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Il Nemico della democrazia liberale. Per Critica è stato facile capire subito il carattere eversivo del berlusconismo

di Felice Mill Colorni

C’è qualcosa di surreale e al tempo stesso di rivelatore nelle polemiche, che impazzano proprio mentre scriviamo, sulla “prova” del carattere ingiustificato delle dimissioni cui fu costretto il governo Berlusconi lo scorso novembre, quando l’Italia si era trovata nell’imminenza del fallimento, dopo aver superato anche la Spagna come prima candidata a seguire la sorte della Grecia. Questa “prova” sarebbe quella fornita in questi giorni dall’andamento della crisi economica e dei suoi indicatori, e in particolare dalla crescita dello spread fra titoli di Stato italiani e tedeschi, che è tornato a toccare i livelli di allora. Ovunque, nel resto del mondo sviluppato, polemiche come queste sarebbero considerate surreali. In Italia sono prese sul serio da una buona parte del sistema politico-mediatico, e quindi dell’opinione pubblica. Queste polemiche non sono che uno dei tanti segni rivelatori del rimbambinimento, probabilmente senza ritorno almeno nel medio periodo, che il nefasto diciottennio da cui stiamo (forse) faticosamente uscendo ha prodotto nella società italiana. Un rimbambinimento che, visibilissimo dall’estero, non appare invece affatto evidente alle vittime, cioè a quasi tutti coloro che vivono sotto quella campana mediatica protettiva al cui riparo il berlusconismo ha potuto nascere, affermarsi, e proliferare, contaminando largamente anche il campo avverso.

Semplicemente è stata abolita l’idea che ci sia un prezzo da pagare per quel che si è fatto per anni e anni, si è affermata la convinzione che in politica nulla di quel che sia fatto con il consenso – comunque ottenuto – della maggioranza degli elettori possa provocare danni destinati ad avere conseguenze di lungo termine. Qualunque scelta gli elettori compiano, anche la più distruttiva, produrrebbe effetti solo per il periodo della permanenza in carica di un cattivo governante; poi, una volta avvenuto il ricambio – anche solo il ricambio dell’esecutivo – si potrebbe ricominciare miracolosamente da zero. Il ricambio al vertice costituirebbe un reset generale, sempre capricciosamente e illimitatamente a disposizione, come in un computer – o come in un videogioco. Nell’Italia uscita dal diciottennio berlusconiano, anche la responsabilità comune del corpo elettorale, delle classi dirigenti, dei media, della politica, non si sa più neppure che cosa sia; come del resto quelle individuali, quasi a ogni livello. Nella vita pubblica italiana, da anni, si può dire e fare qualunque cosa con la certezza che non se ne pagheranno le conseguenze, che se mai qualcun altro rinfaccerà le passate responsabilità, ce la si potrà cavare accusando gli accusatori di altre nefandezze – poco importa se vere (come lo sono, del resto, molte volte), verosimili (sempre, purtroppo, agli occhi dell’opinione pubblica), totalmente false (spesso) o incomparabili con le proprie (nel caso di B sempre e comunque: le sue non sono alla portata di nessun altro). Così è, se vi pare: quel che conta è la potenza mediatica con cui il messaggio è veicolato, non la verifica delle fonti. I fatti non ci sono più, e con loro sono annichilite le responsabilità e qualunque possibilità di comprensione diacronica – che non sia riservata a piccole minoranze – della realtà politica, economica, sociale, storica in cui siamo immersi.

Critica liberale è stata capace di comprendere che cosa fossero B e il berlusconismo fin dal primo momento. Ne è stata capace perché noi “veniamo da lontano” e perché a noi non è mai crollato addosso il mondo. È quel che è avvenuto invece alla maggior parte di quegli ex comunisti ed ex democristiani che avrebbero dovuto essere in questi anni gli oppositori del berlusconismo nel sistema politico-mediatico, orfani ormai di qualunque strumento intellettuale interpretativo della realtà sociale (e spesso convintisi, per questo, che, persa la fede totalitaria o integralista, tutto, o quasi, fosse ormai permesso). Per la tradizione politica cui apparteniamo noi, non vale la regola condivisa da quelle dominanti in Italia: la democrazia si tutela pretendendo il rispetto delle regole del gioco e dei principi della democrazia liberale, non accontentandosi di conservare, in un qualunque modo, un residuo di voce in capitolo e di mani in pasta purchessia.

Per questo possiamo ora dire di aver capito prima e meglio di altri che il conflitto di interesse di Berlusconi non era sovrastruttura, era l’essenza del berlusconismo e lo costituiva fin dall’inizio in veleno per la democrazia liberale e costituzionale. Era la premessa di tutte le leggi eversive e ad personam. Una diversa cultura delle regole avrebbe dovuto suggerire di alzare il ponte levatoio rispetto a ogni ipotesi di riscrivere con una maggioranza berlusconiana le regole costituzionali. E avrebbe dovuto comportare una ben diversa intransigenza nei confronti della continua eversione di ogni regola, di ogni prassi consolidata, di ogni consuetudine costituzionale e di decenza, dell’intero acquis repubblicano. Non era invece possibile essere credibili nella denuncia della degenerazione della democrazia solo in campagna elettorale, dopo che con un tale avversario ci si era proposti addirittura di riscrivere insieme le regole del patto costituzionale. E dopo aver continuato a collaborare nella manipolazione sistematica delle regole del gioco elettorale a ogni scadenza, sulla base della convenienza comune del momento: perfino quando non vi era alcun pretesto per farlo, se non quello di assicurarsi coattivamente e mutualmente una rendita elettorale artificiosa, come fu il caso della riforma della legge elettorale europea, quando Pdl e Pd si accordarono per modificare la legge elettorale alla vigilia stessa del voto, e al solo fine di annientare preventivamente con un espediente “tecnico” i voti degli elettori che sapevano di non poter convincere politicamente della bontà delle loro proposte.

Quel conflitto di interesse su cui il berlusconismo si è fondato fin dall’inizio, e che ne ha permesso la nascita dal nulla, non era la fortuita conseguenza del fatto che a buttarsi in politica fosse un imprenditore televisivo. L’intero sistema di potere economico-mediatico di B era figlio diretto delle degenerazioni della politica della cosiddetta Prima Repubblica, di cui B rappresentava dall’inizio la quintessenza e la personificazione. Non homo novus, ma, all’opposto, prodotto diretto dell’intreccio perverso fra politica ed economia, e concentrato di tutte le perversioni del sistema politico precedente. Prendere uno così per il possibile protagonista, niente meno, che di una “rivoluzione liberale” italiana era nient’altro che avallare la più bieca delle imposture. Il monopolista della televisione commerciale, divenuto tale grazie ai favori di una politica degenerata, sarebbe stato il più inverosimile dei protagonisti anche di una più limitata ristrutturazione in senso liberista della sola economia italiana.

Ma a B dell’economia e della politica italiana non importava un bel nulla. Certo, l’idea di pavoneggiarsi come “capo del governo” solleticava la sua vanità. Se fosse stato possibile avrebbe gradito essere più tardi anche “capo dello Stato”: non ci è capitato pure questo solo per coincidenze fortuite del calendario istituzionale. Ma quel che davvero gli importava, nel 1994 e dopo, era salvare se stesso dalla galera che Mani Pulite gli aveva fatto temere; e le sue aziende dal dissesto che il venir meno delle sponde politiche da cui era stato fino ad allora garantito stava già provocando.

Anni prima non aveva avuto remore a fondare, assieme alla Tv di Stato sovietica, una società mista che aveva acquisito il monopolio della raccolta pubblicitaria proveniente dall’intero Occidente sui  media dell’Urss, con tanto di manifesto che accoppiava il logo di Publitalia alla falce e martello della Tv sovietica (Domanda ingenua: chi, all’epoca, avrebbe potuto fare da mediatore politico per la conclusione di un accordo del genere?).

Allo stesso modo, ritrovatosi in politica, si guardò intorno per raggruppare qualunque asset gli potesse essere utile per formare una potenziale maggioranza, come avrebbe fatto per dare la scalata a una società commerciale. Trovò disponibili la Lega Nord – all’epoca secessionista e incattivita con gli italiani del Sud, ma non ancora sanfedista e razzista come sarebbe divenuta da sua alleata anni dopo – assieme al partito dei clericali estremisti (e di vivaci ambienti siciliani), e a un partito allora neofascista senza complessi, che fin dal nome si richiamava alla fase nazifascista della parabola del fascismo storico. Nella prima conferenza stampa, in cui (inaugurando un ipermercato realizzato in società con sinistri figuri) annunciò l’intenzione di buttarsi in politica, dichiarò che, fra il segretario del partito allora orgogliosamente neofascista e un ex radicale ambientalista in lizza per il ballottaggio alle amministrative di Roma, avrebbe appoggiato il primo, perché “moderato”. Fu la sua prima presa di posizione politica e il primo atto di fondazione di un Newspeak che ha prima contaminato e poi distrutto il vocabolario della politica italiana, separandola dal resto dell’Occidente sviluppato. Chi fosse B noi lo comprendemmo quel giorno stesso, non ci serviva altro.

Fu così che a una parte cospicua della società italiana che, a torto o a ragione qui non importa, era in cerca del suo Reagan o della sua Thatcher, fu rifilato e rivenduto come loro versione italiana un uomo unicamente interessato a usare il potere politico per fare, a qualunque costo, i propri interessi personali. Quella parte della società italiana richiedeva a gran voce riforme liberiste. Il monopolista della Tv commerciale per grazia della politica si diede un’immagine liberista. I suoi oppositori, il cui elettorato aborriva sopra ogni cosa riforme liberiste, avallarono la truffa, e in B combatterono (si fa per dire) non una politica indecente e indegna di una democrazia sviluppata, l’impersonificazione del conflitto d’interesse, i carichi pendenti, l’analfabetismo civile, le frequentazioni inimmaginabili, l’alleanza con gli estremisti o la macelleria costituzionale – tanto meno il clericalismo sanfedista – ma il temuto liberista. La truffa bipartisan elevò così B al rango di un rispettabile conservatore britannico o di un repubblicano americano: un avversario politico normale, da contrastare per i suoi (figuriamoci) “programmi”, per le sue “opinioni”.

Queste “opinioni”, tranne qualche fisima da bar Sport, non esistevano: e i “programmi” del berlusconismo, in un certo senso, sono scritti veramente “dal basso”, perché sono il risultato di ricerche di mercato e ricalcati su quel che i consumatori spontaneamente desiderano. Come tali, possono variare nel tempo senza problemi. I desiderata dei clienti elettori vanno soltanto subordinati, in caso di eventuale attrito, ai prioritari interessi personali del capo, giudiziari e societari, e vanno coordinati con le esigenze minime e incomprimibili dei clienti alleati, e degli altri stakeholders della coalizione politico-sociale-territoriale di riferimento. A cominciare dalla gerarchia cattolica, la cui discrezione estrema per i comportamenti sessuali pateticamente esibiti dal capo è stata facile da acquistare in cambio di leggi contro i diritti civili e soprattutto di un fiume di denaro estorto dalle tasche dei contribuenti, per mille diverse vie e a ogni livello.

Il culture clash suscita un po’ di spontaneo razzismo fra i propri elettori? Gli si forniranno leggi, omissioni e spiritosaggini razziste e omofobe. Si scandalizzeranno davvero solo gli addetti ai lavori che seguono con interesse la politica internazionale negli altri paesi sviluppati. Ma questi non votano: della reputazione internazionale dell’Italia, come un tempo, chissenefrega. Tv e giornali racconteranno che l’Italia di B è finalmente rispettata nel mondo; e a smentire non saranno certo albergatori, ristoratori, animatori e guide turistiche stranieri, poco affascinati dagli sviluppi della politica italiana e comprensibilmente più interessati a ingraziarsi la clientela che a contraddirne le stravaganti illusioni. I vacanzieri italiani tornavano a casa rassicurati.

Un po’ di spazio B lo riservava, come sfizio, ai suoi imbarazzanti pallini e fisime “culturali”, spesso applauditi da dipendenti e sprovveduti come negli sketch storici di Petrolini. Più consistenti i fiumi di denaro pubblico dirottati, in nome di continue emergenze reali e molto più spesso pretestuose, agli affari degli amici, e degli amici degli amici: blindando appalti e contratti con penali capaci di imporli anche ai successori.

Freni, contrappesi, garanzie, regole e controlli, cioè quel che costituisce il fulcro della democrazia liberale, andavano sistematicamente attaccati e delegittimati, in quanto limiti all’onnipotenza del vincitore delle elezioni, titolare ed espressione mistica di una volonté générale direttamente scaturita dalla sovranità nazionale, e come tale non suscettibile di condizionamento alcuno alle deleghe conquistate. Ogni limite, di ordine interno e costituzionale, o derivante dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea o da altri obblighi internazionali, veniva denunciato come illegittimo e iniquo, distruggendo in buona parte quarant’anni di sforzi di integrazione e omologazione europea del paese.

Anzi, le sole riforme cui la maggioranza di B riteneva proficuo dedicarsi, il più delle volte con la complicità e il concorso dell’“opposizione”, erano quelle più nocive. Non abbiamo una costituzione anche formale da repubblica delle banane, sostanzialmente privata del controllo di costituzionalità delle leggi, solo perché il referendum costituzionale del 2006 è coinciso con una momentanea saturazione dei nostri concittadini per la ciarlataneria populista: si fosse votato due anni dopo, grazie a B vivremmo oggi come nell’America latina degli anni Settanta.

Oggi è normale, dopo il diciottennio di fango, trovare italiani, non solo sostenitori di B, e non solo culturalmente o socialmente svantaggiati, che ripropongono l’idea di “democrazia” di B come un’ovvietà, come se si trattasse di un’idea condivisa da altre democrazie sviluppate nel mondo. Come se la democrazia consistesse davvero nel “fare quel che vuole la maggioranza”, qualunque cosa essa possa volere, incluso lo stravolgimento delle regole del gioco, o nel trasferimento dei poteri dei monarchi assoluti in capo a un eletto dal popolo. D’altra parte, B è, e si ritiene, un democratico proprio in quel senso. Non è alla democrazia che è estraneo: è estraneo, non mai sfiorato, mai contaminato, da qualunque cosa che sia imparentata, anche alla lontana, con il liberalismo e con il governo delle leggi. Ma, pur essendo stato, molto cinicamente, accolto nelle file del Partito Popolare Europeo – che è così diventato stabilmente e per anni il partito di maggioranza relativa nel Parlamento Europeo – viene gratificato in Italia del titolo e della qualifica di liberale da un mondo politico-giornalistico che non si accorge neppure di quanto sia stato anch’esso ridotto da B a una condizione di diffuso analfabetismo politico e civile, e privato perfino del vocabolario di base.

Difesa personale di B contro la giustizia penale e guerra alle garanzie costituzionali a parte, tutto il resto poteva essere trascurato: conti pubblici, compatibilità, riforme economiche e amministrative, informatizzazione, riduzione delle bardature corporative, sfoltimento del sottobosco politico-amministrativo; e ovviamente diritti umani, rule of law, ruolo del Parlamento, obblighi europei e internazionali, scuola pubblica, università, ricerca scientifica, ambiente, decenza civile, memoria storica, residua libertà dei media televisivi.

Invece, la stretta proibizionista e la progressiva criminalizzazione degli immigrati irregolari, motivate solo da spregevole demagogia, stanno artificiosamente e inutilmente creando, nelle carceri oscenamente sovraffollate, una generazione di delinquenti incattiviti e perfettamente italofoni, a vantaggio esclusivo delle mafie, che alimenterà nei prossimi anni nuova criminalità e sempre nuove campagne politiche demagogiche e populiste.

Le leggi oscurantiste, i progetti, le intemerate in materia di testamento biologico, di fecondazione in vitro e ricerca sulle staminali, il boicottaggio del diritto delle donne all’aborto, la guerra agli anticoncezionali di emergenza, il mancato riconoscimento dei diritti dei gay, l’assenza di politiche di integrazione, il razzismo e l’omofobia instillati da questa politica irresponsabile, stanno progressivamente allontanando l’Italia dall’Europa anche in campo culturale, rendendola sempre più simile invece, con questa classe politica, a un paese della costa Sud del Mediterraneo o del Medio Oriente.

Il debito pubblico, certo in buona parte ereditato, è stato incrementato ulteriormente anziché ridotto quando c’erano condizioni migliori per farlo, nonostante la pressione fiscale abbia raggiunto, proprio durante l’ultimo governo Berlusconi, il più alto livello nella storia d’Italia fino ad allora e il più alto d’Europa, con i servizi e le infrastrutture pubbliche peggiori dell’Europa occidentale. Il povero “vampiro” Padoa-Schioppa non nascondeva al paese la gravità della situazione ereditata (in larga parte proprio da B), e la conseguente inevitabilità di un’alta pressione fiscale: ridusse il debito pubblico al 103% del Pil. Con la stolta esibizione di ottimismo di B e le demagogiche promesse buone solo per fargli vincere le elezioni – «meno tasse per tutti» – la pressione fiscale è costantemente aumentata, e il debito pure, oltre il 120%. Fosse almeno servito, keynesianamente, allo sviluppo. L’Italia è invece il paese che, nei dieci anni precedenti le dimissioni di B – otto dei quali con lui a capo del governo e gli altri due senza stabile maggioranza nelle Camere – è cresciuto di meno, non fra i soli paesi europei, non fra i soli paesi sviluppati, ma nel mondo, con l’eccezione di una manciata di Stati fra i più disastrati del terzo mondo. Lo sfacelo economico e civile è servito solo a farlo restare in sella, a fargli vincere le elezioni, a metterlo al riparo dalla giustizia penale, a fargli regalare centinaia di milioni alle aziende di sua proprietà a spese dei contribuenti con una sola legge “ad aziendam”. E a fare la fortuna della consorteria, degli alleati più disponibili all’obbedienza canina, delle rispettive corporazioni  e clientele elettorali parassitarie, dei complici. E di escort, prosseneti, tenutarie e prostituti intellettuali in giornali e tv private e pubbliche.

E intanto i tagli all’istruzione pubblica e l’annichilimento della ricerca scientifica comprometteranno stabilmente il futuro e la posizione dell’Italia in Europa e nel mondo, anche quando dovesse arrivare la ripresa dell’economia globale.

Lo sfacelo ha gettato un’ondata di indiscriminato disprezzo sulla democrazia rappresentativa e sulle sue istituzioni, che ha impressionanti e sinistre analogie con l’ondata antiparlamentare degli anni Dieci del Novecento che, anche allora rovesciatasi simultaneamente da destra e da sinistra – e rafforzata dall’immane shock esterno allora fornito dalla Grande Guerra – portò alla fine della democrazia e all’instaurazione della dittatura.

Così, alla fine (e non è detto che sia ancora arrivata) il berlusconismo è passato come una catastrofe devastatrice su un’Italia che già prima non godeva per nulla di buona salute, né dal punto di vista economico, né civile, né politico. Costringendo in un’unica coalizione tutti gli oppositori – il corrispettivo di un sistema politico intero in un paese normale, con l’aggiunta di frange neocomuniste e clericali altrove inesistenti o irrilevanti – il berlusconismo è riuscito a impedire la stessa esistenza di uno schieramento alternativo di opposizione capace di qualunque minima efficienza e coerenza. I diciotto anni persi al risanamento e alle riforme hanno, purtroppo per noi, coinciso con quelli della maggiore crisi dell’economia globale degli ultimi ottant’anni. Il loro lascito, a cominciare dal debito, è oggi una pietra al collo che avrà conseguenze imprevedibili nell’immediato e comunque disastrose per i destini del paese nei prossimi decenni.

E pare che non basti ancora. È perfino possibile che ci aspetti una campagna elettorale giocata – come sembrano suggerire le prime pagine del giornale di famiglia di B – sull’uscita dell’Italia dall’Europa e dall’euro. Se le cose sono andate male nelle sue precedenti esperienze di governo, non è per sua responsabilità, ma perché «non lo hanno lasciato lavorare». Se non ha potuto mantenere nessuna delle sue promesse, è stata sempre colpa di qualcun altro: oppositori mai abbastanza docili, alleati non del tutto sottomessi, procuratori, giudici, intellettuali, imprecisati “poteri forti” diversi dal suo (e che ciascuno riempia pure questo contenitore-Spectre con le proprie idiosincrasie personali: industriali delle vecchie famiglie o nuovi finanzieri, comunisti o massoni, eurocrati o islamisti, editori ebrei o accademici, americani o francesi).

Con una politica condizionata da diciotto anni da uno così, con uno schieramento alternativo così mediocre e con nuovi irresponsabili pagliacci populisti all’orizzonte, c’è bisogno di evocare complotti internazionali per spiegare l’aumento dello spread? Ma voi a uno così fareste credito? E fareste credito, a pochi mesi dalle elezioni, a un paese, già indebitato fino al collo, e che pure è capace di farsi governare per tre volte da uno così? O anche soltanto che è capace di tenersi per diciotto anni uno così come proprietario di uno dei due poli del proprio sistema politico? O si crede che basti spostarlo da Palazzo Chigi, cercare di nasconderlo sotto il tappeto, per azzerare in qualche mese i danni che ha prodotto, il discredito, l’imprevidenza – e il gigantesco debito che ci ha lasciato?

 Da Critica liberale, n. 200-201, giugno-luglio 2012

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