Malaffare e riformismo vero
di
Felice Mill Colorni
Non sappiamo ancora se
la rottura dei tabù liberali e democratici verificatasi in Italia sia destinata
a rimanere un’anomalia o se il caso italiano non sia stato, come già
ottant’anni fa, il principio di un’infezione: se cioè quella rottura delle
dighe della democrazia e della decenza abbia partorito un movimento europeo
verso un nuovo ripudio della democrazia liberale e dei suoi valori. Non più,
questa volta, nella direzione di un totalitarismo di tipo fascista, ma verso un
populismo impaurito e rancoroso, pronto a sacrificare ogni conquista civile
della modernità, e a ritirare ogni delega alle élites
bene o male ancora legate a quelle conquiste, per consegnarla a capi
plebiscitari sprovveduti di ogni memoria storica, a ciarlatani tanto più
rassicuranti quanto più sprovvisti di competenze e soprattutto di una cultura
politica diversa dalle chiacchiere assorbite al bar, in famiglia o davanti a un
televisore. Come ottant’anni fa, l’esempio italiano ha dato la stura a repliche
più repellenti dell’originale, ma, almeno finora, senza che alle forze di
questo nuovo populismo cialtrone si siano aperte anche altrove le porte del
potere governativo (con la sola eccezione, per ora, dell’Austria di Haider).
Proprio la gravità
della situazione impone però di discernere fra quel che costituisce una rottura
di principi e valori decisivi per il corretto funzionamento della democrazia
liberale e le opinabili scelte politiche e sociali che possono accompagnarvisi
o meno, che possono anche essere oggetto di aspre battaglie civili, ma che
rientrano pur sempre nella normale dialettica politica democratica.
Che sia capo del
Governo una persona imputata di gravi reati comuni; che costui controlli
direttamente o indirettamente pressoché tutte le catene televisive del paese e
gran parte dell’informazione stampata; che il Parlamento sia mobilitato per
mesi a stravolgere principi costituzionali, leggi e trattati internazionali pur
di mettere al riparo il capo della maggioranza e i suoi sodali dal rischio di
essere giudicati da qualunque giudice; che esponenti del Governo interferiscano
apertamente nei processi in cui sono coinvolti i loro uomini; che gli avvocati
difensori della consorteria al potere assumano ruoli determinanti nelle
istituzioni; che in queste condizioni si possa anche solo pensare di approvare
una legge sul conflitto di interessi farsesca come quella propugnata dalla
maggioranza; che suoi esponenti pretendano di riabilitare e onorare il passato
totalitario dell’Italia e molti suoi protagonisti; che all’interno del Governo
siano presenti esponenti politici che hanno passato quasi tutta la loro vita
adulta da nostalgici del regime fascista; che ve ne siano altri che esprimono
opinioni, valori e visioni del mondo radicalmente estranei a qualunque versione
della modernità politica occidentale; che si gridi alla lesa maestà quando
gravissimi comportamenti deviati di appartenenti alle forze di polizia vengono
sottoposti al vaglio del giudice penale; che si accusino delle peggiori
nefandezze le istituzioni europee cui l’Italia deve in gran parte la propria
ritrovata stabilità, prosperità e rispettabilità internazionale dopo la
catastrofe fascista: è questa commistione di malaffare e di estraneità alla
democrazia liberale, ai suoi valori e alla storia della Repubblica che rende il
caso italiano, almeno per il momento, un unicum nel mondo occidentale.
Di fronte a questo unicum
sta però un’opposizione di sinistra che è stata anch’essa, per lunghi anni,
un’eccezione. Per meglio dire, lo è stata quella sua parte maggioritaria e
comunista che è poi quella le cui strutture sono in qualche misura
sopravvissute, sia pure largamente modificate, al crollo del vecchio sistema
politico. Anche questa sinistra non aveva iscritti nella sua tradizione e nella
sua cultura i valori e le regole della democrazia liberale, ma li ha dovuti
apprendere cammin facendo, attraverso un duro apprendistato segnato dalle
disillusioni, dalle sconfitte e dal discredito che hanno sepolto ogni speranza
legata alla tradizione comunista. Questa sinistra aveva conosciuto la stagione
dei suoi maggiori successi nelle lotte sociali e operaie della vecchia società
industriale, che in qualche modo ne avevano riscattato e messo in secondo piano
l’ingombrante matrice ideologica. È naturale che essa veda oggi nella difesa
delle conquiste di quegli anni un promettente terreno di rilancio e di
rivincita. Ed è naturale che parta lancia in resta in difesa dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori, tanto più che, secondo il responso dei sondaggi, si
tratta di un terreno su cui pare possibile battere la maggioranza.
Lungi da noi ostacolare
una battaglia politica su cui sarà forse possibile mettere in difficoltà
l’imbarazzante consorteria che ci governa, tanto più che, dall’una come
dall’altra parte, sull’art. 18 si gioca palesemente una partita che sottintende
altro: per il Governo si tratta di perseguire una disfatta simbolica e
devastante del sindacato, visto come ultima struttura ancora vitale
dell’opposizione di sinistra; per l’opposizione si tratta di tentare di
infliggere alla maggioranza una prima e significativa sconfitta politica, che
ne incrini il consenso su un terreno ritenuto propizio. Il rilievo politico
della questione travalica quello effettivo di una norma che risulta essere
stata invocata l’anno scorso in meno di cento casi individuali nell’intero
paese.
Ci sembra che
bisognerebbe però tenere anche conto di due importanti elementi.
Innanzitutto l’art. 18,
così com’è formulato, è caratteristico della legislazione italiana: se
pressoché in tutti i paesi europei (tra l’altro anche per effetto dell’art. 30
della Carta europea di Nizza, se e quando le sarà data forza di legge) il
lavoratore dipendente è tutelato contro i licenziamenti senza giusta causa, la
tutela attuata tramite la reintegrazione automatica anziché tramite un congruo
risarcimento è invece una peculiarità dello Statuto italiano. Nel merito,
astraendo, se fosse possibile, dal suo rilievo politico, la controversia
attorno all’art. 18 riguarda una norma su cui è del tutto lecita una varietà di
opinioni, e non ogni sua eventuale modifica può essere denunciata, come il
conflitto di interessi o il tentativo di sottomettere i giudici alla volontà
del potere politico o la rivalutazione strisciante del fascismo o i pestaggi di
manifestanti arrestati o le strizzate d’occhio alla xenofobia, come un vulnus
a un principio fondamentale della democrazia liberale. Si tratta piuttosto di
una scelta di politica del diritto che può anche essere aspramente avversata, e
con buone ragioni, ma che impone di valutare l’efficacia dell’art. 18 rispetto
allo scopo di assicurare diritti e dignità ai lavoratori e di non nuocere
all’aumento dell’occupazione. Affermare che qualunque modifica dell’assetto
vigente dei rapporti di lavoro equivalga in ogni caso ad una scelta eversiva di
principi fondamentali della convivenza civile e della democrazia rischia di far
perdere credibilità alla denuncia delle vere anomalie e vergogne italiane.
Ma soprattutto, se
all’epoca della società industriale l’art. 18 poteva essere visto come la
chiave di volta di tutto il sistema dei rapporti di lavoro, perché senza la sua
esistenza tutto il sistema delle garanzie poteva essere aggirato tramite il
ricorso a licenziamenti arbitrari, oggi quella società industriale non esiste
più. Inventare diversi e più articolati meccanismi di tutela del lavoro, che
tengano conto dell’elementare esigenza di equità che impone di assicurare una
parità tendenziale di garanzie anche ai lavoratori “atipici” (che si avviano
forse a diventare i più tipici delle nostre società), riformando l’assetto
complessivo degli ammortizzatori sociali, è una necessità anche (o soprattutto)
per la sinistra, che comunque non potrà essere elusa per molto.
Il sindacato fa il suo
mestiere nel difendere le sue conquiste del passato, tanto più che nessuno sembra
proporre le necessarie nuove soluzioni, ma solo un brutale braccio di ferro
politico, mirante ad azzerare ogni difesa sociale e a sbaragliare quel che
resta del centrosinistra. Ma questa difesa dell’esistente non ci sembra il solo
possibile mestiere dei riformisti e di una sinistra capace di proporre ricette
praticabili e programmi alternativi e di guadagnarsi un consenso che vada oltre
il residuo zoccolo duro del proprio elettorato tradizionale. Il rischio è di
segnare magari un punto contro l’avversario, ma di ritrovarsi poi privi di una
proposta alternativa di governo del paese. E di nobilitare la maggioranza,
conferendole gratuitamente dignità di alternativa politico-culturale e
credibilità di forza liberista e modernizzatrice: cosa che non ha il minimo
riscontro nella realtà.
Qui non sono in causa
in causa la decenza civile, il rispetto della legalità costituzionale, i
principi della democrazia liberale, all’intransigente difesa dei quali abbiamo
sempre richiamato una sinistra spesso latitante. Quel che invece è qui in causa
è soprattutto la capacità riformista della sinistra italiana.
Da Critica liberale, n. 79, marzo 2002
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