].
Sennonché questa polemica sulla storia e
sull’identità della nazione italiana
serve a ricordare come non tutte le tradizioni religiose siano
ugualmente
inclini a conciliarsi con l’antropologia individualista e con
il radicamento
della cultura politica diffusa nella fede nella libertà di
coscienza e nella
responsabilità degli individui che reggono il funzionamento
e garantiscono la
solidità delle società laiche e liberali in
Occidente.
C’è
poco da lamentarsi
che altrove la democrazia liberale sia sorta e si sia consolidata dal
seno
stesso della coscienza religiosa e che questo non sia avvenuto in
Italia; e
d’altra parte è smentita dalla geografia politica
del pianeta l’asserzione
secondo cui sarebbero le “religioni monoteistiche”
l’ostacolo all’affermazione
di società libere e democratiche, dato che,
all’opposto, non sembrano esistere
consolidate società democratiche che non siano di tradizione
giudaico-cristiana
occidentale[33].
Il
punto è che,
nonostante la melassa ecumenista di questi ultimi decenni abbia rimosso
la
consapevolezza delle differenze profonde fra i principi ispiratori
della Chiesa
cattolica e delle Chiese della Riforma perfino da gran parte della
storiografia
contemporanea[34],
la democrazia liberale si è venuta a costituire non come
frutto sperimentale
dell’applicazione di dottrine politiche preconfezionate da
parte di filosofi
protoilluministi o come prodotto corale e comune di tutte le
società europee,
ma come conseguenza (inizialmente) inintenzionale di eventi, principi e
prassi
organizzative scaturiti dalla Riforma protestante: dalla riforma morale
della
coscienza individuale, sola di fronte a Dio, di fronte alla sua legge
come alla
sua giustificazione, e dalla convinzione della
incoercibilità della coscienza
suscitate dalla Riforma; dalla libertà di ricerca e dal
fallibilismo teologico
conseguenti al principio della “sola Scriptura”;
dal pluralismo denominazionale
conseguente a quelle premesse; dall’ecclesiologia democratica
di alcune Chiese
che se la dovettero costruire perché prive della struttura
gerarchica cattolica
e critiche nei confronti delle nuove Chiese di Stato sulla base degli
stessi
principi di libera ricerca della verità (cristiana) che
avevano provocato la
rottura di queste con Roma. Che questo percorso sia stato
tutt’altro che
lineare è fin troppo ovvio; che anche nella storia del
protestantesimo siano
stati ampiamente compresenti spinte e momenti di estrema intolleranza,
autoritarismo e fanatismo lo è altrettanto; che se ne possa
contestare la
sostanziale realtà mi sembra contraddetto
dall’intera storia delle origini del
liberalismo europeo nell’Inghilterra e nell’Olanda
del Seicento e nel
costituzionalismo americano.
È
per questo che, in
quei paesi, lo stesso termine “laicismo”
è estraneo alla lotta politica, e
addirittura di difficile traduzione nelle rispettive lingue. In quei
paesi il
principio della libertà e della responsabilità
degli individui è ormai radicato
nell’ethos pubblico oltre che nelle istituzioni. Dove il
liberalismo – almeno
come work in progress
– ha pervaso di sé l’intera
società civile, le stesse strutture educative
minoritarie cattoliche non corrono lo stesso rischio di divenire isole
di
intolleranza che corrono in società di tradizione
controriformista e il
pluralismo religioso può davvero esplicare la funzione
vivificante descritta da
Tocqueville.
Nei
paesi di tradizione
romano-cattolica la democrazia liberale non ha potuto svilupparsi a
partire
dalla “coscienza religiosa del popolo”, ma ha
dovuto affermarsi in modo assai
più contrastato e problematico: attraverso sconvolgimenti
rivoluzionari
accompagnati dall’invenzione di una religione della Ragione e
massacri di preti
e vescovi refrattari in Francia, attraverso l’iniziativa
illuminata di élites
politiche relativamente ristrette in Italia. Negli altri paesi
cattolici, anche
europei, la democrazia liberale si è potuta sviluppare solo
con più di un
secolo di ulteriore ritardo, e in alcuni di essi il processo non
può ancora
dirsi concluso, nonostante che, a partire dall’ultimo
Concilio, la Chiesa
cattolica si sia adattata, almeno a parole e nelle proclamazioni di
principio,
a venire a patti con la democrazia liberale, dopo averla combattuta per
tre
secoli. Mentre, nei paesi di tradizione ortodossa, i presupposti
antropologici
e culturali per la costruzione di una società libera si sono
rivelati così
carenti che solo la Grecia, solo con molti limiti (anche, in
particolare, nel
campo della libertà religiosa) e solo per effetto di una
crisi internazionale
che ne destabilizzò la dittatura, è giunta a
darsi istituzioni libere
nell’ultimo quarto del XX secolo. E si attende ancora una
società aperta capace
di affermarsi in un paese di tradizione islamica. (Un punto
quest’ultimo su cui
sarà il caso di ritornare in modo più disteso).
Il
laicismo torna ad essere condizione di libertà nelle
società multiculturali
Sarebbe
quanto di più
antilaico e illiberale, naturalmente, pretendere, come pure
è stato proposto da
un cardinale della Chiesa romana, di discriminare i singoli individui
sulla
base della loro nascita all’interno di culture autoritarie o
sulla base della
loro affiliazione religiosa (tra l’altro, componibile nel
modo più vario, e più
o meno contraddittorio alla stregua dei nostri criteri di coerenza,
nella
personale visione del mondo di ciascun singolo individuo). Su questo
non
possono esservi equivoci di sorta – non certo da parte
nostra. Ciò non toglie
che ragionare sulle influenze culturali e antropologiche delle
tradizioni
religiose sui valori etico-politici sia necessario sia alla
comprensione
storica, sia per valutare quanto poco “vieto” stia
ridiventando il nostro
laicismo nelle società multiculturali verso cui ci stiamo
avviando.
Se
infatti, negli
ultimi decenni, la relativa evoluzione della Chiesa romano-cattolica
postconciliare poteva far sembrare meno impellenti e alla fin fine meno
drammatici, almeno all’atto pratico, i dilemmi legati al
conflitto fra laici e
clericali, non è solo la rinnovata prepotenza giubilante e
revanscista di
questa Chiesa che conferisce nuova attualità al laicismo, ma
anche la nuova
presenza di tradizioni religiose non autoctone e talvolta ancor meno
disponibili della Chiesa romana a venire a patti con la
modernità politica, con
le libertà individuali legate al processo di
secolarizzazione e con i diritti
individuali dei soggetti cui tali tradizioni non riconoscono pari
dignità
sociale né legittimità alla protezione giuridica
assicurata loro in Occidente
(apostati, minori, donne, omosessuali).
Sarà
forse anche vero
che la condizione di un adolescente cui i genitori abbiano imposto
l’iscrizione
a una scuola confessionale cattolica non è più
quella di totale soggezione a un
insegnamento dogmatico e indiscutibile (che gli stessi cattolici non
potrebbero
che riconoscere controproducente nell’Occidente
contemporaneo); magari costui
non sarà più neppure costretto a partecipare in
modo non volontario a pratiche
di culto: per quanto ispirata, come la scuola delle società
totalitarie, a una
sola e indiscutibile verità, nella società aperta
la scuola cattolica non potrà
essere un vero microcosmo totalitario, ma al massimo un’isola
di anacronistico
autoritarismo ideologico. Ma, a parte il fatto che la questione di
principio
non è mutata di una virgola neppure per lui (e a parte il
fatto che, se per
avventura si tratta di un adolescente omosessuale, la scuola
confessionale
cattolica può facilmente traumatizzarlo per
l’intera esistenza), che dire del
suo coetaneo islamico mandato a frequentare una scuola confessionale
musulmana,
o di quello che la famiglia pretenda di educare al
“patriottismo padano”?
La
questione del
laicismo sta insomma riassumendo drammatica attualità non
solo a causa del
revanscismo giubilare della gerarchia cattolica e delle prospettive
insperate
ad esso spalancate dal servilismo della classe politica e dei media, ma
anche
perché, nello stesso tempo, è ridivenuta centrale
per definire la stessa
identità comune del paese e per stabilire i criteri di
integrazione nei diritti
di cittadinanza. Più che di indignarsi delle
“ingerenze” e delle presunte
violazioni del Concordato[35],
si tratta da un lato di non fare del cattolicesimo romano un elemento
definitorio dell’identità nazionale tale da
escludere da una piena appartenenza
alla stessa comunità nazionale i non credenti, gli
appartenenti alle minoranze
religiose autoctone (ebrei e valdesi) e gli immigrati non cattolici che
pure
ottengano la cittadinanza[36];
e dall’altro si tratta di impedire che il prezzo da pagare
per l’integrazione
degli immigrati sia un riconoscimento e una legittimazione di culture e
comportamenti autoritari e prevaricatori all’interno delle
loro comunità e
famiglie, contrastanti con supremi principi costituzionali e con i
valori etico-politici
tipici e propri dell’Europa liberale. Come afferma la
Società laica, «la
rivendicazione della più radicale
laicità delle istituzioni repubblicane, lungi dal costituire
la riproposizione
di antiche e superate divisioni, è la condizione necessaria
e primaria affinché
la nuova società multiculturale non si trasformi in un
assemblaggio di
microcomunità integraliste e settarie, ostili fra loro o
meramente conviventi
nell'attesa d’essere abbastanza forti per sopraffarsi a
vicenda».
Nella società multiculturale, la pretesa clericale di imporre il cammino a ritroso verso l’imposizione politica dell’agenda etica del cattolicesimo ufficiale, verso l’impossibile ripristino di legami sociali garantiti dalla comune adesione a valori religiosi anziché a valori civici, non può che tradursi alla fin fine, paradossalmente, nel crollo di ogni minimo comun denominatore di regole e valori di convivenza civile generalmente condivisi. Regole e valori che per noi oggi, come per gli uomini del Risorgimento e come per i ricostruttori di libere istituzioni dopo la catastrofe fascista, non possono che essere invece quelli (certo scarsamente autoctoni) della democrazia liberale europea: del parlamentarismo britannico, della Francia dei principi dell’89 e, per qualcuno, del federalismo repubblicano svizzero e americano, nell’Ottocento; quelli acquisiti e consolidati nell’intera Europa occidentale, oggi.
L’Italia della cosiddetta “seconda repubblica” è già abbastanza povera di un comune tessuto di valori civili condivisi, già abbastanza incerta sulla sua appartenenza culturale all’Occidente liberale e democratico, per non doverle preparare, in nome del ritorno alle proprie genuine radici nazionali e popolari, un futuro nelle intenzioni artificiosamente ricattolicizzato dalla politica, “libanese” o “bosniaco” nei suoi prevedibili esiti.
Da Critica liberale, numero monografico, n. 67, gennaio 2001.
[1] Eppure per i giornalisti italiani,
per i quali laico è
sinonimo di miscredente, «la Lega resta un movimento laico,
che cerca da anni
con grande fatica una presenza spirituale nel suo paesaggio storico e
mitologico raffazzonato». Così Ezio Mauro in un
editoriale di Repubblica del 17
ottobre, Chi tace davanti a Bossi il crociato. E
ciò perché «naturalmente
c'è ben poco di religioso in questo atteggiamento»
[la nuova politica clericale
di Bossi, n.d.r.]: per il direttore di Repubblica, se ne deduce, essere
laici è
materia di convinzioni in fatto di religione, non materia di decisioni
e
programmi politici, e si può quindi essere considerati laici
anche propugnando
un programma politico clericale, purché si sia miscredenti.
[2] Si tratta cioè, in un
certo senso, proprio di una fede
che «riconosce l’ateismo della ragione»;
come quella che auspica, ai fini di un
possibile incontro nella prassi sociale o politica, Paolo Flores
d’Arcais, Dio
esiste?, Micromega n.2/2000, pp.39s.; il quale
però, coniugando la polemica
– politica – laicista con quella –
filosofica – ateista, finisce per
privilegiare come interlocutori proprio gli uomini di chiesa cattolici,
a
cominciare dal cardinale Ratzinger, piuttosto che protestanti, ebrei
credenti e
cattolici critici.
[3] Vincenzo Cesareo e altri, La
religiosità in Italia
Milano, Mondadori, 1995; Franco Garelli, Forza della
religione e debolezza
della fede, Bologna, Il Mulino, 1996; Pietro Prini, Lo
scisma sommerso.
Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa
cattolica, Milano,
Garzanti, 1999.
[4] Una posizione che accomuna anche i
cattolici che
manifestano nella sostanza posizioni opposte negli esiti a quelle del
magistero,
guardandosi però dall’esplicitare tale
contrapposizione: Enzo Bianchi, Cristiani,
siate cittadini senza vangelo, La Stampa 31 gennaio 2001. A
chi sia
estraneo alla Chiesa romana, posizioni come questa, la cui eterodossia,
almeno
politica, è inevitabilmente destinata a essere colta da
pochi, appaiono quasi
una riedizione del nicodemismo cinquecentesco.
[5] Un esempio recente di questa
tendenza alla caricatura
dell’avversario è stato proposto
dall’Avvenire, in un articolo in cui Rousseau
e Hegel, il teorico della democrazia autoritaria e la bestia nera della
società
aperta di Karl Popper, venivano indicati come padri fondatori del
liberalismo
moderno, matrice a sua volta di ogni nefandezza totalitaria. Luigi
Negri, Ma
Rousseau ed Hegel prepararono l'avvento dei regimi. Nel liberalismo il
tarlo
del totalitarismo che può essere vinto definitivamente
grazie al dialogo tra
laici e credenti, Avvenire 15 novembre 2000.
[6] È questo, mi pare, il
punto debole del recente
contributo di Gian Enrico Rusconi, Come se Dio non ci fosse.
I laici. i
cattolici, la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2000. Da un
lato tale
richiesta, rivolta ai cattolici, sembra francamente eccessiva;
dall’altro, in
realtà già ora, e già da tempo, la
tecnica argomentativa dei cattolici
allineati consiste nel cercare di convincerci delle loro ragioni non
«facendo
valere ragioni autoritative delle proprie verità di
fede» (p.153), ma asserendo
di parlare in nome della “natura” e spesso scadendo
addirittura in maldestre
elucubrazioni scientistiche, che sembrano la parodia del più
stereotipato
materialismo positivista ottocentesco.
[7] Così la pensava nella
sostanza Guido Calogero, forse
il più lucido e tenace assertore teorico e pratico del
laicismo nell’Italia del
dopoguerra, che lo identificava con «la libertà
delle visioni del mondo [che] è
la più fondamentale di tutte le
libertà». Il principio del laicismo
(1959), in Filosofia del dialogo, Milano,
Comunità, 1969, pp.283s. Così
anche Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia,
voce “Laicismo”,
Milano, Tea, 1993 (ed. or. Torino 1971), p.518: «Il laicismo
è, sul piano dei
rapporti delle attività umane fra loro, ciò che
la libertà è sul piano dei
rapporti degli uomini fra loro». Sicché
«i soli autentici avversari del
laicismo sono gli indirizzi politici totalitari
[…] Un indirizzo
politico totalitario può essere agevolmente riconosciuto
proprio dal suo
atteggiamento nei confronti del principio L.» Per René
Rémond, La laïcité et ses
contraires,
in La laïcité, Pouvoirs n.75, cit., «alla
laicità si contrappongono tutti i
sistemi che aspirano a fondere l’individuo nella
collettività». Convergenti le
considerazioni di Luigi Ferrajoli, secondo cui il separatismo
è un mero
corollario del liberalismo politico e del positivismo giuridico. Stato
laico
e società multiculturale, intervento al convegno
del 26 marzo 2000, La
laicità in una società multiculturale,
promosso dal Comitato torinese per
la laicità della scuola, Laicità, n.2-3, giugno
2000.
[8] Pietro Adamo e altri, Modernità,
politica e
protestantesimo, a cura di Elena Bein Ricco, Torino,
Claudiana, 1994, in
particolare i saggi di Giorgio Tourn, Calvino politico,
pp.15ss. e di
Pietro Adamo e Giulio Giorello, La “tolleranza
armata”. Politica e religione
nella Rivoluzione inglese (1640-1660), pp.81ss. Su questo
punto, ovviamente,
la bibliografia potrebbe essere sterminata.
[9]Lucia Annunziata, Bossi,
tra Robespierre e Friedman,
intervista a Giuliano Amato, Corriere della sera 2 agosto 1993.
[10]
Giuliano Amato, Dio,
la Morte e il Mistero secondo il ministro dell’economia
dall’omonimo volume
collettaneo Mondadori, 1998, che riprendo dall’estratto
offerto dal sito di
Caffè Europa, 1999, si interroga, nel dialogo con gli
interlocutori cattolici,
sui «rischi che corre chi si è indurito
nell’esercizio egoistico delle proprie
libertà»; e si chiede «se il sogno di
questi due secoli fondamentalmente
europei e degli Stati Uniti d’America, che sono diventati il
modello del mondo,
sia stato e sia un sogno faustiano, una tremenda, esorbitante
ambizione. Ogni
tanto lo penso, ma mi rifiuto di crederlo perché credo
profondamente nella
libertà di tutti e di ciascuno». Non fino al
punto, però, di non rammaricarsi
che, “purtroppo”, la Costituzione italiana abbia
impedito al suo Governo di
vietare l’esercizio della libertà di riunione a
Roma a chi non marciava in
consonanza con gli obiettivi del giubileo cattolico. Non
c’è da stupirsi che,
incapace di vedere valori nel mondo laico, affascinato dal
“giubileo dei
giovani”, ad Amato non resti da far altro che esortare la
Sinistra a «imparare
dal Papa»: Massimo Giannini, Il Papa ci ha dato una
lezione il
centrosinistra impari da lui, Repubblica 22 agosto 2000.
Anche fra gli
uomini politici più navigati c’è chi
è condannato ad avvertire sempre come
irresistibile e incondizionato il fascino del capo carismatico,
politico o
religioso che sia.
[11] Neppure gli esponenti della
gerarchia considerati più
“aperti” e “progressisti” si
sottraggono a queste posizioni: Davide Parozzi “Politiche
più forti per la famiglia”. Martini: tutela per
quella fondata sul matrimonio.
No all’equiparazione ad altre forme, Avvenire 7
dicembre 2000, a proposito
di un convegno organizzato a Milano dal cardinal Martini.
[12] Si vedano le polemiche sulla
pillola del giorno dopo,
riproposte dai giornalisti cattolici in occasione della conferenza
stampa di
fine anno del Presidente del Consiglio, e quelle che hanno avuto per
protagonista il portavoce bioetico vaticano Sgreccia, ferocemente
contrarie
perfino al faticoso compromesso raggiunto in materia di clonazione
terapeutica,
per tener conto della zigotolatria cattolica. Stampa quotidiana 29
dicembre
2000.
[13] Condivisibili in merito (e non
solo) le osservazioni
di Stefano Levi Della Torre, Errare e perseverare.
Ambiguità di un Giubileo,
Roma, Donzelli, 2000, pp5s.
[14]
Che l’Italia «non si [possa] più
definire una nazione cattolica» lo riconoscono
da vent’anni gli stessi vescovi italiani. Il giudizio,
testuale, è di un
editoriale della Civiltà Cattolica dell'ottobre 1983, cit.
in Franco Garelli, Religione
e modernità: il “caso italiano”,
in La religione degli europei. Fede,
cultura religiosa e modernità in Francia, Italia, Spagna,
Gran Bretagna,
Germania e Ungheria, Torino, Fondazione Agnelli, 1992, p.40.
[15] René
Rémond,
cit.,
che giunge ad affermare che «una certa interpretazione della
laicità si tramuta
nel suo contrario».
[16] Formula, come è noto,
suggerita a Cavour dalle sue
giovanili frequentazioni del protestantesimo liberale ginevrino.
Rosario Romeo,
Cavour e il suo tempo (1810-1842), vol. I, Bari,
Laterza, 1969,
pp.304ss., 579ss.
[17] Jean
Baubérot, La laïcité,
quel héritage?De
1789 à nos jours, Genève, Labor et fides,
1990, pp.72ss.
[18] Ivi, p.71.
[19] Art.433-21 codice penale francese:
mentre una norma
analoga non compariva, in epoca preconcordataria, nel codice Zanardelli.
[20] Una ricostruzione della vicenda in Jean
Baubérot, La laïcité,
quel héritage?, cit., pp.95ss.; in
chiave soprattutto giuridica in Yves Madiot, Le
juge et la laïcité, “Pouvoirs”, n.75,
cit.
[21] Si veda la rassegna degli
orientamenti della
giurisprudenza francese in materia, in Yves Madiot, cit.,
miranti a favorire pragmaticamente la risoluzione negoziata dei
problemi, caso
per caso, contemperando la tutela della libertà religiosa
con l’esigenza,
ritenuta almeno altrettanto meritevole di tutela, di non recare
intralci al
regolare funzionamento dei servizi: un orientamento riconosciuto in
conflitto
con le più esigenti prescrizioni della Convenzione europea
sui Diritti umani
che, a differenza del diritto francese, fanno della
libertà religiosa
una «libertà di primo rango».
[22] Edoardo Tortarolo, Il
laicismo, Bari, Laterza,
1998, pp.77s., sembra identificare queste due diverse anime del
laicismo più
con successive tappe di uno sviluppo sostanzialmente comune ai paesi
europei
che con caratteristiche proprie di diverse tradizioni nazionali. Mi
pare comunque
che le due diverse concezioni abbiano piuttosto lasciato una sorta di imprinting sulle diverse tradizioni laiciste:
più
individualistico-liberale in Italia, più
statalistico-giacobina in Francia.
[23] E anche in Francia, del resto, il
problema della definizione
della laicità è tutt’altro che
scontato, e presenta declinazioni in parte
analoghe a quelle proprie dell’esperienza italiana. Ai
complessi problemi
storici e politici della laicità francese è stato
dedicato il n.75, La
laïcité, della rivista “Pouvoirs”,
cit. La stessa interpretazione del significato del termine vi appare
tutt’altro
che univoca: così Alain Bergounioux, La
laïcité, valeur de la République, ritiene di poter individuare
all’interno della
tradizione laica francese, strettamente intrecciate fra loro,
«due concezioni
filosofiche e politiche», l’una liberale,
«che ragiona essenzialmente in
termini di separazione» e l’altra che
«vede nella laicità una morale razionale
pienamente capace di organizzare tutta la
società»; viceversa il politologo québécois Jacques
Zylberberg, Laïcité,
connais pas,
assumendo come
paradigmatica l’idea, che definirei
“direttiva”, della laicità alla
francese,
ne deduce la totale assenza di laicità in Germania, Canada,
Stati Uniti e Gran
Bretagna: talché la laicità sarebbe, al di fuori
della Francia, «inesistente
attualmente in Occidente»; allo stesso modo il giurista Yves Madiot, Le
juge et la
laïcité, cit., proprio perché
evidentemente dà per scontata l’idea
“francese” della laicità, la dichiara
inesistente in tutti i paesi confinanti con la Francia (Italia
espressamente
inclusa, nonostante la consolidata giurisprudenza della Corte
costituzionale
italiana), e ciò benché definisca flessibile [souple] l’applicazione
giurisprudenziale del principio di
laicità francese. Contra, Dominique
Schnapper, La communauté des citoyens. Sur
l’idée moderne de nation, s.i.l.,
Gallimard, 1994,
pp.122ss., che, pur rilevando la particolare
“brutalità”
dell’esempio francese, riconosce nel laicismo un
«principio costitutivo della
nazione democratica», comune agli altri paesi occidentali. Michel Wieviorka, Laïcité
et démocratie, nel citato numero di Pouvoirs, indica come significato originario
della laicità in
Francia «la subordinazione del religioso al
politico», mentre nel Novecento
l’esigenza di garantire la libertà di coscienza
prevarrebbe su quella di
contrastare la religione, senza peraltro realmente soppiantarla del
tutto – non
senza che l’emergere della presenza islamica scomponga gli
schieramenti
tradizionali. Significativamente, per quest’ultimo autore,
«la nozione di
laicità rinvia all’idea di Stato ben
più […] che alla democrazia», e
andrebbe
pertanto riformulata tenendo conto dei nuovi «attori
identitari che chiedono di
essere riconosciuti nel loro particolarismo». Opposto e
rigidissimo il punto di
vista di Alain
Finkielkraut, La laïcité à
l’épreuve du siècle.
[24] È il giudizio
difficilmente contestabile di Guido De
Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Milano,
Feltrinelli, 1962 (ed.
or. Bari 1925), p. 266. Ed era la ragione, comprensibile dal loro punto
di
vista, della critica al Risorgimento da parte dei nazionalisti italiani
alla
Alfredo Rocco, fatta propria dal fascismo. Non è difficile
vedere nella rimessa
in discussione del Risorgimento negli ultimi anni un’eco
anche di tali posizioni.
[25] Ha ripercorso molte tappe di questa
storia Daniele
Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione. Studi
sull'ideologia
politico-religiosa di Cristianità, Torino,
Einaudi, 1993.
[26] Il che si concretò in
passi formali compiuti dal
gesuita Tacchi Venturi presso il Governo Badoglio a nome della Santa
Sede.
Ruggero Taradel, Barbara Raggi, La segregazione amichevole.
“La Civiltà
Cattolica” e la questione ebraica 1850-1945, Roma,
Editori riuniti, 2000,
pp.146ss.: ma tutto questo volume meriterebbe di essere raccomandato
all’attento studio dei nuovi revisionisti antirisorgimentali.
[27] Fra rigorose virgolette
nell’originale (1942), ora in
Benedetto Croce, La mia filosofia, Milano, Adelphi,
1993, pp.38ss.
[28] Storia d’Europa
nel secolo decimonono, Bari, Laterza,
1965 (ed. or. 1932), p.22.
[29] Nicola
Matteucci, Perché non
possiamo non dirci liberali, Il Giorno 15 ottobre 1999.
[30] Giacomo Biffi, Risorgimento,
stato laico e identità
nazionale, Casale Monferrato, Piemme, 1999; Rocco
Buttiglione, prefazione a
Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali
& massoni
contro la Chiesa, Milano, Ares, 1998.
[31] Ernesto Galli della Loggia, Liberali,
che non hanno
saputo dirsi cristiani, Il Mulino n.349, sett-ott 1993. Ma la
«fragilità
morale della società italiana» non nasce affatto
in conseguenza dello scontro
fra Chiesa cattolica e Stato unitario, ma è un dato
antropologico costitutivo
della società italiana in età moderna,
verosimilmente preservato innanzitutto
dalla tradizione religiosa popolare del cattolicesimo controriformista,
che il
Risorgimento non è stato semplicemente in grado di
modificare. Carlo
Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale,
clientelismo,
trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi,
Milano, Feltrinelli, 1986,
pp.22ss.
[32] Un recente sondaggio commissionato
dal “Polo laico”
potrà a qualcuno apparire viziato dagli intenti del
committente. Pierluigi
Battista, Laici d’Italia. Sessualità e
costume: anche la destra ascolta poco
la Chiesa, La Stampa 23 novembre 2000. Ma a conclusioni non
diverse sembra
pervenire lo studio di un sociologo tutt’altro che
“laicista”. Franco Garelli, I
giovani, il sesso, l’amore, Bologna, Il Mulino,
2000.
[33] Amartya Sen, in Laicismo
indiano, a cura di
Armando Massarenti, Milano, Feltrinelli, 1998, esprime un punto di
vista molto
più ottimistico. Quello della ricerca delle radici non solo
della società
aperta, ma dello stesso “disincanto” moderno e
post, della secolarizzazione e
laicizzazione, in principi e sviluppi interni alla stessa tradizione
giudaico-cristiana,
a cominciare dall’incarnazione e dalla kenosis,
è un topos molto
frequentato della cultura contemporanea, su cui, come è
ampiamente noto, si è
in particolare soffermato in questi ultimi anni Gianni Vattimo, in
particolare
in Credere di credere, Milano, Garzanti, 1996; ma
anche, da una
diversissima prospettiva e in relazione soprattutto
all’ebraismo, Sergio
Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Milano,
Adelphi, 1990. A parte
l’eventuale sottovalutazione dello specifico apporto della
Riforma, si
tratterebbe comunque di sviluppi possibili, ma niente affatto
necessari, vista
l’opposta direzione in cui è andata nel frattempo
la storia politica e
culturale dei paesi di tradizione cristiana ortodossa e bizantina.
[34] Significativa a questo proposito,
proprio perché si
tratta di un volume che mira a fornire un inquadramento generale dello
stato
degli studi, la pur equilibrata sintesi del dibattito storiografico in
materia
offerta dallo storico cattolico Paolo Prodi, Introduzione
allo studio della
storia moderna, Bologna, Il Mulino, 1999, pp.63ss.
[35] Ingerenze difficilmente eccepibili
sul piano giuridico
nei confronti di organi della Chiesa cattolica italiana come la Cei,
anche
quando si concretino in interventi di bassa manovalanza politica;
censurabili,
ma non sulla base del Concordato dell’84, se attuate dalla
Santa Sede come
soggetto di diritto internazionale.
[36] Questa pretesa coincidenza fra
comunità nazionale e
comunità cattolica sembra il presupposto dei tentativi di
sfondamento contro la
«residua cultura laicista» (Sorge, sic) avanzati da
alcuni esponenti cattolici,
pronti a cogliere tempestivamente il destro offerto dai
“laici” che
ripropongono il cattolicesimo come elemento definitorio
dell’identità
nazionale. Bruno Forte, La garanzia del Concordato,
Il Mattino 21
gennaio 2001; Bartolomeo Sorge, Laici o cattolici? Cittadini,
Aggiornamenti sociali n.1, gennaio 2001.
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