I
disastri della guerra
di Felice Mill Colorni
Comunque la guerra vada a finire, è
certo che ci vorranno anni, se non decenni, per ricomporre la frattura
nell’area direttamente coinvolta, e anni per riparare i danni
che l’intera
gestione della crisi ha già provocato nelle relazioni
interatlantiche ed intereuropee.
L’intero assetto dei rapporti fra democrazie che si era
formato nell’ultimo
cinquantennio e che aveva resistito con successo alle prove della
guerra fredda
e alla sfida del comunismo è stato messo in crisi,
soprattutto per
responsabilità di una delle più inadeguate e
intellettualmente sguarnite
amministrazioni americane dalla fine della seconda guerra mondiale, ma
anche in
seguito alla sagra di irresponsabilità cui
l’Europa si è collettivamente
abbandonata. Poteva sembrare impossibile, all’indomani
dell’11 settembre, che
gli Usa si avviassero a perdere una battaglia di pubbliche relazioni
con il
satrapo di Baghdad,
ma pare che ci siano riusciti. Non c’è
stereotipo o pregiudizio negativo da cui l’immagine
dell’America è gravata nel
resto del mondo che non sia stato rafforzato dall’insipiente
regia di Bush jr.
e del suo staff. E non c’è stereotipo o
pregiudizio reciproco covato dagli
europei nei confronti degli americani e viceversa che non abbia subito
la
stessa sorte. Ogni esternazione di Rumsfeld
è costata agli
Stati Uniti quanto una battaglia perduta, e non
c’è stato argomento, neppure
fra quelli condivisibili, che non ne sia stato travolto.
L’esibita assenza di
qualunque “decent respect
to the opinions of mankind”
è la divisa dell’Amministrazione più
caratterizzata, nei metodi e nella mentalità prima ancora
che nei contenuti,
dallo stile “rivoluzionario” della destra religiosa
repubblicana, ed è il segno
non solo e non tanto di mire egemoniche o imperiali, o di
antieuropeismo,
quanto del rigetto di una tradizione multilateralista della politica
americana
dell’ultimo secolo che rimonta a Wilson,
a Roosevelt,
a Truman.
E tuttavia queste divisioni non erano e
non sono il nostro ineluttabile destino. È probabile, come
ha scritto Ilvo
Diamanti [Repubblica, 23/3/03], che il profondo
coinvolgimento di grandi
masse di cittadini e di giovani che hanno subito in questi giorni
un’accelerata
socializzazione politica abbia fornito loro un imprinting
destinato a segnarne stabilmente il modo di pensare la politica.
Però, fino a
qualche mese fa, le stesse divisioni, che si mostravano già
delineate nel
comportamento dei governi, apparivano ancora molto labili nelle
opinioni
pubbliche americana ed europea [Worldviews
2002,
cfr. Italianieuropei 4/2002]. Ancor oggi, almeno
fra gli europei, alle
profonde divisioni fra i governi non corrispondono affatto modi di
pensare, di
giudicare e di percepire gli avvenimenti altrettanto diversificati fra
i
cittadini. Al contrario, il giudizio degli europei sulla crisi sembra
fortemente omogeneo, e semmai i sentimenti e i risentimenti
“pacifisti”
appaiono più radicati proprio in Italia e in Spagna,
cioè nei due paesi i cui
governi hanno più fortemente sostenuto le scelte di Bush jr.
(pur con molte
contraddizioni e giravolte nel caso italiano, anche questa volta - e
non era
facile - distintosi per mediocrità); e neppure in Gran
Bretagna le cose vanno
molto diversamente, nonostante l’ovvio riflesso di
solidarietà verso le truppe
al fronte (e qui gli italiani sono gli ultimi a poter dare lezioni,
visto
l’atteggiamento di acritica venerazione sempre mantenuto dai
media nei
confronti di ogni missione militare all’estero - e perfino,
retrospettivamente,
nei confronti del comportamento delle truppe italiane nelle guerre
fasciste).
(Ma,
a differenza di quel che spesso si pensa, “right or wrong, my country”
non è più, da tempo, l’abito mentale
scontato degli anglosassoni. È perché erano
convinti che il proprio paese fosse
nettamente dalla parte giusta che americani e britannici hanno
sostenuto lo
sforzo bellico per le Falklands,
per il Kuwait,
per l’Afghanistan. Non andò così in
Vietnam: se il giudizio mutasse in rapporto
con l’andamento e il costo delle operazioni,
c’è da scommettere che il sostegno
alla guerra verrebbe presto eroso anche in America).
Se
la divisione fra governi non corrisponde a una divisione fra opinioni
pubbliche, bisogna chiedersi se i dissensi interni all’Ue,
anziché dipendere,
come molti commenti corrivi affermano, da valori radicati nelle storie
nazionali e da venerabili tradizioni politiche o da interessi economici
o
strategici oggettivamente inconciliabili, non dipendano piuttosto dalle
casuali
vicende che hanno portato al potere diverse maggioranze politiche in
momenti diversi:
del resto, se a decidere della politica estera fossero per assurdo
chiamati i
governi regionali anziché quelli nazionali, la geografia
politica del
continente non ritroverebbe omogeneità neppure sul piano di
ciascuno Stato
nazionale.
È
da qui che gli europei - e la Convenzione costituzionale europea -
dovrebbero
ripartire. Non per scegliere, come qualche nostro dirimpettaio
suggerisce, se
ripudiare Parigi o Filadelfia: Parigi e Filadelfia - e prima di loro
Amsterdam
e Putney,
e Londra, e poi Königsberg,
e Stoccolma, e Ventotene, e Strasburgo - sono tutte parte
imprescindibile della
nostra identità civile di liberali europei. Ma
perché l’irrilevanza degli
europei, e l’assenza di un’Europa che sappia
assumersi le sue responsabilità
anche nella politica internazionale, è stata una
determinante concausa di
questo tragico epilogo provvisorio e delle sue forse ancor
più tragiche
conseguenze future.
Purtroppo,
in Italia, si tratterebbe di farlo capire ad un governo di sprovveduti
allo
sbaraglio.
Da
Critica liberale, n. 88, febbraio 2003.
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