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Un'impronta fascista

di Felice Mill Colorni

         Il dibattito parlamentare sull’immigrazione ha dimostrato tutta la sconcertante pochezza dell’intera classe politica italiana, opposizione compresa. Lungi dal confrontarsi sui possibili modelli di integrazione, la classe politica si è divisa su un tema su cui si giocherà, purtroppo, buona parte del confronto politico dei prossimi tempi, interpretando due soli ruoli: la destra strizzando l’occhio al razzismo diffuso quel tanto che basta per farsi riconoscere dall’elettorato più bieco; il centrosinistra esibendo un buonismo disancorato da qualunque disegno strategico e razionale.

         Il sopravvalutato capo dei postfascisti ha dato, al solito, il peggio di sé, chiedendosi, con un largo sorriso da sprovveduto, «se uno non ha fatto niente di male, perché dovrebbe temere di farsi prendere le impronte digitali?» Tanto varrebbe, seguendo questo innovativo criterio, abolire ogni tutela della riservatezza, a cominciare da quella del domicilio e della corrispondenza. Del resto, non si faceva così anche durante la guerra? Le vecchie libertà borghesi non erano forse state superate già negli anni Venti?

         Questa volta il centrosinistra non è stato però da meno. Purché sia uguale per tutti, è stato il messaggio, qualunque limitazione delle libertà e della dignità degli individui è un non-costo, anzi un modo di esprimere civismo e valori repubblicani. Ben venga la rilevazione delle impronte degli immigrati, purché a tale pratica umiliante vengano sottoposti indiscriminatamente anche tutti i cittadini: la citata dichiarazione di Fini, nella sostanza profonda, è apparsa così del tutto condivisa dall’opposizione, non fosse che per la discriminazione contenuta nelle proposte della maggioranza ai danni dei soli extracomunitari.

         L’intera classe politica italiana non poteva dare una prova più macroscopica della sua perdurante estraneità, dopo cinquant’anni di vita formalmente democratica, ai valori liberali. In situazioni estreme, limitazioni delle libertà individuali possono anche essere dolorosamente inevitabili, ma accettarle come cosa normale e banale, appunto come un non-costo, dare a intendere che le tutele vigenti delle libertà e della dignità individuali sono fisime superate di cui ci si può sbarazzare senza alcuna preoccupazione, che i pubblici poteri possono invadere senza problemi la sfera di riservato dominio dell’individuo su se stesso (tanto, come si diceva negli anni di piombo, c’è la “garanzia sostanziale” costituita dalla natura democratica del potere) è, per noi, imperdonabile.

         Tanto più che, in questo caso, c’era a portata di mano una soluzione tecnica che avrebbe potuto in gran parte salvare capra e cavoli, tutela della dignità degli individui e esigenze della sicurezza. La fotografia dell’iride consente infatti di identificare un individuo con precisione ancor maggiore delle vecchie impronte digitali; e, a differenza di queste ultime, non è legata all’immagine stigmatizzante di pratiche cui vengono sottoposti coattivamente carcerati e sospetti, ma semmai all’interesse dell’individuo a farsi riconoscere da avanzati sistemi tecnologici che gli consentano di esercitare diritti e privilegi. Non si tratta, del resto, che di una fotografia, sia pure più dettagliata di una fototessera. Per di più, la fotografia dell’iride è molto meno invasiva della privacy della rilevazione delle impronte, dato che lo sguardo, a differenza di queste ultime, non lascia tracce sugli oggetti su cui si posa.

         Questa soluzione, ampiamente nota da anni a qualunque lettore anche distratto di quotidiani, non è neppure venuta in mente ai “nostri” rappresentanti. I quali ci hanno fatto notare con pedagogica sufficienza come lo spazio per l’impronta digitale sia da sempre previsto sulle carte d’identità: si tratta solo, finalmente, di riempirlo. Poco conta, pare, che si tratti di una desueta sopravvivenza di tempi in cui il rapporto fra cittadino e istituzioni era contrassegnato da principi e prassi coerentemente autoritarie e illiberali. Come se non bastasse, ci hanno anche ricordato che dopo tutto le impronte sono state sempre rilevate alle reclute: che problema ci sarebbe quindi nel rendere tale odiosa pratica obbligatoria per tutti? Proprio ora che finalmente la coscrizione forzata sta per essere abolita, i leader della sinistra italiana ci additano cioè come esempio da seguire una società civile che abbia come proprio modello di riferimento una caserma.

         Vive congratulazioni: se davvero la proposta del centrosinistra di estendere a tutti i cittadini la pratica ripugnante della rilevazione delle impronte sarà, come pare, accolta dalla destra, ogni volta che un cittadino elettore richiederà la carta d’identità gli resterà impresso nella mente: 1) che, come dicono gli xenofobi, il risultato della presenza degli stranieri immigrati è il degrado della vita civile; 2) che devono questa umiliazione all’illuminato intervento dei leader del centrosinistra.

         Andiamo avanti così: il prossimo passo potrebbe essere quello, anch’esso prospettato da qualche “nostro” illuminato rappresentante, di denominare il centrosinistra “Casa della solidarietà”. Un bel modo per accreditare e avvalorare l’autodefinizione di “Casa della libertà” datasi dallo schieramento opposto: non alleanza di corruttori, (post)fascisti e xenofobi, ma, per certificazione gratuitamente offerta dal centrosinistra, riconosciuto rappresentante in Italia dell’aborrito individualismo liberale e liberista occidentale.

Da Critica liberale, n. 81, maggio 2002.


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