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Crisi greca, crisi dell’Euro(pa)?


di Felice Mill Colorni

Non sappiamo se, quando questo numero sarà nelle mani dei lettori, si sarà verificata la possibile catastrofe, o se all’ultimo momento i nostri 27 nani avranno raggiunto il solito compromesso in extremis capace, se non di scongiurarla, almeno di rinviarla di qualche mese o di qualche settimana – fino al prossimo concitato vertice dell’ultimo minuto utile.

Ma la crisi greca è l’ennesima dimostrazione che non è possibile avere un mercato unico, una moneta unica, una banca centrale e nessun manico politico capace di dare i necessari e tempestivi input, di fronte a mercati globali che si muovono non sul metro delle settimane e dei mesi, ma sul metro dei minuti. Anche la proposta, apparentemente coraggiosa, del presidente della Bce Jean-Claude Trichet, di creare un ministro europeo delle finanze, non sarebbe probabilmente all’altezza di quel che è necessario, se il meccanismo di legittimazione di questo nuovo ministro non dipendesse dal Parlamento Europeo, e magari anche del Consiglio, ma dalla volontà unanime dei 27 nani. Un tale “ministro” sarebbe verosimilmente altrettanto efficace quanto il mancato “ministro degli esteri” dell’Unione, degradato prima ad “alto rappresentante” dal trattato di Lisbona, e non sorprendentemente designato poi dai 27 nella figura non propriamente energica di Lady Catherine Ashton: selezionata proprio sulla base del suo profilo non abbastanza alto da poter fare ombra agli Stati.

A molti, e soprattutto a quasi tutti i politici europei, potrà sembrare velleitario riproporre la questione delle istituzioni – anche soltanto limitatamente alla politica economica e monetaria – quando ancora non è stato digerito il Trattato di Lisbona, e quando anzi gli umori prevalenti degli europei sembrano andare a rimorchio di un’agenda dettata dalla ciarlataneria populista antieuropea, cui la politica mainstream, priva ovunque di leader e prigioniera dei sondaggi, sembra incapace di opporre le ragioni dell’integrazione, sempre più fondate e stringenti nel mondo globale. Eppure a imporre il rilancio non è la testardaggine dei federalisti, ma la testarda rigidità dei termini della questione: far governare sostanzialmente l’Unione dai governi dei 27 Stati ha lo stesso effetto che avrebbe far dettare la politica estera o la politica economica dell’Italia o della Germania da riunioni periodiche e decisioni unanimi delle venti regioni o dei sedici Länder, con le loro diverse situazioni economiche, priorità strategiche, interessi geopolitici, maggioranze politiche. Qualcuno potrebbe dubitare che, in tal caso, Italia e Germania potrebbero articolare qualche straccio di politica estera o di politica economica minimamente coerenti e capaci di farsi prendere sul serio dal resto del mondo?

E invece è proprio in un meccanismo del genere che il più grande e ricco mercato unico del mondo, e alcune delle nazioni più sviluppate del pianeta, si sono andati a cacciare. Incredibilmente, è a un tale meccanismo che hanno affidato la stabilità della loro moneta e la prosperità delle loro economie. È per non ledere la sacra sovranità degli Stati membri che si accettarono a suo tempo, quasi a scatola chiusa, i conti pubblici truccati della Grecia: prima al momento del suo ingresso nell’Eurozona e poi fino a quando i persistenti raggiri non dovettero essere alla fine svelati dall’incolpevole Papandreu appena questi fu eletto due anni fa.

Ed è sempre in omaggio alla sovranità degli Stati che, anziché adottare in sede europea, con le usuali procedure democratiche vigenti all’interno degli Stati, le decisioni urgentissime che l’emergenza economica richiede, si deve assistere a inconcludenti minuetti diplomatici in cui, ovviamente, ciascun governo statale non può che essere prigioniero delle scadenze elettorali – statali, regionali, amministrative – che si sovrappongono mensilmente a quelle costantemente dettate dai mercati finanziari. Ogni decisione rinviata è un’occasione in più per la speculazione finanziaria, un’occasione per mettere a repentaglio la stabilità economica dell’Europa, per l’assalto alle finanze pubbliche degli anelli deboli dell’Eurozona, per nuove sciagure e richieste di sacrifici che potrebbero essere tempestivamente prevenute. Alla fine, ogni decisione rinviata è un’occasione persa per difendere la stabilità non solo economica ma anche politica dell’Europa e il suo ruolo nel mondo.

È il metodo che è sbagliato, che non è all’altezza delle sfide. È bassamente demagogico affermare che ci si deve occupare “di quel che davvero interessa ai cittadini” anziché, ancora, dell’Europa. Senza un governo federale dell’Unione, è illusorio pensare di poter affrontare nessuno dei problemi “che davvero interessano ai cittadini”, se e quando questi hanno bisogno di una decisione europea. Salvaguardare la sovranità degli Stati significa soltanto abolire ogni possibile decisione democraticamente legittimata: compromessi unanimistici possono soltanto essere fatti trangugiare a scatola chiusa a Parlamenti statali cui essi vengono proposti come la sola soluzione possibile, rimettere in discussione la quale significa mandare tutto a gambe all’aria. La sovranità statale non solo non garantisce la democrazia: esclude la democrazia e mette a repentaglio la sicurezza economica dell’Unione.

Da Gli Stati Uniti d’Europa, n. 24,  giugno 2011

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