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Una guerra contro lOccidente

di Felice Mill Colorni

Il dibattito sulla situazione in Iraq, sulla guerra e sulla pace, sui rapporti fra Europa e Usa, sul ruolo dell’Ue, sulle sue ricadute nella politica interna è viziato dal peso crescente di contrapposti populismi. Manca, se non nelle isolate riflessioni di qualche esperto, scarsamente capaci di “fare opinione” proprio a causa del loro carattere specialistico, di senso di responsabilità, di prospettiva storica e della consapevolezza dei pericoli e delle poste in gioco.

Non sembra acquisita nemmeno la percezione delle dimensioni della sconfitta politica non solo americana ma, inevitabilmente, di tutto l’Occidente (almeno nella visione di buona parte del mondo non occidentale). A prescindere perfino da quelli che potranno essere gli esiti strettamente iracheni della vicenda sul piano militare e su quello istituzionale, quattro anni di gestione della politica Usa da parte della lobby dei neocons (si sarebbe tentati di definirli, alla francese, les nouveaux cons) potrebbero aver già prodotto una sconfitta storica del modello occidentale, se non la fine stessa dell’Occidente come l’abbiamo costruito e conosciuto negli ultimi sessant’anni: come una civilizzazione intesa (per usare arbitrariamente una definizione di Braudel) come spazio, come società, come economia, come cultura; e come soggetto, più o meno stabile e più o meno coeso, della politica internazionale.

Agli occhi di quella parte del mondo che si sarebbe voluta conquistare, e anche agli occhi dell’intero mondo non occidentale non direttamente coinvolto in questo conflitto, in Asia, in Africa, nell’universo ex comunista, nell’attuale civiltà globale dell’immagine le foto delle torture “occidentali” nel carcere saddamita di Baghdad, rafforzate da stereotipi e pregiudizi già fortemente radicati, sono destinate purtroppo a definire per almeno una generazione, e forse ancor più a lungo, buona parte dell’immagine e dell’identità dell’Occidente. Nelle culture tradizionaliste le depravazioni cui abbiamo assistito sono considerate precisamente la logica conseguenza delle “disgregatrici” libertà individuali tipiche dei nostri paesi. Decenni di denunce della pretesa ipocrisia liberale e occidentale in materia di difesa dei diritti umani da parte dei peggiori regimi e delle più liberticide ideologie totalitarie rischiano di esserne avvalorate e convalidate. E tanto più lo saranno quanto più la reazione delle istituzioni americane resterà, come lo è stata finora, debole e incerta, di sconcertante mitezza, soprattutto se confrontata con l’abituale severità del sistema giudiziario statunitense, sul piano della repressione penale delle responsabilità individuali, e incomprensibilmente priva di qualunque concretezza sul piano delle responsabilità politiche: non si vede come possa essere altrimenti qualificata la mancanza di ogni conseguenza dell’assunzione pubblica di responsabilità da parte di Rumsfeld. Un episodio sconcertante anche se di limitato impatto politico come il processo-farsa per la strage del Cermis viene ora riproposto al mondo intero come modello di fairness occidentale, con conseguenze neppure immaginabili sul piano della distruzione dell’intero armamentario di soft power a disposizione dell’Occidente e delle democrazie liberali nei prossimi anni.

Ma questa immagine sfigurata e sconciata dell’Occidente non è che l’esito estremo (tanto più assurdo perché sarebbe stato facilmente evitabile) di un’intera strategia portata avanti – dalla prima Amministrazione non regolarmente eletta nella storia degli Usa – all’insegna di una mistura di ottusità, messianesimo rivoluzionario e calcoli elettoralistici che confermano il nostro giudizio di un anno fa, quando, prima ancora della conclusione incautamente dichiarata della guerra e contro un’opinione largamente diffusa, avevamo definito l’Amministrazione Bush jr. come «una delle più inadeguate e intellettualmente sguarnite amministrazioni americane dalla fine della seconda guerra mondiale». La più inadeguata e la più intellettualmente sguarnita, possiamo confermare oggi.

Ottusità nel ritenere qualunque conflitto più facilmente risolvibile ricorrendo allo strumento militare, piuttosto che considerando tale strumento quale ultima risorsa una volta dimostrata l’impossibilità di ogni altra soluzione; inadeguatezza intellettuale nel non comprendere che la democrazia liberale non è il modo “naturale” di organizzarsi delle società umane ma l’esito prezioso, “innaturale” e anche da noi sempre precario, della storia occidentale e della nostra antropologia individualista (esportabili, sperabilmente, ma certo non con una guerra lampo decisa a tavolino); calcoli elettoralistici nell’avere anticipato l’inizio della guerra, impossibile d’estate, alla primavera del 2003 per non doverla combattere a ridosso delle presidenziali di quest’anno: con il bel risultato di avere impedito il completamento delle ispezioni (che avrebbero evitato i successivi smacchi, di fronte all’irreperibilità delle armi non convenzionali) e di avere spinto verso la rottura la solidarietà fra le democrazie occidentali nel modo più brutale, forzato e gratuito.

Ma quel che ha reso l’impazzimento della politica americana più disastroso per tutti noi è stato il messianesimo rivoluzionario di una politica estera condotta, incredibilmente, al riparo da qualunque etica della responsabilità, da qualunque prudente apprezzamento dei possibili esiti inintenzionali dell’avventura irachena. Con il risultato di rivitalizzare, come mai prima e con esiti davvero imprevedibili, proprio quel terrorismo di matrice islamista che tutti i principali studiosi del fenomeno davano in crisi e in irreversibile declino, ormai incapace di egemonia nei paesi di origine e proprio per questo isolato in un folle avvitamento militarista e ormai solo capace di colpi di coda tanto più feroci e catastrofici quanto più espressione di un sogno di dominio sul mondo islamico giunto al suo tramonto, a un venticinquennio dalla sua nascita.

Fra gli esiti nefasti di questa politica uno dei peggiori è stato a nostro avviso proprio la divaricazione senza precedenti fra i due necessari pilastri dell’alleanza occidentale, che ha corso e corre il rischio dello sfaldamento, nonostante i tentativi di ricucitura delle ultime settimane. Decenni di politica Usa favorevole alla partnership con l’Europa occidentale e all’integrazione europea sono stati sostituiti da un’esplicita e ottusa volontà di disgregazione, della cui incredibile miopia ci si può solo stupire. Proprio quando, venuta meno la minaccia sovietica, e con essa il più importante fattore oggettivo e cogente di solidarietà atlantica, sarebbe stato necessario salvaguardare l’alleanza più radicata e significativa dalle spinte disgregatrici, in previsione delle possibili e probabili sfide globali dei prossimi decenni (è improbabile che il ciclopico sviluppo economico dell’Asia indotto dalla globalizzazione resti a lungo senza conseguenze anche politiche, e non è affatto detto che queste vadano irrevocabilmente nel senso della democratizzazione e della cooperazione), si è preferito rinunciare a più di mezzo secolo di investimenti politici, economici, culturali, mitici e ideali e sostituire l’alleanza occidentale con una coalizione, attorno alla superpotenza narcisisticamente convinta di essere la sola vera democrazia liberale al mondo, dei governi di volta in volta willing, dove un presidente pakistano golpista o i governi totalitari dell’Asia centrale ex sovietica valgono quanto e più dell’Europa occidentale.

È un triste segno del declino dell’Europa che un paese con le tradizioni storiche, internazionali e diplomatiche della Gran Bretagna possa aver seguito con così scarso spirito critico l’Amministrazione Bush jr. in questa temeraria scommessa; meno sorprendente che a farlo siano stati i fragili paesi dell’Europa ex comunista o un governo di dilettanti allo sbaraglio come quello italiano, che ha ritenuto utile esibire una fedeltà canina nei confronti dell’alleato più potente, con la frivola illusione di non dover pagare alcun costo intervenendo in Iraq a guerra “conclusa”. Ma queste sono polemiche fin troppo facili e risapute.

Quel che è forse meno scontato è sottolineare come a questa mancanza di etica della responsabilità nelle scelte della politica estera americana faccia per lo più riscontro un atteggiamento speculare da parte dell’Europa. Se l’America ha fornito risposte sbagliate, riflesso quasi condizionato degli umori dell’opinione pubblica interna, l’Europa, nel seguire altrettanto acriticamente i propri diversi umori, non ha saputo fornire pressoché nessuna risposta. Il che sarà anche inevitabile, in assenza di una politica estera comune: una politica estera europea potrebbe essere giusta o sbagliata, condivisibile o meno, assertiva o rinunciataria, le politiche estere dei singoli Stati possono essere solo patetiche.

Resta che in Europa il riflesso condizionato prevalente è solo quello di respingere, almeno finché possibile, l’opzione militare, di propugnare una più stretta collaborazione e cooperazione internazionale, di promuovere un più stabile e sistematico multilateralismo nelle relazioni internazionali. Dagli ambienti più inverosimili della sinistra italiana si sente ora perfino ripetere che bisogna puntare su un maggior ruolo dell’intelligence (come pudicamente vengono ora definiti i servizi segreti; peccato che proprio la guerra in Iraq abbia ancora una volta evidenziato un’insuperabile aporia della stessa teoria democratica: quella del carattere inevitabilmente non pubblico, e talvolta non verificabile, di informazioni cruciali per consapevoli decisioni razionali in materia di pace e guerra). Pur di fronte ai crescenti populismi euroscettici o antieuropei, comincia a farsi strada, soprattutto nella sinistra, l’idea che una politica estera comune sia per i paesi europei non più un’opzione, ma una condizione di esistenza in vita (sempre che questa idea sia capace di sopravvivere all’infelice esito continentale delle elezioni europee).

Tutto bene, tutto giusto, ma purtroppo non è una politica, né tanto meno una risposta alla sfida in atto, come sta cercando invece di elaborarne il variegato fronte della sinistra neoprog americana.

Bisognerebbe intanto prendere atto che quella del terrorismo totalitario di matrice islamista contro l’intero Occidente è davvero una minaccia letale, reale, potenzialmente paragonabile a quella dei totalitarismi del XX secolo. Non è negando l’evidenza, o invocando (contro la testimonianza della nostra stessa storia) il presunto carattere naturalmente pacifico di ogni religione, che si potrà ridimensionare la minaccia. All’opposto, e come per tutti i totalitarismi del passato, ogni manifestazione di appeasement fine a se stessa non potrà che essere interpretata come manifestazione di debolezza da gente incapace di comprendere ragioni e radici dei nostri valori etico-politici.

Assumere una rigorosa riaffermazione del valore supremo della laicità delle istituzioni nazionali ed europee come base per la convivenza nelle nostre società pluralistiche (contro ogni indulgenza verso i nuovi fondamentalismi, ma anche contro ogni cedimento alle pretese di artificioso predominio simbolico e culturale delle religioni autoctone) è poi una precondizione per la credibilità di ogni politica di integrazione e un argine indispensabile contro le derive comunitaristiche di cui il terrorismo si alimenta anche nei nostri paesi.

La guerra in Iraq è stata disastrosa perché era evitabile, e perché condotta per ragioni sbagliate, sulla base di informazioni manipolate o comunque errate, confidando temerariamente in un risultato irrealistico e utilizzando metodi radicalmente incompatibili con l’obiettivo dichiarato. E tuttavia i problemi teorici e di principio che il dibattito sull’intervento aveva suscitato non possono per questo essere ritenuti semplicisticamente risolti per il futuro. Dichiarare di voler ricondurre ogni possibile decisione sulla pace e sulla guerra nell’ambito di una legalità internazionale identificata con il sistema Onu può condurre a esiti non meno deprecabili. Non solo il sistema Onu è ben lungi dal garantire qualunque forma di ingerenza umanitaria anche di fronte alle più massive e macroscopiche violazioni dei diritti umani, come è spesso accaduto: quel sistema richiede necessariamente il consenso dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, un consenso che dipende esclusivamente dalla libera volontà politica di tali membri (necessaria anche a modificare la Carta dell’Onu: ipotesi a sua volta tutt’altro che auspicabile se finalizzata a porre ogni decisione nelle mani della maggioranza, niente affatto democratica, dei paesi rappresentati – quella che, con l’astensione europea e italiana, ha eletto la Libia alla presidenza della Commissione Diritti umani). In assenza di un tale consenso, il sistema Onu tutela da qualunque ingerenza esterna anche i regimi governati da despoti irresponsabili e legibus soluti, anche nel caso sia indiscusso il loro possesso di armi di sterminio di massa, o perfino il loro uso contro la popolazione civile.

Non ci sembra che si possa rispondere all’avventurismo militarista dell’attuale Amministrazione Usa riproponendo risposte che avevano un senso quando la vera minaccia incombente era la guerra nucleare globale. Tanto meno ci sembra che opporsi ad avventure militari sbagliate e temerarie debba implicare, per l’Europa e per la sinistra europea, la rinuncia di principio all’affermazione universale, con mezzi meno sbrigativi, dei diritti umani e della democrazia liberale, contrapponendovi una concezione della cooperazione internazionale preoccupata di salvaguardare invece, con la pluralità delle forme di governo, anche regimi fondati sulla tortura e sulla guerra (purché si tratti di regimi non occidentali).


Da Critica liberale, n. 102, dicembre 2004.


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