Cosmopolitismo e globalizzazione
di
Felice Mill Colorni
In occasione delle elezioni politiche,
il centrosinistra si
è fatto soffiare dalla destra due idee-forza,
libertà e modernizzazione del
paese, che in teoria avrebbero dovuto essergli più
congeniali. Ora in compenso
la destra strilla, non del tutto a torto, che la sinistra (o meglio la
nebulosa
tendenzialmente e variamente orientata a sinistra del “popolo
di Seattle”) le
sta soffiando un tema che dovrebbe fare naturalmente parte del suo
patrimonio
più tipico, quello della lotta contro la globalizzazione e
la modernità. Da
Berlusconi, che (più prudente degli alleati) assicura i
contestatori che «ci
stiamo occupando degli stessi problemi e delle stesse
esigenze», ai leghisti
nei loro primi interventi della legislatura, da Franco Cardini
intervistato
dall’Avvenire, al Secolo
d’Italia, lo sconcerto, a destra, è
palpabile: investiti di responsabilità di governo, non
potranno certo essere
loro a contestare il vertice, ma avvertono con chiarezza che dovrebbe
spettare
semmai a loro di ergersi a difesa dei campanili e delle tradizioni,
dell’identità e della religione dei padri,
minacciate dalla modernità,
dall’apertura delle frontiere, dal meticciato e dalla
contaminazione etnica,
dalla plutocrazia cosmopolita e dai suoi complotti planetari. Di un
analogo
sconcerto, motivato con argomenti simmetricamente opposti, pare invece
esservi
scarsa traccia, purtroppo, nella sinistra.
È
fin troppo ovvio che
i temi sollevati dalla globalizzazione, dalla mancanza di governo e di
regole
entro cui si sviluppa, dalle sue conseguenze sulla democrazia, sulle
libertà,
sulla privacy, sugli squilibri internazionali, non
sono di quelli che si
prestano ad essere tagliati con l’accetta. E su alcune
questioni specifiche è
difficile non condividere almeno in parte alcune delle ragioni della
protesta.
È tuttavia significativo che a cogliere, in maggior sintonia
con i vescovi e
con la Chiesa di Roma, più i pericoli che le
opportunità, e a tremare più
sinceramente per il rischio che i venti del cambiamento possano
spazzare via
abitudini, stili di vita e paesaggi umani meritevoli di affezione e di conservazione
sia proprio la sensibilità politica diffusa della
sinistra, più che quella
della destra. Si tratta, probabilmente, di un segno dei tempi, del
progressivo
esaurimento della “spinta propulsiva” di questa
sinistra.
Ed
è anche un segno dei
tempi l’idea largamente diffusa che la globalizzazione sia
soprattutto una
minaccia, una causa di povertà crescente e diffusa e non
anche, con adeguati
correttivi, un potenziale, relativo, rimedio; che, soprattutto, ci si
debba
difendere dalle minacce della globalizzazione erigendo robusti steccati
a
tutela delle culture e delle sovranità nazionali minacciate
nel loro sviluppo
autarchico ed autistico.
In
questo confuso
affastellarsi di tradizionalismo e nostalgia per un passato mitico e
incontaminato, di richieste di nuovi protezionismi contro i paesi
poveri e di
interventi paternalistici volti ad alleviarne le pene con
l’elemosina, di
applicazione nel Sud del mondo degli standard occidentali di protezione
sociale
e di puntellamento del ruolo internazionale dei regimi dispotici che
per lo più
lo governano, cresce senza molte contraddizioni un solo sentimento
politico: il
populismo diffidente di ogni disegno di integrazione fra le democrazie
reali e
la preminenza data alle tradizioni delle tribù (se non
proprio al sangue e al
suolo) rispetto ai valori universalistici della democrazia liberale.
Certo
la democrazia
liberale fatica a trovare gli strumenti per superare il limitato ambito
dello
Stato nazionale. Contro l’utopia concreta degli ispiratori e
dei padri
fondatori dell’Europa comunitaria, abbondano anzi, nella
sinistra forse non
meno che nella destra, coloro che teorizzano che solo la nazione
può essere
davvero “il luogo della democrazia”. Ma
è impressionante come la qualità
democratica e liberale delle istituzioni sia ritenuta del tutto
irrilevante da
chi è persuaso che la sede più adeguata e
desiderabile per il governo della
globalizzazione dovrebbero essere le Nazioni Unite, cioè un
organismo che,
nonostante tutti i meriti conseguiti nell’ambito delle sue
funzioni, è composto
in maggioranza da Stati governati secondo principi non democratici, o
comunque
largamente al di sotto degli standard minimi di democrazia accettati in
Occidente. È impressionante come il discredito e la
diffidenza verso la
globalizzazione si estenda ai progetti di integrazione federale
dell’Europa.
Come pressoché nessuno dei contestatori guardi alla
possibile “forza gentile”
dell’Unione europea come a uno dei pochi strumenti capaci di
concorrere a
regolare in modo meno ineguale gli scambi internazionali, e di fungere
da
contrappeso alle spinte egemoniche ed unilateraliste
dell’Amministrazione Bush.
Come quasi a nessuno di loro sembri importare, anche a tale fine, una
riforma
dell’Ue volta a conferirle una maggiore legittimazione
democratica e una
Costituzione. È impressionante vedere come altrettanto
discredito e altrettanta
diffidenza circondino un’istituzione come il Tribunale penale
internazionale
dell’Aia: gli stessi argomenti a suo tempo avanzati contro il
Tribunale di
Norimberga si sono fatti, contro quello dell’Aia, senso
comune. Mentre quasi
nessuno avanza semmai maggiori riserve sui titoli della Russia di Putin
a
sedere in un consesso di grandi democrazie liberali: agli occhi del
popolo di
Seattle la legittimazione democratica di Putin e il suo sistema di
governo
sembrano equivalere a quelli degli europei occidentali.
C’è da scommettere che
lo stesso accadrà nel caso che anche la Cina ottenga in
futuro di entrare a far
parte del gruppo.
Sembrerebbe
fin troppo
ovvio che solo istituzioni sovranazionali possono governare la
globalizzazione.
E che il problema principale del G8 sia costituito proprio dalla sua
inefficacia, dall’incapacità strutturale di
formulare indirizzi e decisioni
politiche comuni e non velleitarie; e inoltre dagli ingenui e ormai
controproducenti intenti propagandistici che stavano alla base della
sua
costituzione (assieme, soprattutto per l’Italia che
inizialmente ne era stata
esclusa, e poi per la Russia, a ragioni di prestigio nazionale:
destinate nel
nostro caso ad essere esasperate nei prossimi mesi dal probabile varo
della
riforma del Consiglio di Sicurezza, con l’ingresso della
Germania e del
Giappone come membri permanenti, che finirà per rendere il
G8 sostanzialmente
un guscio vuoto). Ma quel che suscita ostilità e diffidenza
sempre più
istintive sembra proprio essere ogni richiamo alla necessaria
dimensione
sovranazionale di essenziali decisioni politiche.
L’invocazione
di un
ruolo di governo delle Nazioni Unite non è innocente,
perché non solo mira a
conferire piena legittimità nel governo del pianeta e anche
all’interno dei
paesi democratici a decisioni assunte con il concorso determinante di
decisori
non legittimati democraticamente a rappresentare i loro popoli e
portatori di
culture profondamente autoritarie (il che a molti esponenti del popolo
di
Seattle sembrerebbe, non si comprende perché, molto
più rassicurante); ma anche
perché porterebbe di fatto, più che a governare,
a tentare di arginare, con il
concorso di despoti spesso sanguinari, non solo (e vanamente) la
globalizzazione dei mercati, ma anche (con ben maggiori
possibilità di
successo) quella dei valori etico-politici occidentali. Nella visione
di Kant,
il primo teorico del federalismo come metodo politico per fondare la
“pace
perpetua” fra i popoli, il “primo articolo
definitivo” della sua costruzione
prevedeva, come condizione necessaria, che «la costituzione
civile di ogni
Stato [dovesse] essere repubblicana». Tradotto nel nostro
linguaggio contemporaneo,
nessun progetto democratico di governo della globalizzazione
può essere fondato
che su “società aperte”, su
“democrazie liberali”.
Eppure
il frutto
avvelenato di decenni di esaltazione totalitaria di ogni esperimento
politico
che rigettasse il modello e l’esempio della democrazia
liberale è proprio il
tentativo, consapevole o meno, di bloccare i processi di
democratizzazione nel
Sud del mondo che potrebbero essere innescati (e in minima parte
già lo sono)
dalla spinta all’omologazione economica e tecnologica agli
standard
occidentali; di rallentare la formazione dei presupposti economici e
culturali
che li rendano possibili. È proprio la possibile diffusione
nel resto del mondo
dei principi universalistici e delle imperfette istituzioni
democratiche
proprie dell’Occidente che è vista come una
iattura, come una ferita alla
felice pluralità delle forme di organizzazione sociale dei
popoli della terra.
Qualunque genere di pluralità sembra meritevole di essere
preservato, alla
stessa stregua delle specie viventi: alla più autoritaria
delle culture
autoctone si riconosce lo stesso valore di quelle che tutelano (magari
in
misura insoddisfacente) i diritti umani dei loro cittadini. La
povertà di un
paese sembra giustificare la tortura dei suoi cittadini dissidenti da
parte dei
suoi governanti. O almeno la tortura autoctona sembra preferibile
all’imperialismo culturale omologatore
dell’Occidente.
Proprio
in Italia si
dovrebbe essere invece maggiormente consci del carattere espansivo e
(faticosamente) esportabile della democrazia liberale, dato che la
storia
dell’unificazione nazionale del paese ha coinciso con un
consapevole sforzo di
omologazione ai valori etico-politici e ai modelli istituzionali
prodotti e
sperimentati in precedenza in altri paesi dell’Europa
occidentale. Ed è
precisamente a tale sforzo di omologazione che si deve
(checché ne dicano
Buttiglione e Bossi) quel tanto o quel poco di libertà, di
civiltà e di
prosperità che l’Italia ha saputo conquistare a
partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, tentando affannosamente di recuperare un
ritardo di tre secoli.
Non
piace neppure a noi
una società in cui le conquiste del Welfare europeo,
creazione e
vanto nel secolo che si è appena concluso del riformismo
liberale più ancora
che della socialdemocrazia o del cristianesimo sociale, vengano erose
dalla
concorrenza internazionale, oltre che dal mutamento della composizione
anagrafica delle nostre società, senza essere sostituite da
nuovi meccanismi di
protezione sociale. La crisi del Welfare,
per noi, è una mera crisi finanziaria,
non una crisi di legittimazione morale.
Ma
non è denegando
legittimità e valore all’integrazione fra
democrazie che si creano gli
strumenti per regolare i processi economici che sfuggono alla
dimensione degli
Stati nazionali, per quanto inevitabilmente imperfetti e rudimentali
non
possano che risultare i processi di integrazione in atto, e per quanto
insufficiente, e per molti versi inevitabilmente unilaterale, non possa
che
risultarne l’operato, anche e soprattutto in conseguenza
delle scelte
dell’attuale Amministrazione americana. La
sovranità nazionale non è per noi un
valore da difendere o lo scudo con cui proteggerci da nuove ed
eccessive
libertà e licenze: come per gli autori del
“Manifesto di Ventotene”, le
sovranità nazionali sono per noi, prima di tutto, la
condizione preliminare e
necessaria della guerra. L’Europa occidentale deve al
superamento del totem
delle sovranità nazionali il più lungo periodo di
pace della sua storia, il più
alto grado di prosperità (perfino di relativa
equità) e di rispetto per i
diritti umani mai raggiunto nella storia
dell’umanità. Proprio noi che non ci
accontentiamo del livello di libertà e di democrazia
raggiunto, soprattutto in
Italia, e che anzi lo vediamo pesantemente minacciato, non possiamo
perdere il
senso delle dimensioni e delle prospettive di questo processo storico.
Alcune
delle voci in
cui si esprime il popolo di Seattle ci sembrano parlare un linguaggio
che ha
troppi punti di contatto con quello di chi – e non sono in
pochi nell’Italia di
questi mesi e anni – vorrebbe farci fuoriuscire ancora una
volta, come negli
anni venti anche se in modo più morbido e soffuso di
ipocrisia pretesca, da
un’Europa occidentale vista come la patria di
libertà individuali eccessive,
distruttive e incontrollabili. Magari per rinchiuderci nelle
“genuine
tradizioni” di tante piccole patrie regionali e provinciali
premoderne,
all’ombra di campanili, castelli e armigeri medievali: a
“ritrovare le radici”,
e con esse, se non più roghi e persecuzioni di ogni genere
di minoranza, almeno
qualche libertà e qualche diritto in meno, o comunque
più difficile da
preservare e da conquistare.
Da Critica liberale, n. 72, giugno 2001.
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