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16/04/2008
-
felice mill colorni - ha senso continuare come prima?
Il
catastrofico risultato delle
elezioni politiche non è figlio soltanto di scelte sbagliate
e di errori
tattici o strategici degli ultimi mesi, ma di un’onda lunga
che viene, almeno,
dal 1993. Non solo degli umori dell’elettorato o della
qualità – infima e
decrescente – della classe politica, ma della cultura civile
del paese, che
probabilmente è oggi molto più aderente ad alcuni
tratti di lunga durata della
sua identità profonda del belletto che l’aveva in
parte occultata negli ultimi
sessant’anni. Avremo occasione di rifletterci con calma, ma
se la domanda è
“che fare”, la risposta secondo me è che
andare avanti a fare più o meno le stesse
cose di prima oggi non avrebbe più molto senso. Bisogna
prenderne atto: non che
l’Italia sia diventata un paese totalitario o
“antidemocratico” in senso forte,
ma è politicamente e culturalmente fuori
dall’Europa occidentale, che per noi è
il solo possibile habitat; e non ha più neppure, nel suo
sistema politico, una
carta minoritaria da giocare per rientrarci. Così come il
sistema politico esce
configurato da queste elezioni, tutti i soggetti che lo compongono e
che sono
sopravvissuti alla progressiva mutazione prima e alla catastrofe finale
di
domenica scorsa poi, per ragioni diverse e in gradi ovviamente molto
diversi,
sono soggetti alieni, non omologabili e non paragonabili alle forze di
centrodestra e di centrosinistra dei sistemi politici degli altri paesi
dell’Europa occidentale. Per noi è il deserto. Non
nel senso che non esista
ancora parecchia gente che abbia opinioni e sensibilità
simili alle nostre
nella società civile italiana, ma nel senso che non esistono
soggetti
organizzati minimamente attrezzati e dotati delle minime risorse
necessarie per
intercettare e rappresentare quelle opinioni e quelle
sensibilità; non ci sono
più maniglie o appigli utili a inserire le nostre
problematiche nell’agenda
della politica, neppure in quella di soggetti magari anche molto
minoritari, ma
esistenti nel circuito politico istituzionale. Non ci sono
più contraddizioni
di minimo rilievo su cui agire. In queste condizioni mi sembra che si
aprano
solo due possibili prospettive: o si trova qualche spezzone di classe
dirigente
(non politica) di questo paese disposto e deciso a investire risorse
non
irrilevanti e capaci di aprire nuove vie, mettendo a disposizione mezzi
adeguati, per lo meno, a una forte presenza mediatica – il
che mi pare
altamente improbabile per usare un eufemismo – o
l’unica cosa che può aver
senso continuare a fare, volendo continuare a fare comunque qualcosa
anche
senza potersi aspettare il minimo risultato concreto nel presente,
è
un’attività molto meno politica e molto
più “accademica”, o educativa, di
quella fin qui svolta. Un’attività che
può servire solo per creare le premesse
di una eventuale rinascita in un futuro imprevedibilmente remoto.
Forzando un
po’ (sottolineo che è una forzatura, anche
leggermente ironica, perché Enzo non
si illuda di vivere nei tempi eroici che sospetto avrebbe preferito):
dalla
“Rivoluzione liberale” al
“Baretti”. È anche vero che la storia ha
sempre più
fantasia di noi, nel bene e, soprattutto, nel male; però
pensare di continuare
a interagire con il sistema politico italiano, come in un modo o
nell’altro
abbiamo fatto finora, mi pare ormai sostanzialmente inutile.
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