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Il garantismo di noi liberali

di Felice Mill Colorni

È garantista chi preferisce ritrovarsi con cento colpevoli a piede libero piuttosto che con un solo innocente in galera; chi ritiene, per conseguenza, che la responsabilità penale di un imputato debba essere provata, come la legge dice ormai anche in Italia, «al di là di ogni ragionevole dubbio» e nel rigoroso rispetto delle procedure; e che i comportamenti oggetto di sanzione penale debbano essere definiti con precisione dalla legge, in modo da escludere interpretazioni estensive delle norme penali anche camuffate o surrettizie.

I liberali sono di solito, anche, fautori di un diritto penale minimo. Preferiscono riservare le sanzioni penali a comportamenti ritenuti irreparabilmente gravi, in linea generale e stabilmente nel tempo, dalla generalità dei consociati, e non semplicemente causa di paure irrazionali fomentate da politicanti ciarlatani alla vigilia delle elezioni: quel che è oggetto di sanzione penale deve essere limitato e chiarissimo a tutti. I liberali poi non si sognano di introdurre sanzioni penali per difendere gli individui contro se stessi, come vogliono i proibizionisti. E inoltre, i liberali sono in genere anche sostenitori di sanzioni miti, possibilmente diverse dal carcere, convinti che la terribilità delle pene, oltre ad essere eticamente spregevole, serva soltanto a rafforzare la propensione a delinquere dei condannati. Il carcere, quanto più è afflittivo, tanto più facilmente si tramuta in un’università del crimine. Un sistema penale feroce non allevia ma aggrava i costi sociali della criminalità.

Garantismo e mitezza del diritto penale sostanziale non sono però sinonimi: il sistema penale americano è in genere considerato alquanto garantista, pur essendo tutt’altro che mite. E né il garantismo né la mitezza delle pene sono sinonimi di “indulgenza”, di “perdonismo”, di «scurdammoce ‘o passato».

Piuttosto, per i garantisti i processi penali devono concludersi con un’assoluzione anche se il giudice ritenga la colpevolezza dell’imputato “molto più probabile” della sua innocenza. Nel miserando dibattito italiano di questi anni si trascura però una conseguenza logica e necessaria di questa premessa: l’assoluzione in giudizio non è affatto garanzia dell’innocenza storica dell’imputato. Se appare anche molto probabile che l’imputato sia colpevole, ma permangono dubbi significativi, o se le procedure prescritte non sono state rispettate, l’imputato deve essere assolto. Così, qualche anno fa in California, O.J. Simpson fu giustamente assolto, perché la difesa dimostrò che una sola delle molte gravi prove a suo carico era stata contraffatta da un poliziotto razzista che voleva incastrarlo.

La conseguenza è che, se i pubblici poteri devono considerare non colpevole un imputato per qualsivoglia ragione assolto o prosciolto, se quindi i suoi diritti e il suo status giuridico non devono uscire in alcun modo intaccati dal processo, i singoli e l’opinione pubblica non sono affatto tenuti a ritenerlo storicamente ed effettivamente innocente in ogni caso. Non solo perché le sentenze, anche penali, anche definitive, in una società libera non sono sottratte a critica pubblica, ma proprio perché l’assoluzione attesta soltanto che l’eventuale colpevolezza non è stata provata in giudizio, secondo le regole pre-stabilite e «al di là di ogni ragionevole dubbio».

Nessun obbligo quindi, se non per lo Stato, di considerare Al Capone colpevole soltanto di evasione fiscale. Meno ancora di ritenere doverosa la ricandidatura di qualunque politicante sfuggito a una condanna penale definitiva, quali che ne siano stati i comportamenti emersi nel corso delle indagini. E meno ancora di considerare “innocente” anziché manigoldo un uomo politico prosciolto da numerose e infamanti imputazioni, magari soltanto per avere approfittato di prescrizioni o amnistie cui avrebbe avuto il diritto di rinunciare per pretendere di essere giudicato nel merito.

Da Critica liberale, n. 186,  aprile 2011.

 

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